di Sergio Moccia. Cattedra di Procedura Penale Università Federico II, Napoli.
Il ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario (o.p.g.) nel nostro vigente ordinamento è una sanzione penale, in particolare una misura di sicurezza. Nel codice Rocco le sanzioni penali si distinguono in pene, fondate sulla colpevolezza ed applicabili ai soli soggetti capaci d’intendere e volere, ossia “imputabili”, e misure di sicurezza, fondate sulla pericolosità sociale, per i soggetti c.d. non imputabili.
Questa distinzione ha un senso teoretico solo riconoscendo, senza tentennamenti, la presenza nell’uomo della libertà del volere, su cui si fonda la colpevolezza. Ma questo assunto presenta due insormontabili inconvenienti che ne evidenziano l’inaccoglibilità nel nostro contesto socio-ordinamentale: da un lato, il contrasto strutturale con i principi fondamentali dello Stato di diritto e, dall’altro, il vizio d’irrazionalismo sul piano ontologico. In sintesi, dal punto di vista della tutela dei diritti dell’individuo, non si riesce a giustificare come, sulla base di una supposizione incerta sotto il profilo della razionalità – la presenza del libero arbitrio – e dunque attingibile soltanto fideisticamente, si possa in democrazia fondare l’inflizione della pena criminale, che rappresenta, indubbiamente, uno degli interventi statuali più duri in ordine a libertà e personalità individuale.
Ma un destino analogo tocca anche alla pericolosità sociale, cioè al presupposto dell’altra specie di sanzione, la misura di sicurezza, e tra esse il tremendo ricovero in o.p.g. Infatti, com’è noto, non vi è alcuna certezza quanto alla definizione di affidabili parametri valutativi su cui poggiare il giudizio di pericolosità, né dal punto di vista delle scienze mediche né da quello delle scienze sociali. Per quel che concerne, invece, i riferimenti normativi alla pericolosità sociale, il codice penale, attraverso il combinato disposto degli artt. 203 e 133 c.p., rinvia letteralmente agli stessi parametri a cui va conformato il giudizio di colpevolezza – quello fondato sulla libertà del volere ed incarnato nell’imputabilità –, diametralmente opposto, dal punto di vista ontologico, al giudizio di pericolosità che è previsto per i non imputabili: un vero e proprio guazzabuglio sul piano teoretico, di cui tutto sommato potremmo infischiarci, se da esso, dal punto di vista politico-criminale, non derivassero quelle conseguenze insopportabili per il destino di tanti disgraziati, indegne per uno Stato civile e, tra esse, proprio il mantenimento dell’o.p.g.
La verità è che solo attraverso una chiara, decisa riforma, sia pur, per ora, solo parziale del sistema delle sanzioni si potrà almeno porre rimedio alla vergogna degli o.p.g. Attualmente è consentito il ricovero in o.p.g. indipendentemente dalla gravità del reato commesso, essendo sufficiente la realizzazione di un fatto di reato sanzionato con la pena della reclusione superiore nel massimo a due anni, per una durata potenzialmente illimitata e, dunque, anche per un tempo di gran lunga superiore al massimo edittale previsto per il reato commesso. E discrasie analoghe si registrano anche per quel che concerne la ben diversa disciplina prevista per la carcerazione preventiva e per l’applicazione provvisoria di misura di sicurezza detentiva.
In realtà, sarebbe ora di abolire le misure di sicurezza e, dunque, di eliminare la possibilità della loro durata a tempo indeterminato nonché la loro applicabilità provvisoria – sempre procrastinabile a tempo indeterminato – in favore dell’adozione di una sanzione unificata, che abbia come presupposto un concetto deeticizzato di responsabilità derivante dalla mera commissione del reato: esso troverebbe fondamento normativo nell’art. 54 Cost., che sancisce l’obbligo di obbedire alle leggi, rinunciando ad infide mediazioni di ordine pseudo-metafisico – come il libero arbitrio –, e si caratterizzerebbe per dar vita ad un giudizio fondato sulla proporzione tra fatto di reato e sanzione, con la conseguenza,nel caso di condanna,dell’inflizione di una sanzione a tempo determinato. All’interno di questa nuova categoria del reato rientrerebbero sia il fatto dell’imputabile che quello del non imputabile, giudicati in maniera uniforme. È evidente come, in un tale contesto, l’imputabilità perderebbe quella centralità che attualmente riveste, per divenire uno degli oggetti del giudizio di responsabilità (accanto, ad esempio, a dolo o colpa, grado della dannosità sociale, tipo di offesa al bene tutelato, circostanze concomitanti), integrando altresì un indice di predisposizione di un’offerta d’integrazione sociale con caratteristiche contenutistiche magari differenziali rispetto a quella predisposta per l’autore di reati che sia portatore di problematiche di disagio psichico,ma da porre in atto,per entrambe le tipologie di autori di reato,sempre entro il tempo determinato dalla sentenza passata in giudicato.
A me sembra che questa via avrebbe dovuto essere imboccata già immediatamente dopo l’entrata in vigore della legge 180/1978, la c.d. legge Basaglia: essa, capovolgendo l’orientamento precedente, poneva solide premesse per un deciso superamento anche in ambito penalistico del binomio disagio psichico – pericolosità sociale, tagliando alla radice il fondamento per qualunque forma, più o meno mascherata, di automatismi sanzionatori.
Ed infatti, dopo la la legge 180/1978, ad onor del vero, in materia vi sono stati interventi, in qualche modo, migliorativi della normativa, sia da parte della Corte costituzionale (primo fra tutti: Corte costituzionale, sentenza n.139/1982 che dichiarava illegittima, tra l’altro, proprio la presuzione di pericolosità sociale per le persone prosciolte per infermità psichica) che del legislatore (per esempio, art.31 della legge n.663/1986 che abrogava del tutto l’art.204 del codice penale sulle ipotesi di pericolosità sociale presunta); ma, come appare evidente, tali interventi hanno avuto ad oggetto aspetti limitati della disciplina, che non hanno inciso sull’impostazione di fondo del sistema. Alla stessa stregua, la proposta di riforma del senatore Marino, pur essendo sicura espressione di “buona volontà”, si limita in sostanza a prevedere lo spostamento degli internati dagli o.p.g. in altre strutture di dimensioni notevolmente ridotte e, quindi, molto meglio gestibili, ma non affronta alcuno degli altri punti nodali della questione, mantenendo la durata a tempo indeterminato della sanzione, l’insussistente prognosi di pericolosità e l’applicazione provvisoria del ricovero (quella senza giudizio): le cose restano inalterate.
Forse la prevista “polverizzazione” territoriale dei “manicomi” potrà migliorare la condizione degli internati – e non è poco -, ma si tratterà soltanto di una mera “riduzione del danno”, francamente insufficiente e, diciamolo pure, deludente rispetto alle aspettative suscitate dalla meritoria indagine della Commissione Marino.
(da Il Manifesto)