di Luigi Benevelli

Domenica 25 aprile scorso a Volta Mantovana Omar Bianchera, 43 anni,  ha eseguito una vera e propria “condanna a morte” di tre persone:  la ex moglie, una anziana vicina di casa 71enne, il figlio di una persona con cui aveva avuto un contenzioso per questioni di soldi e affari. Armi del delitto: due pistole ed un fucile a pompa regolarmente denunciate che, pare, avrebbe potuto usare solo al poligono di tiro. Si racconta  che Bianchera, divorziato da 10 anni, che si trovasse in gravi ristrettezze economiche anche perché di recente condannato a risarcire la ex moglie della somma di 30.000 euro.

Omar Bianchera aveva il porto d’armi, la patente di guida, andava a sparare al tiro a segno, frequentava una palestra per tenersi in forma, faceva  la sua vita. Magari non era granché socievole e di compagnia, era molto ma molto arrabbiato con la moglie che pare avesse dovuto provvedere a blindare la porta della propria casa temendone le irruzioni, ma che risulta non lo avesse mai denunciato ai Carabinieri che a loro volta non avevano evidentemente avuto ragioni per negare  il possesso e l’uso di armi. Parenti, qualche amico, oltre alle vittime conoscevano il suo stato d’animo, l’accumularsi di una forte aggressività.

Sui mezzi di informazione di questi giorni è stato scritto “troppa  gente pericolosa è libera di colpire”,; “più trattamenti psichiatrici coatti e prolungati” sono stati invocati.

Omar Bianchera non si era mai rivolto al Cps del suo distretto socio-sanitario, e non  risulta che abbia mai frequentato né psichiatri né psicologi da cliente “privato”né che la sua esasperazione sia mai stata segnalata ai servizi sanitari o alle agenzie di sicurezza locali (carabinieri). Questo non vuol dire che si sentisse bene, ma che egli riteneva di poter risolvere le sue questioni  senza bisogno di “accompagnamento” e consigli e che chi lo conosceva non era a tal punto preoccupato da richiedere interventi , soccorsi “esterni” . La sintesi  possono essere le parole del sindaco di Volta Mantovana  (che  è anche un medico di famiglia) che ha parlato dell’omicida e della moglie come di “due cittadini come tutti gli altri, come Comune non c’è mai stato motivo di occuparcene” (Gazzetta di Mantova,  26 aprile 2010).

Invece “La Stampa” di Torino del 26 aprile ha titolato sulla strage di Volta Mantovana “L’Italia dei pazzi armati” invocando la riapertura dei manicomi, addebitando quanto accaduto alla carenza dei trattamenti psichiatrici. A gettare benzina su questo fuoco ci si è messo anche il prof. Francesco Bruno, criminologo romano celebre anche perché frequentatore del salotto di Bruno Vespa, che dichiarava “quell’uomo è un malato. Un depresso (…) Qualsiasi psichiatra ne avrebbe potuto riconoscere i sintomi e fermare la mano” (Gazzetta di Mantova, 27 aprile). Sulla base di questa fulminante affermazione, pare di capire che se il triplice omicidio non è stato evitato la responsabilità è della mancanza di uno  psichiatra che  abbia letto o sia stato messo nelle condizioni di leggere per tempo nel pensiero del “reo folle”. Proprio così, perché deve essere chiaro, dice il  prof. Bruno che ci troviamo di fronte a delitti compiuti da un folle. Il professor  Francesco Bruno è uno dei  “signori” delle perizie psichiatriche, di quegli esperti di cose umane chiamati nel corso dei  processi a stabilire se al momento di compiere il reato, l’autore del crimine fosse in grado di intendere e di volere, quindi dopo che il reato è stato commesso.  Ma nel nostro caso egli si è pronunciato su ciò che altri non avrebbero fatto prima, argomento sul quale non però deve avere molta esperienza non lavorando in un servizio di salute mentale:  che i locali servizi di salute mentale possano sapere e intervenire per tempo è del tutto improbabile, infatti, se la persona in questione o chi la conosce non avvertono una  situazione che rischia di sfuggire di mano.

Io non so se Omar Bianchera sarà sottoposto a perizia psichiatrica e quali saranno le conclusioni della stessa; per adesso, almeno dalle informazioni disponibili so che né  Omar Bianchera né chi lo conosceva o aveva a che fare con lui hanno pensato di rivolgersi ad una agenzia psichiatrica o ad allertare i Carabinieri. Se ciò corrisponde al vero, tuttavia sono del tutto comprensibili gli interrogativi in ordine a come è possibile prevenire drammatici  eventi come quelli di Volta Mantovana. Tanto più che Volta Mantovana non è una grande metropoli dove la gente va per la sua strada e nessuno vede niente, né, come nei film western un villaggio dove si può girare armati a farsi giustizia da sé, ma un piccolo, ricco comune della collina morenica dove si potrebbe dire che c’è controllo sociale, dove  tutti conoscono tutti, nessuno passa inosservato. O forse si potrebbe dire che c’era un forte controllo sociale, che anche a Volta Mantovana le donne e gli uomini sono più soli, isolati di prima, o meglio ancora che negli ultimi anni il forte controllo sociale è stato indirizzato agli immigrati, dando per scontato che dei nativi, vale a dire i “nostri”, c’è da fidarsi.

Quanto accaduto pone invece un ulteriore problema, in rapporto alla condizione non tanto e non solo della salute mentale di Omar Bianchera, ma a quella della comunità locale nel suo complesso. In altri termini ci si può chiedere se i servizi di salute mentale debbano accontentarsi di aspettare l’arrivo o la segnalazione di chi sta male e della sua famiglia o se invece non possano svolgere un ruolo più attivo nella vita di quella determinata popolazione, non da soli certamente perché devono essere supportati da politiche di coesione sociale. A questo, mi pare, ha fatto riferimento Luigi  Ferrannini, presidente della Società italiana di psichiatria che a commento della vicenda di Volta Mantovana ha affermato:

 Diverse le cause che portano a gesti folli, ma è il contesto ad avere oggi un ruolo sempre più importante. Il complesso di elementi che producono comportamenti a rischio non necessariamente coinvolge persone già in trattamento . Come nei recenti episodi delle depressioni post parto, di situazioni di famiglie divise dove la donna rimane sola, sono scenari che non vanno letti soltanto come il prodotto di una mente, ma di una mente all’interno di un contesto di risorse, di aiuti, di supporti, anche sanitari ma non solo. Leggiamo la complessità dei contesti e non riconduciamo i fatti soltanto alle patologie quasi ci fosse un nesso di causalità che dice che a fronte di una data patologia non può che succedere qualcosa.

Sono  evidenti quindi la strumentalità dei titoli de “La Stampa” e delle dichiarazioni del prof. Bruno: cogliere l’inquietudine e lo smarrimento dell’opinione pubblica di fronte a gravissimi delitti contro la persona per spostare la discussione sul lavoro, le finalità e l’utilità dei servizi pubblici di assistenza psichiatrica italiani come sono oggi.  Il signor Omar Bianchera con le sue responsabilità non c’entra niente.

A tale riguardo Peppe Dell’Acqua, direttore del dipartimento di salute mentale di Trieste, ha scritto al direttore de “La Stampa” lamentando che

non si è pensato di informare i lettori, con un paio di semplicissime cifre, che questa stessa Italia dei “folli autolesionisti” è, tra i paesi d’Europa (e non solo), il paese con il numero di suicidi più basso. E che, dati alla mano, i suicidi messi in atto dagli italiani nel 70% dei casi non hanno nulla a che vedere con la “follia” o malattia mentale non curata a causa di “un’ostinazione ideologica” smascherata dagli “ultimi fatti di cronaca”. E che altre nude e crude statistiche accessibili a ogni giornalista, familiare e cittadino che li volesse consultare, confermano dati alla mano, che di malattia mentale non solo ci si può curare, ma anche grazie al cielo guarire. Più precisamente, si guarisce nel 25% dei casi di schizofrenia severa e nel 50% si guarisce socialmente, conquistando le persone ruoli lavorativi, sociali e di cittadinanza che, con un supporto terapeutico adeguato, le rendono cittadini autonomi, partecipi, produttivi e realizzati oltre che contenti di esserlo.

Forse non è casuale la coincidenza con il fatto che presso la XII Commissione Affari Sociali della Camera è cominciata la discussione sulle proposte di legge di modifica della legislazione in vigore, nota giornalisticamente come “legge Basaglia”.

I testi presentati da deputati del centrodestra sono costruiti in risposta a cronache giornalistiche e racconti di delitti  attribuiti a persone con disturbi mentali, invece che sulla conoscenza di quanto succede nella realtà  quotidiana dei servizi di salute mentale che operano secondo quanto scritto nel primo comma dell’art. 33 della legge 833/78:

gli accertamenti ed i trattamenti sanitari sono di norma volontari.

Stanno crescendo le spinte per indurre una deriva dei servizi di salute mentale in direzione di una  «psichiatria difensiva»  (rispetto ai rischi della relazione con chi sta male e fa fatica a vivere) che porta ad abdicare alla funzione alla cura, ad intendere l’assistenza come braccio della magistratura o della polizia, a più trattamenti coatti, a evitare le situazioni più emblematiche e rischiose (e quindi minore tutela della comunità), più ricorsi al giudice, al carcere all’Ospedale psichiatrico giudiziario, a una sicurezza (dello psichiatra) ottenuta tramite la coercizione del paziente.

A fronte di questa offensiva restauratrice del buon ordine manicomiale, se  il diritto alla  salute mentale e a una buona assistenza psichiatrica sono,  e certamente lo sono, un problema di ordine nazionale, vale la pena piuttosto di chiedere conto alle Regioni del lavoro da loro svolto in questi trent’anni per assicurare alla popolazione  buoni servizi di salute mentale. Perché potrebbe essere che molte Regioni abbiano fallito l’obiettivo.  Gli amministratori regionali e locali, i dirigenti delle Aziende sanitarie  in questi trent’anni sono stati infatti titolari delle politiche per la salute mentale, hanno avuto a disposizione due progetti-obiettivo nazionali e, da ultimo, le indicazioni in materia di esecuzione dei t.s.o. licenziate dalla Conferenza Stato-Regioni- autonomie. Che ne hanno fatto?

Recenti vicende come quella del Comune di Milano (con l’istituzione del tavolo della pericolosità sociale e la proposizione di percorsi separati per gli utenti certificati “pericolosi” dai servi pubblici ), quella dello sgombero in Calabria di Serra d’Aiello (e annesse delibere regionali che prevedono un nuovo grande internamento senza diritti e senza tutele- ma con molti affari, fra cui l’apertura del nuovo manicomio di Girifalco), quelle di pazienti morti legati nell’Spdc di Vallo di Lucania e di Cagliari e quelle delle condanne di operatori giudicati responsabili di reati compiuti da pazienti loro affidati (tema della sovrapposizione di cura e di custodia), ci dicono della necessità di ottenere risposte, chiarimenti, attribuzioni di responsablità sulla base di un confronto leale con le persone più coinvolte, in primis operatori, famiglie, pazienti e amministratori locali.

Bisogna fare il possibile per evitare che si vada (ritorni) verso una psichiatria di manicomi, contenzioni, coazioni affidata a medici demiurghi.  Anche perché,  in sintonia con quanto affermato di recente dal ministro Fazio che non vi è nessun bisogno di riforma della legge, ma di monitorare costantemente la rete dei servizi pubblici e privati accreditati, di perseguire una omogeneità di offerta su tutto il territorio nazionale, di ribadire che gli operatori dei Dsm hanno solo responsabilità in ordine a diagnosi, cura e riabilitazione, non alla custodia e nemmeno a svolgere funzioni di “psicopolizia”.

Riproporre la presunzione della pericolosità sociale dei malati psichici vuol dire ignorare  che i soggetti con questi problemi non delinquono in maniera superiore rispetto ai soggetti “normali” (con esclusione degli alcolisti e dei tossicodipendenti), anzi più spesso sono oggetto di violenze piuttosto che attori di violenze. Le cronache di questi giorni sono piene di episodi criminali, spesso efferati, compiuti da persone in apparenza “normali”, per ragioni per lo più passionali o patrimoniali. Concentrare l’attenzione solo sulla salute mentale è fuorviante e richiama la logica del pregiudizio, dello stigma.

Va affermato che le persone con disturbo mentale e le loro famiglie hanno comunque e sempre diritto a:

–  ricevere cure adeguate , essere informate sui percorsi possibili ed essere protagonisti delle scelte terapeutiche;

– essere accolte in servizi accoglienti, ospitali, rispettosi della dignità del cittadino;

– continuità terapeutica anche tramite l’integrazione fra pubblico e privato nella declinazione dei percorsi dei trattamenti, specie nelle situazioni più gravi;

– sostegno attraverso l’auto-mutuo-aiuto;

– casa e lavoro;

I recenti drammatici fatti di cronaca nera hanno scatenato prese di posizione che se sono comprensibili sul piano dell’emotività, risultano sbagliate e devianti sul piano delle conclusioni operative. Le persone che hanno compiuto gravissimi delitti erano state lasciate sole non dalla psichiatria ma da comunità che non sono state in grado di offrire né solidarietà né controllo sociale. Per questo fare salute mentale significa non solo occuparsi di chi soffre di disturbi psichiatrici ma anche della qualità delle relazioni sociali e della vita sociale delle comunità a livello locale (prevenzione, lotta allo stigma, riabilitazione).    

L’aspetto da porre al centro di una  riflessione il più possibile comune è quello della facilitazione, della coltivazione e della promozione della confidenza nelle relazioni fra servizi pubblici e utenti ( e viceversa),  vera pre-condizione perché si possa parlare di salute mentale. Anche perché, come ha scritto di recente Eugenio Borgna, una psichiatria che si affida solo agli psicofarmaci è una psichiatria senz’anima e senza speranza nell’uomo. Va confermata quindi la centralità della persona anche perché, come afferma il documento del direttivo della Società italiana di psichiatria, marzo 2009,

non vi sono evidenze scientifiche che la coazione prolungata di un trattamento(…) porti ad una maggiore efficacia della cura.

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