«Ho vissuto due settimane nell’inferno dei manicomi giapponesi»

PARLA IL GIORNALISTA E SCRITTORE: Negli anni Settanta si è fatto ricoverare in clinica fingendo di avere grossi problemi con l’alcol

Una bella sbornia di sakè. Una faccia tosta che pochi giornalisti, ormai, sanno indossare. E la disponibilità dei familiari, disposti a denunciarlo come alcolista incallito. Così è iniziata l’avventura di Okuma Kazuo, sano come un pesce nonché cronista del principale quotidiano di Tokyo ”Asahi Shimbun”, nell’inferno di un manicomio giapponese.

Erano gli anni Settanta. Okuma Kazuo, laureato in Storia e Filosofia della Scienza all’Università di Tokyo, riuscì a superare senza problemi la diffidenza dei sanitari della clinica sanitaria che aveva scelto. Trattato da ubriacone irrecuperabile, costretto a vivere in ambienti degradati, sporchi, sovraffollati, per due settimane ha avuto la possibilità di vedere da vicino come venivano ”curati” gli ammalati. Alcuni anziani colpiti da demenza senile erano chiusi dentro stanze che assomigliavano a gabbie. Gli altri languivano in stanzoni sovraffollati. Se chiedevano di essere dimessi, toccava loro in punizione l’elettroshock.

Okuma Kazuo, che da quell’esperienza ha tratto prima un reportage e poi un libro di grande successo, è arrivato a Trieste in questi giorni assieme a una delegazione formata da psichiatri, assistenti sociali e giornalisti giapponesi, per confrontarsi con Peppe Dell’Acqua e tutto lo staff che ha raccolto l’eredità di Franco Basaglia.

L’abbiamo intervistato grazie alla collaborazione del giornalista Sato Yasuo, che da quarant’anni vive e lavora a Roma come corrispondente di ”Chuniki Tokyo Shimbun”.

«Ero autore soprattutto di articoli di argomento sociale – spiega Okuma Kazuo, che sul biglietto da visita si dichiara giornalista, baritono e ottimo cucinatore, anche di pizze -. Un giorno ho pensato di fingermi vagabondo e di iniziare a girare in un quartiere di Tokyo che è frequentato soprattutto da giovani. Sei mesi dopo ho deciso di farmi ricoverare in un manicomio».

Perché?

«Nessuno ne parlava. Erano gli anni Settanta, ero un giornalista trentenne che voleva sapere. Mi sembrava fosse un problema di grande impatto sociale. Decisi di andare a verificare di persona come si viveva in un manicomio».

I manicomi in Giappone, allora, non godevano di buona fama?

«In un ospedale, in particolare, si erano verificati episodi gravissimi Si parlava di omicidi, di obbligo di lavori forzati per i ricoverati. Uno psichiatra mi ha consigliato: se riesci a fingerti alcolizzato, ce la puoi fare».

E lei?

«In un primo tempo pensavo di fingermi schizofrenico. Ma era troppo difficile. Poi, anche se non ero certo un tipo che amava l’alcol, decisi di ascoltare quel suggerimento. Così, quando ho deciso di presentarmi in ospedale, la mattina ho bevuto un bel po’ di sakè. Dovevo essere credibile. Sono riuscito anche a vomitare. Insomma, mi ero calato totalmente nella parte».

I medici ci sono caduti?

«Assolutamente sì. Neanche il primario riusciva a capire che la mia era una recita, una finta. Mi sono trovato subito a contatto con una situazione che non posso non definire spaventosa».

Com’era il manicomio?

«I gabinetti non avevano le porte, così ai pazienti era negato quel minimo di intimità perfino quando dovevano fare i loro bisogni. Poi c’erano delle stanze, simili a gabbie, in cui rinchiudevano gli anziani dementi».

Ospedali statali?

«No, il novanta per cento degli ospedali, in Giappone, è privato».

Quanto ha resistito?

«Eravamo in trenta in una stanza, il cibo faceva davvero schifo. Sono rimasto lì per due settimane. Quando i miei familiari hanno chiesto che mi dimettessero, i medici hanno risposto: ”Sarebbe opportuno non farlo”».

E lei, allora?

«Ho rischiato di restare lì. Trattato da alcolista cronico. Però quando i medici hanno saputo che non potevamo pagare, che non avevo una tessera sanitaria, allora sono stato dimesso immediatamente».

Non voleva mostrare la tessera sanitaria di giornalista?

«No, altrimenti mi avrebbero smascherato. Quando sono uscito, mi sono documentato per un bel po’ sulle altre cliniche. E ho scoperto una situazione che era identica a quella che avevo vissuto sulla mia pelle».

Si sentiva in prigione?

«Molto peggio. Credo che le prigioni giapponesi non siano così sporche, così deprimenti».

Ma le persone ricoverate potevano ricevere la visita dei parenti?

«Di tanto in tanto, sì. C’era una sala molto bella, arredata bene, dove il paziente veniva portato ad aspettare i familiari. Era sempre accompagnato da un infermiere, non lo mollava mai, controllava tutto quello che diceva».

Prima il reportage su ”Asahi Shimbun”, poi il libro: due autentiche bombe?

«Il libro ha venduto oltre 300 mila copie. Ho ricevuto un sacco di lettere. Qualche paziente mi ha scritto: ”Per me è andata ancora peggio”».

E le cliniche come hanno reagito?

«L’associazione dei proprietari delle cliniche, ma anche quella degli infermieri, mi hanno attaccato pesantemente. Dicevano che avevo ferito il loro orgoglio professionale. In realtà, i miei articoli, il libro, rischiavano di mandare gambe all’aria i loro affari. Ogni paziente viene considerato un capitale, non un ammalato».

Ci sono state ispezioni?

«All’inizio, io non avevo indicato il nome della clinica. La descrizione, però, era precisa, così dopo un po’ hanno mandato un’ispezione. Risultato? Hanno deciso di chiudere la stanza dove ero stato ricoverato io. Il resto no».

Lei, allora, non sapeva nulla di Franco Basaglia?

«No, appena alla metà degli anni Ottanta è arrivata in Giappone la notizia che l’Italia aveva approvato una legge per l’abolizione dei manicomi. Mi sembrava straordinario. Così, con degli amici psichiatri, ho voluto organizzare subito un viaggio nel vostro Paese».

È venuto a Trieste?

«Sì, ho incontrato i collaboratori di Basaglia. Ho visto anche la sua casa a Venezia. E ho scoperto che si poteva fare a meno dei manicomi. Quando ho scritto il mio reportage, il libro, non avrei immaginato neanche lontanamente che una città potesse vivere normalmente senza più un ospedale psichiatrico».

Nel resto d’Italia non era così…

«No, Trieste era all’avanguardia. Molti anni dopo, Mariagrazia Giannichedda mi ha invitato e io sono ritornato in Italia. Nel 2006 ho voluto vedere com’era cambiato l’ospedale di Santa Maria della Pietà a Roma. Con i miei occhi mi sono accorto che l’impossibile era diventarto possibile. Così ho deciso di scrivere un altro libro: ”Il Giappone dei manicomi e l’Italia senza manicomio”, che poi ha vinto il Premio Basaglia nel 2008».

Com’è cambiata la situazione in Giappone?

«Il primo libro non è servito a nulla, purtroppo. Il secondo ha mosso qualcosa, soprattutto nell’opinione pubblica. Ma il numero dei letti è aumentato di 100 mila unità rispetto agli anni Settanta. Insomma, ci vuole ancora tempo perché venga accettata l’idea di chiudere i manicomi».

di ALESSANDRO MEZZENA LONA

 (da Il Piccolo del 14 aprile 2010)

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