“A Trieste, nel manicomio di San Giovanni, la ricostruzione identitaria e il tentativo di ricomporre le fratture così profonde nelle storie delle persone diventavano, di giorno in giorno, un imperativo categorico. Dovevamo ascoltare e favorire il racconto dell’altro. Non bastava mai. Le vie d’uscita si potevano trovare soltanto nella trasformazione, seppure lenta, del quotidiano. Bisognava tornare nei luoghi che da anni le persone avevano lasciato. Era necessario stare insieme per ore e per giornate intere. I piccoli viaggi, le vacanze al mare o in montagna -allora un’assoluta novità- permettevano lenti ma inesorabili avvicinamenti. A poco a poco le persone trovavano il piacere di raccontare la loro vita. Era facile raggiungere la casa di Livio a San Giacomo, non era altrettanto semplice per Giovanni, Ljubo, Boris, Eufemia toccare le pietre della loro casa. Il sogno di coltivare le patate, il segno del delirio, si realizza, restituisce l’ottimismo nell’umanità e dimostra il potenziale che queste persone possiedono, malgrado le offese subite. Non c’è nulla di perduto, mai. Giovanni era stato rinchiuso per 25 anni ed era stato costretto a nascondere i suoi ricordi per difendersi dal dolore della lontananza. Ma, appena messo piede nel cortile della sua casa, l’osteria, la barca, i compagni, i parenti sono ritornati a vivere. Questi ritorni non finivano mai di interrogarmi : com’era stato possibile andar via? Com’era stato possibile lasciare la piccola vigna di Buroli, e Cherso, e Parenzo, e Portole, e Giurizzani? E l’azzurro e le pietre bianche? E non andar via per scelta, ma per una dolorosa obbligazione, con la consapevolezza dell’impossibilità del ritorno.”
(Dalla prefazione di Peppe Dell’Acqua, Dopo venuti a Trieste, Storie di esuli giuliano-dalmati attraverso un manicomio di confine 1945-1970 di Gloria Nemec. Collana 180, Archivio critico della salute mentale. Edizione Alpha Beta Verlag, Merano, 2015.)