di Benedetto Saraceno
Segretario Generale, Lisbon Institute of Global Mental Health
da Saluteinternazionale.info
13 ottobre 2021
“La Cura è azione pratica e affettiva al tempo stesso. Questa doppia natura richiede competenze pratiche e competenze affettive. Spesso i famigliari mancano delle prime e gli operatori sanitari delle seconde. La Cura è il nuovo nome della pace“.
La Cura è il nuovo nome della pace, dice don Renato Sacco di Pax Christi e la Cura è stata al centro della tematica della marcia della Pace di Assisi di quest’anno. La Marcia Perugia Assisi della pace e della fraternità svoltasi il 10 ottobre 2021 promuove la diffusione della cultura della cura, premessa indispensabile per la transizione verso una società e un’economia della cura. E, si dice, presto le Nazioni Unite inaugureranno il decennio dedicato a celebrare la Cura.
Sempre di più si utilizza il termine Cura, e in modo spesso enfatico e retorico, senza tuttavia che sia chiaro cosa ognuno intenda con tale termine divenuto sinonimo di “pratica buona”. Ma quando le parole diventano troppo usate, quando diventano polisemiche e passe-partout per dire qualcosa che non si sa bene più cosa sia e che, comunque, per ognuno significa qualcosa di diverso, allora è arrivato il tempo di fare una pausa: rivisitare con calma, con attitudine studiosa e critica il senso di una parola che rischia di divenire parte dell’insopportabile vocabolario del politically correct. “Dobbiamo sviluppare una mentalità e una cultura del prendersi cura capace di sconfiggere l’indifferenza, lo scarto e la rivalità che purtroppo prevalgono. Cura delle giovani generazioni, cura della scuola, cura degli altri, cura del pianeta, cura del bene comune e dei beni comuni, cura dei lavori di cura, cura della città, cura dei diritti umani, cura della democrazia… C’è bisogno di una politica e un’economia della cura”[1]. Come non essere d’accordo ma cosa intendiamo quando usiamo la parola Cura in ognuno di questi specifici e ben distinti universi: dai giovani al pianeta, dalla democrazia ai diritti umani? Sembra, ancora una volta, che la parola Cura si riferisca ad un troppo vasto contenitore ove si stipano universi che, ciascuno separatamente, meriterebbe analisi, definizioni, politiche, strategie, interventi.
In questa breve nota mi limiterò a riflettere sulla nozione di Cura quando essa è riferita a quelle pratiche di assistenza e accudimento necessarie a molti soggetti disabili che, fino dalla nascita o nel corso della loro vita, perdono gravemente la propria autosufficienza fisica e mentale. A ben vedere in italiano il termine Cura non allude tanto al Prendersi Cura (come i termini Care/Caring in inglese) ma, piuttosto, alle azioni terapeutiche esercitate dalla medicina. Infatti, quando in italiano vogliamo dire che qualcosa o qualcuno cui teniamo molto ha bisogno di sollecitudine, di attenzione, di assistenza diciamo che “ci prendiamo cura” di qualcuno o di qualcosa. Prendersi cura, dunque, allude a un insieme di azioni di sollecita assistenza e di accudimento continuo.
“A livello più generale, suggeriamo, che la Cura venga considerata come una specie di attività che include tutto ciò che noi facciamo per conservare, continuare e riparare il nostro mondo in modo da potervi vivere nel miglior modo possibile. Quel mondo include i nostri corpi, noi stessi e il nostro ambiente, tutto ciò che cerchiamo di intrecciare in una rete complessa di sostegno alla vita”[2]. Questa citazione è da Joan Tronto che in un saggio classico del femminismo sistematizza la nozione della Cura, la sua etica e la sua politica. Non è certo un caso che sia una femminista a offrire una lettura articolata e innovativa della nozione di Cura, anche contestando la idea che l’etica della cura appartenga al pensiero morale ed emozionale femminile in contrapposizione alla etica dei diritti tipica del pensiero morale e razionale maschile. Non è così, e la cura invece è un insieme di pratiche che possono essere esercitate sia da uomini sia da donne: la Cura, dunque, non è tipica o naturale di un genere rispetto a un altro. Invece, troppo spesso la femminilizzazione della cura viene ritenuta “naturale”, perché legata a un imprecisato istinto materno. In tal modo il sistematico sfruttamento delle donne nelle attività di cura viene santificato ma non riconosciuto come una risposta non retribuita a un diritto, il diritto di coloro che hanno bisogno di essere accuditi e assistiti.
La cura non è né femminile né maschile perché essa è semplicemente umana. Un bellissimo saggio della filosofa Luisella Battaglia ci aiuta a capire come il “caring” ossia il prendersi cura non sia semplicemente un insieme di azioni dettate da una disposizione d’animo ma una complessa componente della vita umana, una categoria centrale dell’analisi sociale e della teoria filosofica. Si chiede la Battaglia, “Quali potrebbero essere, dunque, le condizioni perché la cura venga incorporata nella nostra visione politica? Sembra necessario, innanzitutto, ripensare profondamente i nostri assunti sulla natura umana, riflettendo, in particolare su due concetti cruciali, dipendenza e autonomia”[3]. Le pratiche della Cura costituiscono una immensa mole di lavoro che, tuttavia, “continua a essere svolto, di solito senza retribuzione e senza che venga pubblicamente riconosciuto come lavoro. Organizzarlo in modo da non sfruttare coloro che si prendono cura degli altri sembra essere un altro compito centrale di una società giusta. “Un tempo si era soliti ritenere che questo lavoro dovesse essere svolto da persone (soprattutto donne) che non erano cittadini a pieno titolo e che, comunque, non avevano bisogno di lavorare fuori casa. Alle donne non era chiesto se volessero farlo: era semplicemente il loro dovere, e si riteneva che lo svolgessero per scelta, per amore, anche se di solito avevano poche possibilità di decisione in merito”. Questa lunga citazione da Martha Nussbaum[4] contiene tutti gli elementi utili a una discussione approfondita sulla nozione di Cura. Ci dice la Nussbaum che la cura non solo è una attività non retribuita ma che essa viene assegnata a persone che non godono pienamente dei diritti dei cittadini oppure viene assegnata alle donne, dunque, in qualche modo assimilate a una categoria di persone con diritti più limitati rispetto agli “altri” cittadini (gli uomini). Ancora, ci dice la Nussbaum che la pratica della cura non viene scelta dalle donne ma è ritenuta doverosa (in quanto “naturale”) e infatti è compiuta “per amore”, dunque per naturale istinto (materno) verso chi di cura e accudimento ha bisogno. Infine, essendo la cura una pratica che scaturisce dall’amore, essa è, per sua natura, un fatto privato e intimo. La Nussbaum riesce a cogliere tutte le distorsioni che, a tutt’oggi, caratterizzano la retorica della Cura.
In contrasto con tale retorica dobbiamo affermare che la cura non deve essere considerata come valore esclusivo del mondo vitale delle donne ma “occorre piuttosto rivendicarlo come centrale nella vita umana” (cit. in Battaglia). Inoltre, la Cura non è una dimensione esclusivamente emozionale e privata ma appartiene anche alla dimensione sociale e pubblica. Tale dimensione pubblica pone quindi la Cura al di fuori della esclusiva sfera del privato, regolato da contratti individuali e affettivi ma la pone anche dentro una dimensione pubblica e istituzionale, in quanto Diritto. Infatti, chi ha bisogno di accudimento, di cura e assistenza continua non è soltanto un essere umano che merita pietà ma un cittadino che esige un diritto: la cura è un diritto. Troppo spesso invece, la cura, malgrado sia un diritto, per chi ne ha bisogno resta una oblazione da parte di chi la presta. È questo il caso della assistenza e accudimento ai disabili e agli anziani non autosufficienti. Al diritto di queste persone viene offerta esclusivamente la oblatività/dovere dei famigliari senza che tale “servizio” venga riconosciuto, sostenuto, finanziato. La cura si occupa di bisogni corporei, di bisogni psicologici ma anche di bisogni organizzativi e amministrativi. La cura cioè si occupa anche di quello che l’antropologo americano Arthur Kleinman ha definito “social suffering”. Nella cura si coniugano atti intimi e privati e atti sociali: la cura è anche una pratica sociale che richiede “politiche”, finanziamenti e sostegni. Come scrive Kleinman, la Cura è in cerca di una propria collocazione a pieno diritto nella agenda della salute[5] e, dunque, essa ha bisogno di entrare a fare parte della formazione degli operatori della sanità, della cultura degli amministratori e dei pianificatori e deve essere riconosciuta come una componente centrale della salute umana e della sanità.
Non vi è dubbio che la cura sia al tempo stesso un’azione gratuita e una pratica professionale. L’esistenza di un legame personale fra curato e curante può essere benefica ma anche divenire un fattore di rischio per l’eccessivo coinvolgimento e il rischio di burn-out. D’altra parte, se l’assenza di legame può rappresentare una garanzia di maggiore competenza e professionalità, al tempo spesso può determinare una assenza di empatia. Dunque, si tratta di equilibri delicati che richiedono maturità emotiva, responsabilità, competenze e sinergie fra dimensione privata e istituzioni pubbliche. Inoltre, la Cura è un processo continuativo e non può essere occasionale in quanto si protrae nel tempo e all’interno di una o più relazioni. Ecco perché la Cura necessita sia continuità sia del coinvolgimento di un numero ragionevolmente limitato di persone per evitare che si trasformi in occasionale accudimento materiale, senza empatia. I soggetti che hanno bisogno di assistenza e accudimento hanno infatti bisogno di affidarsi a pochissime persone e non possono adattarsi a un turn over casuale e burocratico di troppi operatori. Allora, diciamo che la cura è un insieme di azioni tangibili, concrete e misurabili ma essa si invera soltanto se prestata insieme ad attitudini intangibili quali gentilezza, delicatezza, discrezione, rispetto. Dunque, la cura è azione pratica e affettiva al tempo stesso. Questa doppia natura richiede competenze pratiche e competenze affettive. Spesso i famigliari mancano delle prime e gli operatori sanitari delle seconde. Questa doppia natura della Cura costituisce in sostanza la sua complessità e la sua trasversalità nella vita di ognuno: una attività alta e profondamente umana poiché coniuga l’intimità segreta e privata dei corpi, la gentilezza e il rispetto per i viventi, le pratiche umili e quotidiane dell’accudimento ma anche la consapevolezza di non essere solamente solitari produttori di oblatività ma parti di una comunità umana e sociale fatta di solidarietà e di concreti sostegni istituzionali. La Cura è dunque un complesso atto bio-psico-socio-politico.
In conclusione, diciamo che ben venga un decennio di celebrazione della Cura da parte delle Nazioni Unite che possa costituire l’occasione per aprire un cantiere di riflessione, studio e dibattito filosofico, giuridico e politico sul significato delle pratiche della Cura rivolta ai soggetti non autosufficienti. Tuttavia, dobbiamo fare sì che questa sia anche una opportunità storica per interrompere l’implacabile destino delle donne, costrette al ruolo di vestali della Cura come se fossero designate dalla Natura, riconoscendone piuttosto il ruolo di soggetti con diritti indeboliti. Una opportunità storica per abbandonare la insopportabile retorica della Cura e formulare invece una sua nuova etica e una nuova politica.
Benedetto Saraceno
Segretario Generale, Lisbon Institute of Global Mental Health
Articolo originale >>> https://www.saluteinternazionale.info/2021/10/la-cura/