Grottaferrata: bambini disabili picchiati e segregati. Vercelli, Borgo d’Ale, Sereni Orizzonti: calci, pugni e sevizie. Grottammare, la casa di Alice: Ragazzini autistici costretti… Savona… Decimomannu…
di Carlo Giacobini
È ovvio che sia accaduto e continui ad accadere.
E, se non si scalzano le cause, è altrettanto inevitabile che continui a riproporsi.
Decimomannu, Grottaferrata, Borgo D’Ale: sono solo gli ultimi casi in cui la disumanità scavalla l’eterea narrativa per assumere consistenza sotto le telecamere della Polizia di Stato e dell’ Arma dei Carabinieri. Spezzoni di filmato che hanno il merito di impedire allo sguardo e al pensiero di rifugiarsi in convinzioni più rasserenanti.
È fin troppo puerile liquidare le vicende come violenza e depravazione degli operatori ai quali augurare il peggio, sofferenze da contrappasso dantesco, maledizioni e insulti più o meno icastici.
Ridurre il tutto alla colpa – che pure c’è – del singolo confermal’esistenza di una coercizione antica trasformata in sistema e modello organizzativo, verniciata da welfare moderno, finanziato, accreditato, coccolato, considerato quasi una forma di filantropia anche se si nutre a piene ganasce di risorse pubbliche e private. E ne cerca – e trova – sempre di nuove
Non c’è da stupirsi che, in quei luoghi basati sulla costrizione, la violenza e le molestie allignino come una pianta grassa. È l’annullamento stesso dell’individualità che ne è il presupposto. E le vittime sono le persone anziane, le persone con disabilità, quelle più ricattabili facendo leva sull’assistenza che si fornisce loro magnanimamente. Si abbatte su quelle più deboli e financo meno credibili quando denunciano molestie, quando tradiscono la violenza subita quotidianamente con comportamenti apparentemente anomali. “Sono deliri persecutori”: quante volte l’abbiamo sentita dagli stessi parenti delle vittime di fronte ai loro lamenti?
La violenza va oltre gli schiaffi, le sberle, gli insulti. Transita negli apparentemente motivati strumenti della sedazione, delcontenimento, dell’isolamento, della deprivazione di spazi, di privacy, di individualità.
Niente di nuovo: l’ha scritto Basaglia 50 anni fa. “L’assenza di ogni progetto, la perdita del futuro, l’essere costantemente in balia degli altri senza la minima spinta personale, l’aver scandita e organizzata la propria giornata su tempi dettati solo da esigenze organizzative che – proprio in quanto tali – non possono tenere conto del singolo individuo e delle particolari circostanze di ognuno: questo è lo schema istituzionalizzante su cui si articola la vita dell’asilo.” (in “la distruzione dell’ospedale psichiatrico come luogo di istituzionalizzazione”)
La scelta di dove, come e con chi vivere è un miraggio, un diritto umano limitato, compresso, messo fra parentesi. Viene preclusa la possibilità di un abitare dignitoso, di vivere significative opportunità ed esperienze di inclusione sociale, di autodeterminazione, di cittadinanza, a sviluppare relazioni interpersonali e forme di interdipendenza con la comunità locale e le sue istituzioni. E di esprimere e arricchire le proprie competenze e abilità sul piano fisico, intellettivo e relazionale, di ritardare per quanto possibile la perdita della propria autonomia
Non c’è da stupirsi che questo annullamento produca violenze. Non c’è da meravigliarsi che quelle considerazioni di Franco Basaglia siano ancora attuali, non riguardino più solo i “suoi matti”, ma pervadano RSA, Comunità, Istituti nei quali sono segregate persone anziane e con disabilità.
Quei luoghi vanno chiusi. Quei luoghi non devono ricevere finanziamenti pubblici né privati. Ci deve riflettere la politica – a tutti i livelli – prima che lo facciano la Magistratura e le Forze dell’Ordine.
Quei luoghi vanno chiusi nei tempi e nei modi più razionali possibili, ma con l’unico faro di salvaguardare le persone non certo per garantire il tempo del riciclo delle strutture e degli interessi che vi ruotano. Quei luoghi vanno chiusi distruggendo radicalmente le premesse della segregazione, la logica e i modelli culturali e organizzativi di cui sono intrisi. Costruendo nuovi percorsi, non certo riverniciando o riqualificando alla bell’e meglio le vecchie residenze, col cartongesso che divida pareti per simulare una capienza più familiare.
Nel frattempo bisogna gettare le basi per i servizi per l’abitare più umani e dignitosi, più inclusivi e trasparenti, con opportunità non contenzione, fissando il punto fermo che la prima scelta è quella di vivere l’età adulta e la terza età nella dimensione più domiciliare e familiare possibile, attivando servizi, supporti, trasferimenti economici adeguati.
Quanto queste variabili vengono oggi valutate, monitorate, pretese da chi sottoscrive convenzioni, eroga rette, contribuisce finanziariamente alla realizzazione di queste istituzioni? Punto o poco: meglio lambiccarsi sui metri quadrati, sul numero di posti letto, sull’importo della retta, sulla componente sanitaria o su quella sociale, sulla partecipazione alla spesa da parte dei singoli o sulle mansioni degli operatori.
In questo scenario è ingenuo domandarsi: com’è possibile che esistano ancora questi lager?
Ci sarebbe invece da chiedersi come venga considerata la specificità di ogni singola persona, le sue peculiarità, le sue caratteristiche, le sue aspettative di vita, le sue relazioni con l’ambiente. Figuriamoci: molte persone con disabilità intellettiva nelle quali sopravvenga unadisabilità psichica non ricevono nemmeno una diagnosi dai servizi di salute mentale, come se la sopraggiunta malattia mentale sia un sintomo secondario, ineluttabile e manco da considerare. Ne deriva che convivono negli stessi ambienti persone con problemi psicotici, schizofrenici, depressivi, fobici … gestiti farmacologicamente in modo quantomeno approssimativo e nell’improvvisazione degli operatori lasciati allo sbaraglio nel riconoscere e gestire i cosiddetti comportamenti-problema, a interpretare linguaggi o gesti apparentemente inspiegabili, o a ricorrere a sedazione o contenzione.
Se c’è approssimazione sul diritto fondamentale alla salute immaginiamo cosa può esservi sul resto. Questo le Regioni che firmano lestamente (quando conviene) convenzioni non se lo chiedono, perché se lo facessero dovrebbero già per questo chiudere gran parte degli istituti scontentandone i gestori.
Al pari non si interrogano su come sia rispettato il diritto alla riservatezza di quelli che sbrigativamente vengono definiti “ospiti”, alla possibilità di contare su spazi propri, di andare al cesso chiudendo la porta, di restarsene anche per conto proprio, di coltivare le proprie passioni, il proprio progetto di vita.
Osservino, prima di assecondare questi modelli, quali sono le relazioni possibili con il territorio circostante, come sia garantito alle persone di accedere alle opportunità culturali, di relazione, ludiche che la comunità circostante offre. O piuttosto se vivano da reclusi al confino.
E infine le Regioni chiedano quali procedure abbiano effettivamente attivato queste strutture per garantire che la persona anziana o con disabilità sia protetta contro ogni forma di abuso, trattamento degradante, maltrattamento. Non si accontentino dell’impegno a parole. Vi sono delle specifiche procedure da rispettare e da rendere comprensibili a tutti gli operatori e alle persone, con formazione, monitoraggio continuo, rilevazione sistematica di ogni singolo episodio – anche insignificante, anche solo potenzialmente – violento.
Alle persone anziane o con disabilità, vittime di episodi di violenza, deve essere assicurata la possibilità di segnalarli senza timori, senza paure anche se è il servizio stesso che deve contenere gli anticorpi necessari per impedire tutto ciò. Le persone che hanno subito abusi e maltrattamenti devono contare sul supporto psicologico per le sicure conseguenze subite. Niente di tutto ciò …
Invece da queste strutture si pretende – giustamente – il rispetto ferreo della normativa antiincendio, della disciplina sulla sicurezza sul lavoro, ma si è di manica larga, colpevolmente larga, sul rigoroso rispetto dei diritti umani. Già costringere una persona a vivere dove non vuole è una violazione. Immaginiamo il resto.
Pochi sanno che in gioventù Franco Basaglia, antifascista, finì in carcere. Il suo vivido ricordo del primissimo impatto con la detenzioneè l’arrivo nell’ora in cui venivano portati fuori i buglioli dalle celle. “Vi era un odore terribile, un odore di morte. Mi ricordo di aver avuto la sensazione di essere in una sala di anatomia dove si dissezionano i cadaveri. Quattro o cinque anni dopo la laurea, divenni direttore di un manicomio e, quando entrai là per la prima volta, sentii quella medesima sensazione. Non vi era l’odore di merda, ma vi era un odore simbolico di merda.” (in“Conferenze brasiliane”, 1979)
Quell’odore di merda e morte continuiamo a sentirlo, ma ci auguriamo che arrivi anche alle narici della politica.