di Anna Poma.
E’ radio 1 a intervistare Vittorino Andreoli per chiedergli un parere su quanto è accaduto al Csm di Bari, la tragica uccisione di una psichiatra di quel servizio per mano di un uomo, di cui si sa soltanto che aveva avuto problemi di tossicodipendenza e alcolismo e che era stato in quel servizio una sola volta prima di allora. Andreoli non ha esitazioni, non gli occorre sapere altro per decidere cosa dire: la droga, spiega subito, copre un disturbo mentale (succede nel 50 per cento dei casi) e chi ha un disturbo mentale ha il diritto di essere curato ma non di diventare un assassino. E siccome non sempre il disturbo mentale è legato alla pericolosità, ma alcuni disturbi mentali hanno proprio come sintomo quello “di poter nuocere agli altri”, ad esempio chi delira interpreta male la realtà e interpretando male la realtà può uccidere, allora occorre finalmente “riportare la pericolosità nel concetto di malattia mentale” correggendo la legge 180 che trent’anni fa ha inopinatamente dissociato i due concetti. Occorre farlo perché solo così è possibile proteggere gli operatori e anche i malati da se stessi. Non si tratta di riaprire i manicomi, questo no, nessuno lo vuole, ma occorre costruire piccole strutture dove effettuare trattamenti prolungati alle persone che resistono al trattamento, visto che ora non ve ne sono e nei Servizi Psichiatrici di diagnosi e cura le persone stanno in media 12-13 giorni, un tempo in cui di certo non è possibile curare. I Centri di salute mentale, poi, non sono altro che ambulatori, “come gli ambulatori privati”, dove certo gli operatori non possono essere protetti. E allora hanno paura come ha paura un malato affetto da fobia. Ma di tutto questo nessuno si occupa, come sta avvenendo per la chiusura degli Opg che è stata prorogata perché a nessuno interessano questi problemi se non quando succedono cose come queste. Ora non si devono riaprire discussioni o istituire commissioni ( pare questa l’intenzione del Ministro Lorenzin insieme al Ministero dell’Interno, sic!) ma occorre far fronte all’emergenza attraverso azioni concrete, costruendo finalmente strutture che aiutino i pazienti a non essere pericolosi.
Il giornalista non chiede come debbano essere queste strutture, come debbano svolgersi i “trattamenti prolungati” e in che cosa consistano, ringrazia, elogia le parole illuminate del nostro vate della salute mentale e passa ad altro. Lo spot è finito, l’allarme sociale rianimato, la strada securitaria pronta all’uso.
Come molti, ma forte di una notorietà che per i media è subito autorevolezza, Andreoli procede per sillogismi, e tutto torna. Anche se torna indietro. Alla sciatteria di uno sguardo che non può permettersi di guardare oltre, di fare domande, di dubitare delle proprie premesse. Lo sguardo che non vedrà mai la luna perché guarda soltanto il dito che la indica. Senza sfondo, senza prospettiva, senza storia. Perché Andreoli non sente il bisogno di chiedersi nulla. Nulla sulle premesse del suo dire, nulla sui limiti della sua esperienza professionale, nulla sulle invarianti che rendono del tutto equivalente il suo discorso a quello manicomialista da cui sottolinea ripetutamente la propria distanza.
Andiamo alle premesse. Dichiarare che “il poter nuocere agli altri” è il “sintomo” specifico di alcuni disturbi mentali è fuorviante e mistificatorio perché trasforma il possibile in necessario. Come dire: il mal di denti, la solitudine, il degrado, la miseria economica, culturale e sociale, la gelosia, la bruttezza, la mancanza di ascolto, di accoglienza, il degrado e una serie di altre condizioni ( peraltro spesso sovrapposte) rendono “necessariamente” pericolosi coloro che le vivono. Dobbiamo forse rinchiudere tutta questa gente, si chiedeva Basaglia? Oppure abbiamo il dovere di orientarci, come comunità, a smontare queste condizioni, a farcene carico? Cosa significa curarcene? I muri, le telecamere, le guardie sono la strada della cura? I “malati di mente”( non tutti certo ma alcuni si), secondo Andreoli, vanno di nuovo rinchiusi. Rinchiusi per essere curati, curati nella reclusione. Accadeva e continua ad accadere che si rinchiuda col pretesto di curare. Che si privino le persone dei diritti civili, che si tolga loro la parola, la libertà di muoversi, di scegliere, di vivere, per via di quell’implicazione ritenuta necessaria. Lo si faceva nei manicomi, e in tutto il mondo lo si continua a fare, lo si fa negli ospedali psichiatrici giudiziari. Ma lo si fa anche in molti Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura, dove le persone possono venire legate ai letti talvolta fino a morirne, o essere trattenute per anni nonostante la legge vieti espressamente; lo si fa in molte comunità-prigioni( dove i contenimenti meccanici e farmacologici si sprecano), nelle case di riposo, in molti luoghi dove la povertà delle risposte ”di cura” è talmente opprimente che nessuno vorrebbe mai starci. Accade così in tutti i paesi in cui le strutture di cui parla Andreoli esistono e continuano a chiamarsi col loro vero nome, “manicomi”. Luoghi questi si pericolosi, violenti e incubatori di violenze esponenziali in cui nessuno è davvero protetto. Non i pazienti, non gli operatori. Con il risultato, inequivocabile, che la coercizione e l’addestramento all’essere prigionieri, non sono mai in grado di curare. Anzi, ammalano di più, rendono le persone solo più schiave, terrorizzate, inerti, pietrificate nel dolore, nella paura, nel vuoto. Pericolosi sono sempre i contesti e le circostanze prima delle persone, e quei contesti e quelle circostante sono ben più pericolosi di quelle che il lavoro nei centri di salute mentale e nella restituzione di diritti hanno reso possibili. Ma di certo Andreoli non sa nemmeno lontanamente cosa dovrebbe essere un centro di salute mentale degno di questo nome e il lavoro territoriale. Lui conosce solo gli ambulatori privati( e quelli pubblici che sono il frutto della sua stessa ideologia, delle stessa scellerata miopia) la solitudine e la povertà di gesti terapeutici sempre uguali, anche nell’attribuire il proprio fallimento ad una negligenza del paziente o alla inguaribilità della malattia. Non sa che, da quarant’anni a questa parte, c’è chi lavora senza sbarre, fucili, telecamere, muri di cinta, e, proprio per questo ha potuto inventare pratiche di salute mentale straordinarie restituendo a migliaia di persone la cittadinanza e la salute. All’insegna dell’inclusione, dei diritti, delle opportunità, del protagonismo e dell’apertura. Anche del rischio, certo. Ma anche del rischio di incontrarsi. Con servizi aperti, attivi 24 ore su 24, integrati con il territorio e con tutti soggetti che lo abitano, capaci di fornire risposte multiple, di contrastare la povertà relazionale e sociale ed anche economica. Non sa che sono l’accoglienza , l’ascolto, la rete a smontare la pericolosità. Non sa che si trattiene nella cura chi sente di venir curato e ne sfugge chi viene imprigionato, schiacciato, umiliato. Non sa che, sebbene tutto non sia prevedibile, molte cose lo sono e si possono smontare per tempo. Dentro le storie, non ancora altrove.
Non sa che la luna c’è anche se un dito tozzo e minaccioso continua a farle ombra. E visto che non sa tutte queste cose, non si capisce perché lo si continui ad intervistare.
2 Comments
Lo si continua a intervistare perchè ha vissuto 40 anni a contatto con i cosidetti “matti” in strutture fatiscenti nei vecchi manicomi… a differenza di tanti colleghi come lui definiti come “psichiatri da tavolino”.
Andreoli ha vissuto in stretto contatto con i suoi pazienti nei veri manicomi e ha sempre cercato di aprire la mente dell’uomo cosiddetto “sano” nei confronti dei malati. ha sperimentato nuove strade e chiaramente non condivide che il malato con la chiusura degli OPG debba essere buttato per strada.