Che cosa è stata la riforma dell’assistenza psichiatrica in Italia, o meglio che cosa avrebbe dovuto essere se non un radicale cambiamento delle organizzazioni del lavoro e delle prassi, dei luoghi e dei tempi, delle tecniche e degli indirizzi disciplinari, dei rapporti di potere, della disposizione strategica delle risorse in campo e delle persone?
Da sempre siamo stati costretti a interrogarci. E più di una volta ne abbiamo scritto.
A ben guardare la disposizione dei servizi di salute mentale nel territorio, la loro vicinanza/distanza dalla vita delle persone, i riferimenti culturali e disciplinari, l’organizzazione in una parola, può essere assunta come chiave di lettura di ciò che è accaduto (e accadde).
Una chiave efficace per cogliere il senso e le ragioni delle buone pratiche e ancor meglio dei fallimenti.
Non posso non partire dalla mia esperienza.
È del tutto evidente che nel lavoro triestino l’attenzione quotidiana, frenetica e ossessiva allo smontamento dell’ospedale psichiatrico ha fondato l’impianto della attuale disposizione territoriale. La tensione intorno alla microfisica dei poteri istituzionali su cui fondava la riproduzione del manicomio, l’attenzione alle distanze siderali delle gerarchie, la fatica quotidiana a narrare la storia delle persone, hanno costruito pezzo per pezzo la cultura e la pratica dell’impianto organizzativo che doveva garantirsi e validarsi proprio nella distanza critica e operativa dagli scenari delle psichiatrie accademiche e manicomiali.
Da qui la glaciale immutabilità del sistema manicomio, paradigma della perfetta organizzazione, si è dovuta tradurre nell’incertezza, nell’indeterminatezza, nella “banalità” del lavoro quotidiano, nella mutevole irruzione dei bisogni delle persone sulla scena reale, nella presenza non più eludibile dei soggetti.
È qui, io credo, che si sarebbe dovuto giocare molto della crescita dei servizi di salute mentale, della loro capacità di essere nel territorio e di operare criticamente sui modelli medici e psicologici dominanti, di produrre davvero protagonismo dei cittadini, di vedere la persona non la malattia. Sulla in/capacità concreta di riarticolare le organizzazioni, e i poteri, si è giocato in definitiva il destino della riforma.
Nella mia esperienza quando la trasgressione della distanza tra operatori e utenti, tra medico e malato, la presenza del servizio nella ruvidezza dei conflitti, la partecipazione delle persone nella vita del servizio è diventata esercizio concreto, faticoso e incerto. Solo allora presa in carico e continuità terapeutica sono diventati percorsi possibili. Quando l’organizzazione del lavoro ha potuto cedere la sua verticalità gerarchica alla presenza dei soggetti, alle infinite forme di riconoscimento tra gli operatori, alla valorizzazione dei linguaggi del quotidiano quasi costruendo un lessico originale e nuovo come identità possibile per il gruppo, la presenza delle persone che vivono l’esperienza come dei loro familiari e degli operatori ha prodotto il cambiamento progressivo delle forme organizzative.
L’organizzazione ha potuto definirsi, sempre più e meglio, nel gruppo di lavoro. Il gruppo di lavoro ha progressivamente riconosciuto la presenza di professionalità, di ruoli e di compiti strutturati e, allo stesso tempo, ha potuto valorizzare soggetti, linguaggi differenti, affettività. Abbiamo capito che un gruppo di lavoro si struttura quando riconosce individui singolari, cittadini, persone; quando comincia a definirsi come un insieme di soggetti, gli operatori, che si integra e si confonde con un insieme di altri soggetti, le persone che entrano nel servizio. Quando impara a riconoscere linguaggi differenti e a confrontarsi con essi. A questo proposito mi piace parlare di eterofonie. Parole, suoni, significati che si muovono da posizioni tanto diverse da apparire inconciliabili e incomprensibili e pure sempre riconducibili a un possibile ascolto nel riconoscimento di ciò che accade tra me e l’altro e di un possibile orizzonte comune.
Un gruppo di lavoro è tale quando è capace di convergere, orientare lo sguardo, progettare insieme. È questo il senso che avremmo voluto assumessero le organizzazioni dei servizi di salute mentale nella riforma.
Non posso non pensare all’organizzazione che cura.
Ed è in questa cornice che appare in tutta la sua limitatezza, se pure generosa, l’intenzione terapeutica del singolo operatore.
Le premesse, con un forte radicamento etico, condivise e quotidianamente alimentate, strutturano un gruppo, una squadra, un organismo che vive della presenza consapevole di ognuno.
Potrei citare qui, per farmi capire, il paradigma della porta aperta. La porta aperta, dicevamo in manicomio, e continuiamo a dire oggi nella città, come momento politico ovvero restituzione di cittadinanza, di diritto, di democrazia. La porta aperta come concreta esplicitazione della scelta etica ovvero riconoscimento di persone, di individui e dunque della dignità, della differenza, dell’inviolabilità dei corpi. La porta aperta come scelta di campo consapevole, come scelta tecnico disciplinare, come possibilità del terapeutico di realizzarsi in uno spazio reale nella considerazione dell’altro, nell’incontro, nella conversazione.
Lo sguardo che posso muovere da queste esperienze e da questa riflessione illumina quasi 50 anni di lavoro in salute mentale in Italia e una serie impressionante e reiterata di fallimenti. Allora, negli anni ’70, per molti psichiatri l’adesione entusiastica al processo di chiusura dell’ospedale psichiatrico si materializzò nell’affermazione indiscutibile e arrogante della vocazione terapeutica (ritrovata?), delle tecniche, del dottore che cura: finalmente psichiatri, psicologi, infermieri (con i loro sindacati) potevano liberarsi dal fardello del controllo sociale, proprio della psichiatria. Finalmente potevano delegare ad altri, a un confuso e misero sociale i bisogni, la miseria dei manicomi che si svuotava nella città. Sottrarsi ai compiti e alle responsabilità organizzative che «intralciano – dicevano – e sono una perdita di tempo» e ritrovare la purezza della diagnosi, della clinica, del camice bianco, nei reparti ospedalieri, negli ambulatori, nelle cliniche private, nelle strutture, così dette, residenziali.
Di qui montagne di autoreferenzialità e di ambulatori, di sale e di liste d’attesa; le scuole psichiatriche, psicofarmacologiche, psicoterapeutiche sono nate come funghi a sostenere pratiche e organizzazioni tanto confuse quanto, alla fine, violente. Mai in grado di interrogarsi sulla natura della malattia mentale, di tentare di riconoscere l’altro, di criticare le culture e le pratiche oggettivanti. Organizzazioni che, nella cecità autoreferenziale degli attori, si sono costruite accettando miserie, compromessi, riduzioni; isolandosi dai contesti culturali, sociali e sanitari più innovativi e avanzati del territorio, tenendosi rigorosamente fuori dal rischio di incappare nelle reti partecipative che intanto se pure a fatica andavano componendosi. Riproponendo alla fine non integrazione ma frammenti isolati di risposte, non continuità terapeutica, non presa in carico ma diffusa manicomialità e marginalizzazione.
L’idea che sia il dottore a curare (intendo ambulatori, specialismi, frammentazioni, gerarchie) è ancora profondamente radicata nelle politiche regionali, nelle pericolose riduzione di risorse, nelle insensate realizzazioni di macroaggregati ingovernabili, di accorpamenti, di cancellazione di ogni immagine, anche se misera, di salute mentale di comunità, di piccola scala, di vicinanza ai cittadini in ragione di investimenti (sempre urgenti e necessari!), miseri comunque, nei servizi psichiatrici ospedalieri sempre più affollati e di fatto rischiosi per i pazienti che si trovano ad attraversarli, di posti letto comprati dal privato mercantile (o da un privato sociale sempre più appiattito sui bassissimi profili delle aziende sanitarie). In questo quadro non può non riprodursi quotidianamente nella cultura delle amministrazioni regionali, delle direzioni aziendali, degli operatori, delle persone che vivono l’esperienza, dei cittadini un circolo vizioso che porta a pensare che i servizi di salute mentale, i centri di salute mentale, altro non sono che cliniche e ambulatori di psichiatria omologabili a uno studio medico associato con un infermiere che risponde al telefono e tiene gli appuntamenti e va per le case a dispensare farmaci e long acting, uno psichiatra che fa la visita e aggiusta la prescrizione farmacologica, lo psicologo che fa i test e intrattiene il paziente in brevi sedute una volta al mese, educatori e tecnici che devono giocare nel centro diurno…
Per fortuna il tempo non è passato invano e le persone oggi chiedono di guarire. Mettono impietosamente in luce il fallimento di questi sistemi. Impongono l’importanza di rivedere il percorso terapeutico fin dalla prima telefonata che arriva a un servizio. Chiedono di vedere valorizzati i loro faticosi e singolari percorsi di ripresa. Vogliono essere aiutati e sostenuti nell’attraversare cruciali e rischiosi punti di svolta nella loro esistenza. Cominciano a disegnare, con la loro domanda, servizi che pretendono orientati alla guarigione, alla ripresa appunto, al sostegno nel tempo delle loro vite e dei loro sogni.