da Brain Factor (brainfactor.it), News – Neuroetica, 04 Novembre 2009
Avv. Sabrina Peron
La sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Trieste, che così tanto clamore ha suscitato nella stampa, presenta aspetti di sicuro interesse nella parte in cui al fine di determinare il grado di incapacità di intendere e di volere dell’imputato – primo caso in Italia – viene fatto ricorso anche a indagini genetiche e tecniche di imaging funzionale del cervello (Corte d’Assise d’Appello di Trieste, 1/10/2009, n. 5, Pres. Rel. Reinotti).
Il caso
Un cittadino algerino, da anni residente in Italia, accoltellava a morte un cittadino colombiano nei pressi della stazione ferroviaria di Udine. Nel corso del giudizio di primo grado all’esito della perizia espletata, veniva riscontrata un’importante patologia psichiatrica di stampo psicotico e, in particolare, un disturbo psicotico di tipo delirante in soggetto con disturbo della personalità con tratti impulsivi – asociali e con capacità cognitive – intellettive nei limiti inferiori alla norma. L’imputato veniva ritenuto persona socialmente pericolosa e parzialmente incapace d’intendere e di volere, fondando tale parziale incapacità (al posto di quella totale richiesta dalla difesa) sui seguenti elementi di giudizio acquisiti nel corso del processo: comportamento antecedente al delitto, sostanzialmente immune da indici di incapacità o di disturbo mentale, consapevolezza dell’antigiuridicità del proprio comportamento, comportamento improntato ad indifferenza successivamente al delitto. Seguiva la condanna dell’imputato alla pena di anni 22 e mesi 6 di reclusione, ridotta per le attenuanti generiche ad anni 18 di reclusione, ulteriormente ridotta per la diminuita imputabilità ad anni 13 e mesi 6 di reclusione, aumentata per la ritenuta continuazione ad anni 13 e mesi 9 di reclusione e, infine ridotta per il rito prescelto a quella finale di anni 9 e mesi 2 di reclusione. La sentenza veniva appellata dalla difesa dell’imputato che lamentava l’erronea valutazione in ordine alla capacità di intendere e di volere e la mancata applicazione della riduzione della pena per la seminfermità mentale nel suo massimo non essendo stato conferito rilievo adeguato alla gravità della patologia di cui era affetto l’imputato.
Nel corso del giudizio di secondo grado così instaurato venivano espletate ulteriori perizie, all’esito della quali, la capacità di intendere e di volere dell’imputato risultava grandemente scemata dalla estrema difficoltà di un quadro psichiatrico caratterizzato da una tipologia di personalità di tipo dipendente – negativistico con un importante disturbo ansioso – depressivo accompagnato da pensieri deliranti ed alterazione del pensiero associata da disturbi cognitivi di interpretare correttamente la situazione nella quale si trovava pur non risultando tali deficit di livello talmente grave da abolire la capacità di intendere. In particolare, l’organo giudicante proprio al fine di valutare la capacità di intendere e di volere dell’imputato, tra i vari test ed indagini peritali ai quali lo sottoponeva, faceva effettuare anche delle indagini genetiche alla “ricerca di polimorfismi genetici significativi per modulare le reazioni a variabili ambientali fra i quali (…) l’esposizione ad eventi stressanti ed a reagire agli stessi con comportamenti di tipo impulsivo”. Tal ultima indagine – che come evidenziato dalla stessa Corte d’assise, è “del tutto innovativa rispetto al livello di approfondimento degli accertamenti giudiziari” – ha consentito di accertare che l’imputato risultava “possedere, per ciascuno dei dimorfismi esaminati, almeno uno e non tutti e due gli alleli che, in base a numerosi studi internazionali riportati sinora in letteratura, sono stati riscontrati conferire un significativo aumento del rischio di sviluppo di comportamento aggressivo, impulsivo (socialmente inaccettabile). In particolare l’essere potatore dell’allele a bassa attività per il gene MAOA (MAOA-L) potrebbe rendere il soggetto maggiormente incline a manifestare aggressività se provocato o escluso socialmente”.
Ad avviso della Corte, dunque, tale “vulnerabilità genetica”, renderebbe l’imputato “particolarmente reattivo in termini di aggressività – e, conseguentemente, vulnerabile – in presenza di situazioni di stress”; conseguentemente la Corte ha ritenuto di poter applicare per la parziale incapacità di intendere e di volere la riduzione della pena nella misura massima di un terzo.
Non sono invece state concesse nella misura massima le attenuanti generiche considerata l’efferatezza della condotta dell’imputato, che aveva avuto uno “spazio di tempo non trascurabile per riflettere, pur tenuto conto dei limiti in ordine alla sua capacità, sull’azione che andava a compiere”. A nulla rilevando al riguardo il diverso contesto religioso e sociale in cui l’imputato era cresciuto (radicate tradizioni culturali della famiglia d’origine e regole comportamentali connesse alla fede islamica professata), sia perché le differenze culturali e la fede religiosa professata non potrebbero in alcun caso costituire “fondamento giustificativo per un’aggressione a fini omicidi”; sia perché trattasi di azione che, comunque, non troverebbe né giustificazione né comprensione neppure nella società da cui l’imputato proviene. In definitiva la Corte d’assise di Trieste ha condannato l’imputato alla pena di anni 22 e mesi 6 di reclusione, ridotta ad anni 18 per le concesse attenuanti generiche e ulteriormente ridotta ad anni 12 per diminuita imputabilità. Ai quali aggiungere 3 mesi per la contravvenzione data dall’aver portato fuori della propria abitazione il coltello appositamente acquistato per commettere l’omicidio. Sulla pena così determinata di 12 anni e 3 mesi è stata infine operata la riduzione per il rito prescelto, con determinazione quindi della pena finale di 8 anni e 2 mesi di reclusione.
Il diritto e la neuroetica La sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Trieste, che così tanto clamore ha suscitato nella stampa, presenta aspetti di sicuro interesse nella parte in cui al fine di determinare il grado di incapacità di intendere e di volere dell’imputato – primo caso in Italia – viene fatto ricorso ad indagini genetiche e a tecniche di imaging del funzionamento cerebrale. Ai sensi degli artt. 88 e 89 c.p., non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da “escludere la capacità di intendere o di volere” o “da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità di intendere o di volere” (in questo caso il soggetto risponde del reato commesso, ma la pena è diminuita). Al riguardo è stato osservato che con riferimento all’infermità mentale sono tre i punti consolidati «Primo: la ridotta imputabilità di cui all’art. 89 deve intendersi in senso quantitativo e non qualitativo, dovendo investire la mente nel suo complesso e non settori di essa. Secondo: per infermità deve intendersi sia quella fisica (ad es.: il delirio febbrile) che quella psichica, ma tali da escludere o grandemente scemare la capacità di intendere o di volere. Terzo: siffatto giudizio, definito come misto o psicologico-normativo, presenta una struttura bifasica: un primo livello relativo all’accertamento della causa naturalistica ed un secondo relativo all’influenza che tale causa ha esercitato sulla capacità di intendere o di volere del soggetto agente». Ciò posto, il «punto critico consiste invece nella definizione del concetto di “infermità”, che il codice non presenta» e sul quale «la scienza, intesa in senso lato, non è affatto concorde sul concetto di infermità mentale, in un contrapporsi, anche nell’evoluzione dei tempi, delle diverse scuole di pensiero» (Pittaro, 8). A fronte di tale contrasto scientifico anche la giurisprudenza è apparsa ondivaga, e da un iniziale seguito l’indirizzo nosografico, si è poi ad un «criterio “bio-psico-sociale” più elastico, tale da ricomprendere, di volta in volta, anche stati patologici non inquadrabili nosograficamente, alcune alterazioni mentali atipiche, disturbi della coscienza con radicale alterazione dell’io, ovvero ancora le stesse psicopatie ed i disturbi della personalità (…). Un passo importante, ma quanto mai delicato, posto che tali rilievi non possono e non debbono comunque sfociare nella fattispecie di cui all’art. 90 c.p., in forza del quale gli stati emotivi e passionali non escludono né diminuiscono l’imputabilità» (Pittaro, 9). Ciò posto, si osserva come il ricorso ad indagini genetiche e a tecniche di imaging per spiegare il comportamento umano, sono un fenomeno tutto sommato recente che sta alla base di studi diretti a comprendere le relazioni tra cervello e condotta umana. Si parla a tale riguardo di neuroetica; neologismo questo usato per la prima volta nel 2002 nel corso di un convegno tenutosi a San Francisco, dal titolo “Neuroethics mapping the field”, durante il quale la neuroetica viene definita come lo “studio delle questioni etiche, sociali, legali e politiche che scaturiscono nel momento in cui le scoperte scientifiche riguardanti il cervello entrano nella pratica medica, nelle interpretazioni della legge e nella politica sociale” (Boella, 2008, 14). In particolare, le nuove tecniche di imaging consentono di visualizzare l’attivazione di aree del cervello interessate da atti di valutazione, scelte aspettative, decisioni di agire ed emozioni; lo stesso dicasi per gli studi sui geni e su come questi possano influenzare il comportamento umano. Ad esempio, proprio gli studi effettuati sul gene c.d. MAOA hanno accertato come questo possa influire sui livelli dei neurotrasmettitori come la dopamina e la serotonina, che sono collegati al comportamento e all’umore. In particolare è risultato che tale gene potrebbe influenzare un comportamento antisociale o un’attività criminale, in soggetti provenienti da un contesto familiare e sociale degradato (cfr. Nuffield Council on Bioethics, Genetics and Human behavior, p. 95, in www.nuffieldbioethics.org). Tutto ciò, a livello etico, ha aperto nuove prospettive sulle attività cerebrali per cercare di individuare quali strutture del cervello siano implicate nella scelta morale. In questo contesto la neuroetica viene definita non come “una disciplina che ricerca risorse terapeutiche, ma che colloca piuttosto la responsabilità personale entro un contesto biologico e sociale più ampio” (Gazzaniga, 2006, XV). Il problema che si pone a livello filosofico, ma anche giuridico, è la relazione esistente tra determinismo biologico e libero arbitrio. In particolare in ambito giuridico, l’imputabilità di un soggetto è correlata alla sua capacità di intendere (ossia alla sua attitudine a comprendere il significato delle proprie azioni nel contesto in cui agisce) e di volere (intesa come potere di controllo dei propri stimoli e impulsi ad agire). Ad esempio, secondo la giurisprudenza, ai «fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, anche i “disturbi della personalità”, che non sempre sono inquadrabili nel ristretto novero delle malattie mentali, possono rientrare nel concetto di “infermità”, purché siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente, e a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale» (Cass. pen., 09.02.2006, Scarpinato, in Giur. it., 2007, 1502); ne consegue che, ai fini dell’imputabilità, nessun rilievo, viene dato ad altre «anomalie caratteriali o alterazioni e disarmonie della personalità che non presentino i caratteri sopra indicati, nonché agli stati emotivi e passionali, salvo che questi ultimi non si inseriscano, eccezionalmente, in un quadro più ampio di infermità» (Cass. pen., 09.02.2006, Scarpinato, in Giur. it., 2007, 1502). Come si può notare, alla base vi è l’idea di responsabilità intesa come capacità di dare ragione delle proprie azioni e di attribuirgli un significato coerente; e ogni soggetto è ritenuto arbitro delle proprie azioni sino a quando non intervengano delle patologie indipendenti dalla sua volontà che limitano – in tutto o in parte – questo suo potere. Ciò posto come correttamente osservato una «sentenza è un atto normativo, mentre gli studi neuroscientifici forniscono prove fattuali. Nessuno auspica che nelle aule dei tribunali si arrivi a dire: Non è stato lui ma i suoi neuroni» (Boella, 2008, 83). Difatti l’informazione scientifica sulle cause di una certa condotta non possono valere come giustificazione sul piano giuridico, disponendo già pienamente il diritto degli strumenti volti a definire la responsabilità giuridica (sia essa di natura penale o civile). A tale conclusione sono giunti anche gli studi scientifici sulla genetica ed il comportamento umano, i quali hanno ribadito che i fattori genetici non possono essere considerati una comoda scusa da utilizzare per assolvere gli individui dalla loro responsabilità (cfr. Genetics and Human behavior, p. 165 in www.nuffieldbioethics.org: “we conclude that research in behavioural genetics does not pose a fundamental challenge to our notions of responsibility as they are applied in the legal context. We consider that genetics variant in the normal range are unlikely to be considered an excuse for legal purposes, at least for the foreseeable future. They fall outside the scope of the defences of insanity and diminished responsibility and cannot be said to absolve individuals from responsibility for their actions”). Peraltro è proprio in questo contesto che si pone la sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Trieste, laddove ha utilizzato le risultanze delle nuove perizie per giungere ad un quadro più preciso sull’infermità di mente dell’imputato (che, come nel giudizio di primo grado, è stata ritenuta gravemente scemata ma non abolita) e non certo per giustificare deterministicamente la causazione del reato.
Non si può che concludere quindi con le parole di Michael Gazzaniga, neuroscienziato cognitivo e studioso di neuroetica: «le neuroscienze metteranno e nostra disposizione nuovi modi per capire il comportamento. Quello però di cui dovremo renderci conto è che, persino se la causa di un atto (penale o di altro tipo) è spiegabile con il funzionamento del cervello, ciò non significa che l’autore dell’atto vada assolto (…): il cervello è un congegno automatico, governato da regole e determinato; invece le persone sono agenti personalmente responsabili, liberi di prendere le loro personali decisioni» (Gazzaniga, 2006, 87).
D’altronde l’evolversi degli studi sul cervello può portare anche al rischio di quelle che sono state definite “fallacie neuro-scientifiche”: «dall’idea che la fMRI restituisca una fotografia del cervello all’idea che “noi siamo il nostro cervello” (…).
Bisogna dunque gestire le conseguenze di queste deduzioni frettolose sia da parte dei media sia da parte dei neuroscienziati.
I media devono riflettere sul modo in cui selezionano e inquadrano gli studi di imaging, spesso fornendo al pubblico solo l’informazione che si presume esso desideri ricevere (…).
I neuroscienziati, da’altra parte (…), devono elaborare modi di comunicare la complessità delle nuove tecnologie e sorvegliare la diffusione dei risultati sperimentali» (Boella, 2008, 28).