Un livido giorno di Febbraio mi ritrovai a percorrere i corridoi del reparto psichiatrico dell’Ospedale genovese di Sampierdarena. Ero accompagnato da Roberta Antonello. Il dottor Cipresso, primario del reparto, ci ha accolti nel suo ufficio. Io mi sentivo a disagio. Lo stesso disagio che ha sempre accompagnato le mie visite ad un reparto psichiatrico. L’esperienza che ho del reparto è relativa. Ho avuto un ricovero volontario nel lontano 2002 (o era il 2003?), una notte di permanenza. Avevo detto alla mia psicologa che mi era presa un po’ la smania di tagliarmi. Così mio padre mi ha condotto al reparto dell’ospedale Felettino della Spezia dove sono rimasto una notte. L’indomani mattina ho detto alla dottoressa di turno che non mi sarei tagliato e che volevo essere dimesso. Così mi lasciarono andare. Non mi sono tagliato.
Lo sguardo. Io sono ossessionato dagli sguardi. La prima cosa che guardo in una persona è lo sguardo, cioè il modo in cui guarda gli altri. E spesso ne ricavo impressioni dolorose, di distanza o di disprezzo, quando forse dovrei leggere altro, forse a volte paura o semplicemente attesa.
Lo sguardo di Cipresso era uno sguardo che conoscevo bene. Uno sguardo che mi ha sempre accompagnato quando entravo in qualche riunione o assemblea nelle vesti di presidente di un’associazione di utenti psichiatrici (cioè di matti). Lo sguardo interrogativo che sottende una serie di pensieri o di dubbi. E’ un matto? E’ un finto matto? Come dobbiamo prenderlo?
Io vivo sempre con dolore ed estremo imbarazzo questo momento. Di solito risolvo la cosa lanciandomi in qualche discorso, in modo che la mia intelligenza fughi i dubbi di trovarsi di fronte un mentecatto o un ritardato, ma non riesco a cacciare l’idea di essere considerato un’intelligenza malata.
E quel giorno non riuscivo a parlare. Non riuscivo ad esprimere la mia intelligenza, l’unica cosa che possiedo davvero. E così forse ho dato l’impressione di essere un povero malato di mente coinvolto in qualche attività di socializzazione. Amarezza infinita. Come quando facevo teatro. L’impressione alla fine che avevo era quella di aver dato spettacolo della mia miseria, della mia condizione di caduto, nient’altro.
Non so esattamente di cosa abbiamo parlato nell’ufficio. Hanno quasi sempre parlato Cipresso e la Antonello. Volevo andarmene, rifugiarmi in qualcosa.
L’atmosfera di quel giorno era angosciante. Se fossi stato ricoverato là dentro avrei avuto bisogno di una forte dose di antidepressivi.
Dell’assemblea che si è svolta nella saletta da pranzo conservo il ricordo della fatica. Fatica delle parole mie e degli altri. C’era qualcosa di greve che pesava su di noi. La luce livida della stanza senza finestre. I volti pallidi e inespressivi di alcuni. I volti inebetiti dai farmaci di altri. Non so. Mi sentivo partecipe di qualcosa di opprimente e noioso. Non vedevo la gioia dell’esprimersi. Non notavo alcun segno di … come si chiama quella cosa di cui si riempiono la bocca ai fottuti convegni delle Parole ritrovate? Ah, empowerment. No, non vedevo segni di empowerment. Le parole che sentivo erano banali. Lamentazioni sul cibo, sulla noia del reparto. Come se gli altri reparti dell’ospedale fossero dei lunapark. Rivendicazioni stucchevoli e inutili che non capivo. Come fumare qualche sigaretta in più. Alcuni esibivano la loro storia. Raccontavano di loro stessi e delle loro peripezie. Io ascoltavo e non ascoltavo. Mi interessavano gli sguardi. I racconti delle persone mi annoiano spesso, è raro che qualcuno mi stupisca con le parole. Spesso sono parole in prestito, sono parole che hanno appreso, non sono le loro parole. A volte ci aspettiamo che i matti ci stupiscano, ci raccontino cose divertenti, che ci facciano vedere un altro modo di vedere le cose. Si rimane delusi, quasi sempre. Forse non è questo l’approccio. Non è questo che devi attenderti da loro o da noi.
Forse le rivendicazioni banali hanno un senso, l’unico senso in quelle stanze livide, in quei grigi corridoi non rischiarati dalla luce del sole.
Non so quanta importanza abbia che la porta sia aperta o meno. Quelle persone non sono libere fuori o dentro che siano. Il reparto se lo portano anche fuori. Fuori si portano i riti, lo stanco e noioso rito della sigaretta e della noia noiosa. O forse se li portano dentro. Annosa questione se nascano prima le cause o le conseguenze.
C’era una donna molto anziana. Aveva un volto spaventato. Mi ricordava mia nonna nella fase in cui le era venuta la demenza. Un giorno andai in cucina e vidi che stava facendo bollire una tonnellata di spaghetti, tre pentole di pasta, come se dovesse dare da mangiare ad un esercito. E l’espressione che nasceva nel suo volto un tempo espressivo e lucido quando le facevi notare l’insensatezza delle sue azioni era la stessa di un bambino di un anno che si trovi a fare i conti con qualcosa di nuovo e inaspettato.
“Quella donna è un mistero”, disse qualcuno, forse Cipresso. L’hanno trovata nel fiume, forse voleva suicidarsi. L’immagine di Virginia Woolf che si riempie le tasche del vestito di pietre per lasciarsi affondare nel Tamigi attraversa la mia mente troppo piena di fantasmi letterari. Buia e polverosa soffitta. Aria viziata da parole troppo belle e precise.
La Antonello mi disse che quel giorno c’era un’aria pesante perché c’erano dei TSO. Le altre assemblee erano state più vivaci.
La porta era stata chiusa proprio in quella settimana dopo che era stata lasciata aperta per più di un mese.
Forse chi non mastica queste cose non capisce questo problema di apertura e chiusura. Se però gli si fa notare che dalla porta aperta un matto può uscire e seminare morte e distruzione allora capisce. Almeno questa è la lettura che danno molte persone di questo problema.
Una cosa che non ho sperimentato in quella giornata è la paura. Paura di qualcuno che facesse il matto, voglio dire. Nonostante l’oscura minaccia di alcune parole che avevo sentito. Un tso in corso. Per questo hanno chiuso le porte.
C’era molta angoscia, molta noia ma non paura. Quando ero bambino a volte mi avevano portato in visita a qualche morente. Ricordo la stessa luce di quel giorno. Una luce fredda che non illumina né dà calore. Una luce che rende i tratti del viso più duri e serrati. Immagini di soldati nella fredda alba di un mattino di guerra, un’alba livida prima della mattanza loro e altrui. La luce che illumina la morte al lavoro. Le facce dei ragazzi prima dell’attacco, i loro fiati condensati dal freddo mentre si scrutano negli occhi alla ricerca di un conforto nella paura e nell’attesa.
Scusate se la mia mente vaga, ogni cosa mi suscita immagini lontane, lontana anche l’assonanza. Sono libere associazioni, direbbe qualche psicoanalista.
Qualcosa dei racconti dei ricoverati mi strappava ogni tanto alle mie visioni e al tormento dell’indagare gli sguardi e le intenzioni degli sguardi. L’idea generale che ne ho ricavato è che il problema è fuori e che nel reparto si può solo tentare di migliorare l’accoglienza, di stabilire una permanenza meno cupa e noiosa. Di illuminare meglio le stanze e i volti. Il buio, il vero buio attende fuori da quei reparti dalla luce livida. Il mondo non ama queste persone e loro nonostante tutti i loro sforzi ricambiano questo disamore. Per molti uscire e rientrare è una scontata routine, come se la loro vita fosse rassegnata a questo triste e assurdo destino. Il mondo, Genova o altre città, non li tollera più di tanto o non è pronto a tollerarli. O non è semplice per molti convivere con i fantasmi che ossessionano le loro menti.
Uno dei ricoverati è un giovane sottoposto a tso, è molto intontito dai farmaci. Dicono che ha dato problemi in famiglia, che è violento. La famiglia non riesce a stare dietro a tutto. Se penso a quanto è dura la vita di ogni giorno, se penso che ogni giorno bisogna dar prova di sé, della propria produttività e affidabilità, se penso che tutto ha un costo e che senza il lavoro non si vive, penso di capire la fatica dei famigliari di queste persone. Devono quadrare tutto e non è facile. Semplice giudicare quando tutto sommato non ci riguarda.
Sono discorsi confusi, lo so, forse è l’ansia di esprimere tutto, forse dovrei smetterla di pretendere da me stesso l’esaustività. Non è tempo di enciclopedismi e di sincretismi. Forse è tempo di dettagli e di osservazioni oblique, forse è tempo di tralasciare molto e di parlare di ciò che davvero ci preme.
E’ l’unica assemblea a cui ho partecipato. Sono tornato a casa confuso e depresso. A casa ho ritrovato la dolcezza di alcune cose che non dico. Ho seppellito dentro di me i ricordi e le impressioni di quella giornata e li ho dissotterrati oggi per scriverne. Qualcosa hanno sedimentato in me, se così non fosse non avrebbero lasciato una traccia così consistente. E tutto questo era accaduto nel bel mezzo di un gelido febbraio.
di raslonikov