Sono le 11 del mattino di lunedì 19 agosto, ho appena finito di ascoltare la trasmissione Tutta la città ne parla, Radio 3. È il primo servizio giornalistico nazionale che tratta con sufficiente ampiezza l’episodio accaduto sei giorni prima: la morte di una giovane donna contenuta, in un reparto di psichiatria, causa un incendio dal quale non ha potuto allontanarsi. Legata al letto e, a quanto pare, rinchiusa sola in una stanza.
Il quasi silenzio stampa di sei giorni, se si escludono i giornali locali, mi ha stupefatto e, devo dire, intimorito. Sarà il clima che stiamo vivendo, ma in Italia i poteri forti mettono paura e pochi decidono di metterli in discussione. Non sto parlando solo di ciò che Michel Foucault definì potere psichiatrico, ma anche dei legami di questo potere con il potere giudiziario e con quello che Orson Welles chiama quarto potere.
Non bisogna allestire un processo con sentenza, è un atteggiamento che lasciamo all’irresponsabilità dei governanti di quest’epoca. Tuttavia non possiamo non accorgerci che la versione dei fatti, assai contraddittoria, fornita dai giornali locali sembra lo schema della strategia difensiva da portare in tribunale: è stata legata al letto, ma è stata sedata dunque legata per pochi minuti, in attesa di somministrarle un secondo sedativo. Si dà per scontato che il fuoco lo abbia appiccato la donna, con un accendino, ma le lenzuola e il materasso erano ignifughi; il tempo in cui può divampare il fuoco non è così breve, potrebbe essere morta per intossicazione da fumo, prima dell’incendio, su questo si tratta di verificare. Se la donna avesse avuto un accendino nella biancheria intima, l’oggetto, o un suo residuo, dovrebbe venire reperito sul luogo, nella camera di contenzione. Si deve sempre partire dalla presunzione d’innocenza, ma la linea difensiva proposta dai giornali locali è, francamente, contraddittoria.
Proviamo a ragionare al contrario: tempo fa, in relazione a un episodio di suicidio occorso in un reparto psichiatrico a Catania, in Corte d’Appello, lo psichiatra che aveva in cura la paziente fu condannato per omicidio colposo.
La sentenza dice, in sostanza: «È omicidio colposo se lo psichiatra non vigila sul paziente che ha chiari istinti suicidi». Vigilare, un compito che, in uno stato democratico, spetta a una branca del potere giudiziario in accordo con il ministero dell’interno. La sentenza non tiene conto del potere legislativo che, attraverso una legge del 1968, elimina la dipendenza dei medici psichiatri dal Ministero degli Interni, per consegnarli, come da civiltà democratica, al Ministero della Sanità. Qui però si tratta di sospendere per un momento la verità giuridica dalle considerazioni etiche; sarà consentito, viste le circostanze della contenzione, solo per un momento. Si tratta di capire se la contenzione fisica possa avere una qualche possibilità terapeutica.
Peppe Dell’Acqua, psichiatra, erede morale di Franco Basaglia, è presente in trasmissione e sostiene di no: legare una persona non ha mai, in nessun caso, una funzione terapeutica. Io sono d’accordo con Dell’Acqua. Penso che si possa abbracciare una persona, avere una relazione corpo a corpo, con lei, ma, anche in questo caso, pensando alla lotta dell’Angelo con Giacobbe. La lotta con l’Angelo, un grande tema teologico e umanistico. C’è qualcuno, nelle scuole di specialità in psichiatria, che insegni scienze umane e sociali? Sono in pochi i giovani psichiatri che decidono di fare almeno una terapia personale, pochissimi di frequentare una scuola di psicoterapia, per legge sono già psicoterapeuti.
Questo non accade in altri paesi. Gli psicologi, che durante quattro anni di specialità imparano il mestiere della relazione terapeutica, nei reparti psichiatrici non contano quasi nulla e devono ingegnarsi per seguire, privatamente o nel cosiddetto privato sociale, persone che, a torto o a ragione, sono spesso impaurite dal potere psichiatrico. Uno dei Centri che si occupa di ciò, a Milano, è Urgenza Psicologica, dove la richiesta di aiuto viene affrontata senza esitazione, ma senza alcuna coercizione, un’urgenza tenera, come quella descritta da Dell’Acqua a Trieste. Anche qui, benché ancora per una minoranza di persone, sembra funzionare. Urgenza tenera: rispondere al telefono senza esitare e rimanere al telefono senza rinviare o post-porre, tutto il tempo necessario, proporre un incontro immediato, offrire ospitalità se richiesta, senza coercizione, questo è ciò che fa uno psicoterapeuta. Poi, se richiesto, proporre una terapia individuale, familiare, di gruppo, anche farmacologica, con il supporto di un medico. Giuseppe Cersosimo, lo psicoterapeuta che organizza queste attività in contesti senza fine di lucro, sta mostrando, da cinque anni, che si può fare.
Di una cosa si può stare certi, che, né gli psichiatri sono tutti come quelli che hanno legato per ore Mastrogiovanni, né gli psicologi sono tutti come quelli dei fatti di Reggio Emilia. Però la perdita nella formazione in scienze sociali e umane, a vantaggio di piccole tecniche cieche – sempre nuovi farmaci, sempre nuovi test, sempre nuovi dati statistici discutibili – ha aumentato, insieme alla carriera per chi le usa, i disastri psicosociali che vediamo.
Il potere psichiatrico è forse un mito, uno spauracchio inventato dall’antipsichiatria. Certo non dipende dal singolo psichiatra, ma dalla mitologia che ancora accomuna lo psichiatra all’agente di custodia e che si ritrova in sentenze giuridiche come quella della Corte d’Appello di Catania.
Il dibattito è complesso, o, come direbbe Edgar Morin, iper-complesso. Parte da una domanda che i filosofi si sono posti molti anni fa: in quali circostanze si può riconoscere a una persona il diritto di morire? Con lo psichiatra svizzero Michele Mattia, ci siamo espressi chiaramente, in relazione alle istituzioni svizzere che praticano il suicidio assistito, sia su Doppiozero che sulla Rivista Memory and Trauma, diretta da David Meghnagi. Se, in Svizzera, un caso di malattia terminale può comportare l’iscrizione a un centro per il suicidio assistito, un caso di disordine mentale no.
Sarebbe riconoscere che il disagio psicologico è identico alla malattia terminale, riconoscere che va medicalizzato e non socializzato, che l’attenzione alla singolarità, che la tenerezza non sono pratiche di cura adeguate.
Che cosa succederebbe se, nelle strutture psichiatriche, ancora così chiuse e riservate a psichiatri e infermieri, fossero introdotti i familiari e, perché no, figure come antropologi, psicologi e filosofi? Che cosa succederebbe se, nelle scuole di specialità in psichiatria, metà del corso fosse orientato allo studio e alla ricerca in scienze umane e sociali?
Infine, che cosa c’è dietro all’idea che in una sala operatoria è necessario personale adeguato e altamente qualificato e in psichiatria no? Come mai la cura psicologica riceve una manciata di fichi secchi? Non c’è l’idea che, in fondo in fondo, i matti sono dei dissidenti e che la punizione se la sono voluta? Sappiamo che nei manicomi sovietici giacevano quantità di persone dissidenti, sappiamo che durante la dittatura fascista di Papadopoulos, in Grecia, gli oppositori furono inviati all’isola di Leros, dove c’erano già oltre duemila matti senza alcuna cura, sappiamo che una moglie e un figlio di Mussolini morirono in manicomio, sappiamo che una quantità di testimoni di mafia sono diventati malati mentali.
Dunque, che cosa c’è, in fondo in fondo, nell’inconscio di questi poteri democratici? Forse ancora una vena, forse un’arteria, di totalitarismo: «i matti, che ragionano male, se la sono voluta loro».
[articolo uscito su doppiozero]