di Daniela Mallardi.
‘Ho capito quanto sia pieno di insidie, il termine aiutare.
C’é così tanta falsa coscienza, se non addirittura esibizione, nel volere a tutti i costi aiutare gli altri,
che se per caso mi capitasse, di fare del bene a qualcuno, mi sentirei più pulito se potessi dire:
“Non l’ho fatto apposta”.
Forse solo così tra la parola aiutare e la parola vivere, non ci sarebbe più nessuna differenza’
(G. Gaber, SOGNO IN DUE TEMPI, 1994)
La provincia in cui sono nata ha gli ulivi, e piove poco. Nevica quasi mai. Al comune ci sono le foto della nevicata del 1990, che coprì tutto, una neve che Courmayeur avrebbe riso, ma che lì sulle coste adriatiche aveva il sapore della novità, tanto da farcene una galleria. Mi vedo appena arrivata a Roma, davanti ad un polpo metropolitano di luci e di tangenziale, mi vedo sbarcata nel reparto tentacolare di Psichiatria con una laurea in Psicologia ancora sporca di inchiostro e di velleità. Vedo Moira qui con la curiosità del suo arrivo, della sua incidenza come un fiocco di quella neve del 1990.
Nel lettuccio singolo, occupa poco meno che metà del materasso, la sua testa sembra un piccolo punto nero su un’ampia superficie di federa uscita nella mattina dal bustone della lavanderia. Fa impressione, perché così, di primo acchito sembra una bimba. Mi torna in mente il reparto di Neuropsichiatria Infantile, dove i letti erano occupati da piccoli puntini neri di infanzia spiattellati come mosaici. Moira è un mosaico adesso. E’ un mosaico a fasce Moira. E’ entrata da poco. Ma starà poco da noi, ‘il tempo di rimetterla su, perché questo non è il suo luogo’. Non ci vuol molto a dire cosa abbia Moira. Perché l’anoressia non fa a nascondino con l’indecifrabilità, l’anoressia è cruda, è veemente, è lì, si incarna nel nulla, nell’evidenza. ‘Eccomi, mi vedi? Cosa posso essere se sono anoressica?’. Il termine ‘anoressia’ così sdoganato, così abusato in ambiti non psicologici, mi fa venire la nausea, è l’uso improprio dei termini che non finirà mai di innervosirmi. Per Moira, l’anoressia è un’urgenza, è un’emergenza di vita, perché Moira va 37 kili per un metro e 59 centimetri. Stamane col primario e la mia calcolatrice del mio pioneristico Nokia, ci siamo messi a calcolarle il BMI. 14,68. Se ci ripenso oggi ad aver partecipato a questo seducente calcolo diagnostico sul filo del categoriale DSM, mi viene su una strana sensazione, qualcosa forse che ha a che vedere con la mia vergogna, a quel senso di pudore etico per quella parte di me che muoveva i primi passi nell’iniziazione clinica. Credevo che l’operatore funzionale in S.p.d.c. fosse colui che portasse diagnosi, che classificasse il disagio con poco. Comprendo stagioni dopo, psicoterapeuta, che questo gioco rassicura il presunto curante ma mai il presunto curato, che il gioco della diagnosi è una lama peggio di un colpo di stato, è un taglio chirurgico, è un taglio che sanguina. E non ha nulla a che vedere con il taglio di un abito, fatto su misura del soggetto, fatto dalle forbici di un atelier sapiente. E allora oggi a quel Nokia infliggerei la ghigliottina. Non ci vuole un Nokia per dire che Moira sta male.
Te lo urla in faccia che sta morendo ed è un teatro dell’assurdo. E’ ‘Casa di bambola’ di Ibsen. La bambola è lei. Una donna che pesa come una bimba di 10 anni ma che di anni ne ha 27 in più. Ha gli stessi anni dei suoi kili. 37 per 37, se moltiplichiamo il risultato per altrettanti 37 e 37 ancora, in questa matematica frenetica allora solo in quel caso, solo in quell’unico caso, potrei avvicinarmi ai suoi pensieri. Il suo unico totem è il cibo. Le braccia sono esili fili di raso. Hanno lividi ovunque, come una eroinomane da S.e.r.t.. Hanno lividi perché farle le flebo è un gran casino. Lei le flebo non le vuole per nulla. Se le è strappate tre volte. Ora è stanca pure lei, perché non ha forza per strapparsela una quarta volta. Ma a me sembra già abbastanza esoterico che sia riuscita ad avere forza per tre volte.
Per evitare che si estirpi gli ultimi capillari viscidi, è stata legata, come una gru, ogni fascia come una piuma, piccolo uccello. L’anoressia di Moira è la sua anoressia, Non è di nessuno questa forza di disperazione che la anima. Oltre la sua sofferenza, Moira ha la sua personalità, ed è un bel tipino. Con i suoi occhialetti che le scivolano sul viso coperto di lanugine, occhialetti dalla montatura tartaruga, una Gino Paoli al femminile. Ha denti piccoli ed affilati come quelli delle linci, ha occhi distanti come un furetto, ed un po’ c’è qualcosa di lei che ricorda l’irrequietezza del furetto e la capacità di sgusciare.
Moira porta all’esasperazione tutti. Il campanello che lei ha vicino al letto, suona davvero in continuo. Da quando è stata ricoverata suona sempre, come fosse un mega pulsante dei giochi a premi di Raiuno. Moira le fasce non le vuole, le fanno male. Gli infermieri appesantiti dal suono, trascinano le sedie con pesantezza, e si alzano borbottando qualcosa in romanaccio. E si avviano verso di lei per cercare di tenere la calma e poi si vanno a risedere. ‘Che voleva?’.chiedo. ‘Nulla, non vuole le fasce, non vuole la flebo, se la deve tenere se no muore’. Penso che gli infermieri sono stanchi forse, in fondo è sera, in fondo mugolo Gaber.
Mi punge però il suo corpo affilato come una penna incappucciata nel sudario della contenzione. Le fasce sono hula hoop larghi che le cingono gli arti, sono bolle di sapone da spezzare col fiato come quando si era piccoli e la magia era soffiare fino a farsi scoppiare i piccoli polmoni per dotazione d’infanzia, le fasce sono come bracciali africani ad ornarle la strada a tempo di una musica che non c’è.
Cosa desidera Moira? Il furetto mi ha guardato a lungo quando gliel’ho chiesto. Non mi ha risposto. E’ stata in silenzio. Qualcosa deve aver smosso. Forse anche dove non potevo, non dovevo. In fondo qui, in questo reparto le persone sono parcheggiate in modo occasionale e lei, se sopravvivrà, di nuovo si adagerà su un sacco forse analitico. Non so che le ho detto ma il suo guardo non è mansueto. Forse solo ora incomincio a capire perché gli infermieri in questi giorni non la tollerano più. Moira gioca sullo sfinimento della parola che si fa nulla come il cibo che non magia, gioca sullo sfinimento dei familiari rendendoli annacquati di speranza, gioca sullo sfinimento di questo sguardo che non posso sostenere e che dirigo verso la finestra, verso la pioggia, perché in questo giorno di ottobre l’acqua viene giù. Rimetto in asse gli occhi su Moira. ‘La lascio riposare, mi può chiamare quando vuole’ le dico. Mi sorride. E’ un sorriso sardonico. Chissà come mi vede lei? Come mi vede questa paziente anoressica? Come cade l’occhio di Moira sul mio di corpo, che è un corpo nutrito, che non si ciba di nulla, si ciba d’altro.
Moira assomiglia a Isabel Caro, la modella che scatenò il putiferio quando l’irriverente Toscani la fotografò nuda per una campagna contro i dimagrimenti forzati nel 2007, come poi se l’anoressia fosse solo una questione tra ingrassare e dimagrire, come se in questa fisarmonica si lanciassero fuori dalla finestra le questioni fondanti, questo desiderio che non si sa che fine faccia. Isabel Caro morirà un mese dopo il ricovero di Moira in ospedale, il 17 novembre 2010, e la seguirà la madre, con un suicidio in differita di amaro, macabro ed unico possibile ricongiungimento familiare, come a dire che ‘ci si può amare solo nella morte’. Bisognerebbe darsela subito questa possibilità di desiderio, come apertura minima ad una richiesta d’amore, o ad una richiesta possibile. Moira non è lontana però da qualsiasi richiesta, l’unica che ha sono la voce stridula di una flebo da staccare col polso esile che si divincola alle fasce.
Il 2 agosto 2015, sei anni dopo la mia esperienza in S.p.d.c. ho appreso, posando i gomiti su un tavolo di legno indiano che Moira alla fine ce l’ha fatta a morire, a volare via come la farfalla che voleva essere, così leggera da lasciare polvere colorata sulle mani e nell’aria. A ricordare il pulviscolo cromatico disperso in particelle di ossigeno.
La contenzione di Moira (anche in quel caso e non solo in quello) non ha sorretto, legato, decrementato, disciplinato la sua richiesta, la richiesta urlata nel scioglierle le fasce. Ci sarebbe stato forse altro modo in cui stare con Moira e con la sua richiesta? Le mancanze di Moira come le mancanze degli infermieri, dei medici, degli psicologi di Psichiatria rimangono impigliate, fuori e dentro il reparto, ma allora cosa farsene di queste mancanze? Nella vita come nella cura ciò che si può fare non è forse tentare di riempirle, cercando di non farle diventare vuoti? Perché i vuoti sono pozzi ‘più neri del nero’ (De Andrè cantava) mentre le mancanze sono avvallamenti di pozzi che se si tira un sasso qualcosa si produce.
Allora ho associato in questo agosto torrido che le fasce sono vuoto, non servono alla mancanza, non sono sassi, sono macigni, casse altisonanti come un ukulele in cui la voce stridula di un pappagallo somiglia allo strazio.
Ripenso a Moira e a quanto mi ha lasciato questo suo vomito di esistenza incastrato nella contenzione. Che posto hanno preso quelle fasce all’interno di Moira? Che presunta saturazione si attribuisce alla contenzione e in nome di quale beneficio? Non è saturando con pezzi di stoffa manicomiali, assumendosi ruolo di demiurghi che si può rispondere al paziente, ma è solo sottraendo, togliendo, mancando, pezzi di stoffa immaginaria e simbolica che si ridà responsabilità alla parola della richiesta, assumersi il peso della vita, inciampare cioè in quel desiderio alla cui parola Moira era rimasta sconvolta perché nemmeno lei sapeva quale fosse. Il desiderio è una storia strana, opaca ed enigmatica. E siede lì esattamente dove non si pensa, come moto a ripartire dai legami e non dai legacci.