Con le Giornate Basagliane” (vedi) si è aperto un largo dibattito che vedrà impegnati operatori e privato sociale intorno al tema della residenzialità. Un contributo alla discussione: Enrico Di Croce intervista Peppe Dell’Acqua
Lo psichiatra triestino spiega il significato del suo intervento alle “giornate basagliane”
Se disponessi di missili intelligenti, li userei per abbattere in modo mirato tutte le strutture residenziali psichiatriche che hanno sostituito i vecchi manicomi, mantenendone di fatto la logica”. Firmato: Peppe Dell’Acqua. Il celebre psichiatra salernitano, che iniziò a lavorare con Franco Basaglia e che fino al 2012 ne è stato il materiale successore, dirigendo il Dipartimento di Salute Mentale di Trieste, ha spiazzato molti colleghi torinesi, che il 23 ottobre erano accorsi ad ascoltarlo al Caffè Basaglia di via Mantova, ospite d’onore delle “giornate basagliane”.
Ma come? L’evento non era stato organizzato innanzitutto per difendere la residenzialità psichiatrica piemontese? Per contrastare, sul piano culturale, la delibera della Regione Piemonte che rischia di stravolgere la rete di comunità e appartamenti costruita negli anni, grazie anche alla fatica e alla dedizione di tanti operatori “progressisti”?
In realtà, chi conosce meglio la storia dei servizi di Trieste non ha motivi per stupirsi, perché la polemica contro i “nuovi contenitori istituzionali” da sempre contraddistingue quell’esperienza, così come ben noto è lo stile comunicativo impetuoso e provocatorio di Dell’Acqua .
Ma al Caffè Basaglia non è stato possibile, per ragioni di tempo, sviluppare il dibattito e lo sconcerto di molti, e le tante domande che ne sarebbero derivate, sono rimasti senza risposta. Per questa ragione abbiamo ricontattato Dell’Acqua, il quale ha dato molto cortesemente la disponibilità a proseguire il discorso per telefono, in attesa di poterlo riprendere di persona, quando riuscirà a tornare a Torino.
Caro Dr. Dell’Acqua, la sua provocazione sulla necessità di “bombardare” tutte le strutture residenziali, senza distinzione fra pesanti e leggere, ha destato parecchio scalpore fra gli operatori piemontesi. Ci aiuti a capire meglio che cosa intendeva. Non esiste nemmeno una residenzialità buona e una cattiva? Davvero pensa che tutte le esperienze si equivalgano e che tutte siano solo una riedizione del manicomio?
“Certamente no, non è quello che intendevo. E’ evidente che quella sui missili intelligenti è una provocazione, il cui scopo è invitare tutti a ritrovare uno sguardo critico: occorre innanzitutto ripensare a che cosa si intende per cura in salute mentale, che cosa significa affrontare, attraversare il disturbo mentale. So bene che anche nella cosiddetta residenzialità, tra gli operatori di base, si trovano i mille “nuovi Basaglia”, che, come dice Franco Rotelli, ogni giorno danno l’anima e tengono vivi i principi della riforma psichiatrica”.
E allora qual è il rischio che vede per le strutture residenziali?
“Il rischio è rimanere imprigionati nella logica del posto letto, far prevalere ancora una volte la psichiatria dei contenitori: il contenitore per le acuzie, che è il repartino ospedaliero; il contenitore per la sub-acuzie, che è la clinica convenzionata; e i contenitori per la cronicità, che sono le cosiddette residenze. Il problema è quando le comunità, o gli appartamenti, non sono contesti di cura, o abitazioni, ma luoghi dove stare: posti letto da occupare, e non occasioni per vivere ed evolvere nel mondo, attraversando il proprio disturbo. Non bisognerebbe mai parlare di posti letto ma di progetti e di percorsi”.
Qual è la differenza?
“Il progetto è sempre individuale, costruito su misura per i bisogni di quella particolare persona, è un concetto dinamico. Invece il posto letto è uguale per tutti, richiama innanzitutto la necessità di essere occupato, in modo statico. In una struttura che funziona come un insieme di posti letto, si sta; non si abita, non si evolve, non si vive. E non importa che sia una “bella struttura”; che i locali siano puliti, accoglienti o addirittura eleganti. Gli operatori devono resistere alla fascinazione del “bel luogo dove stare”, che è una riproposizione del modello del “buon manicomio”, a cui Basaglia si è sempre opposto con straordinaria determinazione”.
Ma in che senso i progetti devono sempre essere individuali? Non riconosce un ruolo terapeutico alla dimensione gruppale? Cioè al condividere la quotidianità con altre persone come esperienza terapeutica, che insegna ad “accorgersi dell’Altro”, ad acquisire competenze relazionali da spendere nel mondo?
“Certamente sì, a Trieste lo chiamiamo “abitare insieme”; si tratta di progetti per piccoli gruppi, in genere sei, massimo otto persone, in normali abitazioni. So che anche in Piemonte esistono diverse esperienze simili. Abitare è una prospettiva molto diversa dall’ “essere collocati” in una struttura. Sono situazioni che il Centro di salute mentale gestisce in collaborazione con il privato, mantenendo la titolarità del progetto complessivo; noi parliamo di co-progettazione, il che non significa semplice subalternità del privato al pubblico, ma nemmeno delega in bianco ad un soggetto terzo, attraverso il pagamento di una retta. In Friuli Venezia Giulia, come in altre Regioni (Emilia Romagna, Campania) abbiamo potuto sviluppare al meglio questo tipo di approccio grazie all’introduzione del cosiddetto budget di salute”
Come funziona?
“E’ un meccanismo amministrativo grazie al quale l’Asl può definire una previsione di spesa per una persona (un budget appunto) da utilizzare secondo un progetto personalizzato; ovvero, non solo per pagare una retta, acquistare un pacchetto preformato messo a disposizione da un fornitore, bensì per contrattare con l’utente e con il fornitore, o anche con più fornitori per aspetti diversi (ad esempio abitazione, lavoro, tempo libero), progetti fatti su misura e flessibili. In questo modo non è l’utente che deve adattarsi alla “struttura” ma il progetto che viene adattato ai bisogni della singola persona. La residenzialità, intesa come abitare, in un appartamento o in una convivenza protetta, non può rimanere scollegata dal progetto di vita complessivo, non può significare fuoriuscita dal mondo normale”.
Nell’ambito di questi progetti, operatori del Csm possono lavorare fianco a fianco con operatori del privato? In Piemonte è stata messa fortemente sotto accusa la cosiddetta commistione fra pubblico e privato.
“Certo che possono, anzi devono! Il servizio pubblico deve garantire e coordinare tutti i percorsi di cura, non deve mai fornire deleghe in bianco o limitarsi a produrre, in modo formale, procedure di “invio”. Deve essere presente, con personale proprio, in tutte le fasi del percorso terapeutico e riabilitativo, che è sempre espressione della presa in carico territoriale. Per questo insistiamo sul ruolo del centro di salute mentale aperto 24 ore. Il rapporto fra pubblico e privato deve essere di partnership, di co-progettazione, attraverso procedure amministrative corrette e trasparenti, come quelle che il budget di salute consente. L’idea per cui la separazione deve essere rigida e assoluta, o fa tutto il pubblico o fa tutto il privato, è assurda”.
Lei insiste molto sulla personalizzazione dei percorsi. E’ informato che, a margine della delibera sulla residenzialità, la Regione Piemonte ha intimato ai servizi di non ricorrere a progetti individuali, di domiciliarità o per piccolo gruppo, in quanto non previsti dalla normativa?
“Per l’appunto, come dicevo all’inizio, si tratta di ritrovare uno sguardo critico, tornare a ragionare su cosa significa cura in salute mentale. Il pericolo è attuare il cambiamento attraverso il “riordino” del peggio, cioè l’assoluto paradosso: eliminare quello che funziona bene e far diventare modello unico ciò che funziona peggio, il sistema dei posti letto e dei contenitori rigidi, separati dalla presa in carico, al di fuori dei quali non esiste più nulla; un sistema che non cura ma al contrario coltiva la malattia e produce cronicità ed esclusione”.
In conclusione, se abbiamo capito bene il messaggio agli operatori piemontesi atterriti dalla delibera sul riordino della residenzialità non è: “siate felici se vi fanno chiudere bottega…”
“Ma no, certamente no. Piuttosto vuole essere: approfittatene, approfittiamone, per ripensare al nostro modo di lavorare, per tornare a dibattere, a far girare le idee. Non limitiamoci a difendere l’esistente, ma mobilitiamoci per diffondere le buone pratiche, sulle quali, evidentemente, non si è discusso a sufficienza e non sono abbastanza conosciute e sostenute