Il “Tavolo per la Prevenzione e Sicurezza”
Considerazioni in merito alle criticità correlate all’intervento in ambito psichiatrico. di Luigi Colaianni*
Una breve storia
Inizierò questo mio breve testo con una storia: nell’autunno del 2008 il Comune di Milano nell’assessorato alla sanità ha istituito un “tavolo di lavoro” sulla «pericolosità sociale» che nel protocollo istitutivo contempla la presenza degli psichiatri responsabili dei dipartimenti di salute mentale delle Aziende ospedaliere di Milano[1] e le forze dell’ordine[2], al fine di far fronte in maniera strategica ed integrata al problema delle alterazioni comportamentali che possono sfociare nella pericolosità sociale distinguendo quelle sostenute da patologie psichiatriche e/o tossicologiche da quelle di carattere antisociale;
per perseguire tale finalità, il “Tavolo Prevenzione Pericolosità Sociale” fissa le linee strategiche e di indirizzo delle azioni da intraprendere in ordine alle questioni connesse con il tema in oggetto; stabilisce, al contempo, prassi di carattere operativo e di rapida applicazione onde far fronte alle problematicità connesse con le urgenze/emer–genze psichiatriche o da alterazioni comportamentali sostenute dall’uso di sostanze potenzialmente foriere di pericolosità sociale.
Come appare evidente, nel testo dell’accordo presentato viene affermato il costrutto di “pericolosità sociale”, senza per altro dichiararne la teoria fondativa in virtù della quale esso viene generato, né la sua definizione, per cui la locuzione è usata secondo il mero senso comune; infatti l’unica definizione attualmente disponibile di “pericolosità sociale” è quella derivata dall’uso giudiziario e si riferisce a soggetti che abbiano condanne penali a loro ascritte o misure di sicurezza a seguito di reati. Il testo invece stabilisce un legame di causalità tra ciò che viene definito come «alterazioni comportamentali […] sostenute da patologie psichiatriche e/o tossicologiche» e azioni configurabili come reato. Pertanto, la “pericolosità sociale” è assunta come un “dato di fatto”, per cui, tra l’altro, viene ritenuta necessaria a fini preventivi e considerata determinante l’implementazione delle sinergie tra e con tutti i servizi preposti, nonché la definizione di percorsi per la raccolta di dati su situazioni a rischio di pericolosità sociale, al fine di delineare un quadro del “bisogno sommerso” nella Città di Milano.
Senza entrare nel merito meramente politico dell’iniziativa, che nasce sullo sfondo della illusione securitaria che pervade l’attuale spazio discorsivo del sistema-Paese e che in questa sede non ha rilievo in quanto tale, si considera come tale produzione discorsiva abbia elicitato effetti pragmatici da parte dei partecipanti al “tavolo”, tra cui la richiesta da parte del Comune di elenchi di persone con diagnosi psichiatrica che siano state “giudicate” dagli psichiatri “socialmente pericolose”[3] e la successiva richiesta di redazione di tali elenchi da parte di almeno un responsabile di dipartimento ai medici dei servizi psichiatrici territoriali afferenti. Richiesta a cui hanno corrisposto almeno due medici di un servizio, per quanto noto.
Pertanto numerosi cittadini italiani con diagnosi psichiatrica si sono trovati, senza averne cognizione, a essere inseriti in elenchi sanitari non in virtù della nosografia di riferimento, ma di un’attribuzione di mero senso comune generata dal “giudizio” formulato secondo criteri “personali” (e non professionali) da medici psichiatri[4], così ledendo principi quali quelli garantiti dalla l. 675 del 31 dicembre 1996 (consolidata dal d.l. 467 del 28 dicembre 2001)[5] che norma la tutela e il trattamento dei dati personali sensibili.
Ora è secondario descrivere le criticità verificatesi, nel tentativo di rendere noto quanto esposto alla comunità professionale e all’opinione pubblica, nonchè ai soggetti che hanno responsabilità di controllo sociale e di tutela dei diritti delle persone; la vicenda si è evoluta, per quanto è dato di sapere, solo in virtù del coinvolgimento di livelli di interlocuzione centrali e generali del paese, cha hanno attivato i livelli periferici, fino ad allora insensibili a quanto offerto alla loro considerazione; ciò ha fatto sì che venissero poi presentate interrogazioni consiliari al Consiglio comunale di Milano. Grazie a queste e all’intervento delle associazioni – finalmente informate –, che animano il Forum salute mentale della Lombardia, la configurazione del testo dell’accordo è stata parzialmente cambiata, ed è stata cassata dal protocollo del “tavolo” la locuzione «dal rischio di situazioni di pericolosità sociale».
Sembrava così che le intenzionalità che avevano generato la configurazione di eventi si fossero “smorzate” e ciò è possibile affermare in virtù di quanto connotato dalle parole di uno dei responsabili di Dipartimento di salute mentale che avevano preso attivamente parte alla “cosa” («Era una cosa elettorale»), ascoltate nel marzo dello scorso anno.
Occorre qui dare conto che una nuova iniziativa da parte del Comune di Milano – coerente con la precedente e più connotata in senso autoritario e pervasa di senso comune – è stata generata nel febbraio di quest’anno con la produzione di un testo che poneva alla considerazione – tra l’altro – una sorta di corto circuito tra competenze delle forze dell’ordine e competenze medico-diagnostiche, cosa che si evidenzia dal seguente testo:
«Alle Forze dell’Ordine è deputato il riconoscimento dei cittadini affetti da disturbi mentali nelle situazioni di emergenza e la scelta del percorso da seguire».
In seguito, in virtù delle numerose osservazioni critiche nel merito, offerte dalle associazioni (per altro la psichiatria “ufficiale” è apparsa muta), tale stringa di testo è scomparsa dall’”accordo”, che tuttavia risulta riportare quanto segue:
« Considerato che è necessario individuare strategie per la presa in carico specifica in base al target di riferimento e, in particolare […] per i soggetti, con patologia psichica con personalità antisociale sostenuta dall’uso di sostanze, noti ai servizi, il rafforzamento ed ottimizzazione della rete di collaborazione e comunicazione di tutti i servizi deputati alla cura e tutela dell’utente e dei cittadini per una gestione più efficace dei casi di non adesione alle cure con ipotesi di studio per una rivisitazione operativa delle procedure attuali di Trattamento Sanitario Obbligatorio (T.S.O.);»
È noto come le procedure per il T.S.O. siano state concordate e statuite nella Conferenza delle Regioni e delle Province autonome e offerte alla considerazione nel testo delle “Raccomandazioni in merito all’applicazione di accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori per malattia mentale (art. 33 – 34 – 35 legge 23 dicembre 1978, n. 833)”. Pertanto l’intenzione di una «rivisitazione operativa» delle procedure è inadeguata in quanto non è definibile unilateralmente.
Alcune considerazioni
La vicenda è qui presentata in quanto significativa per il fatto che, non solo la psichiatria delle A.O. di Milano nel suo complesso – sia per il primo, sia per il secondo episodio – non ha rilevato nulla nel merito di quanto andava accadendo, ma ha aderito al protocollo con alcuni direttori di dipartimento ed è stata consenziente circa la richiesta di redazione degli elenchi.
Come è stato possibile che avvenisse quanto descritto, che contavviene sia aspetti di legittimità, sia deontologici (si pensi al consenso informato, così poco praticato in psichiatria)?
Quali sono gli aspetti che generano la criticità descritta e che vede la psichiatria reiteratamente nella storia – si pensi a quanto descritto dal testo di Alice von Platen (2000), Il nazismo e l’eutanasia dei malati di mente, Firenze: Le lettere – mostrare una sorta di vocazione autoritaria?
A seguito degli eventi id cui si è scritto, resi noti all’opinione pubblica nel dicembre del 2008, tredici psichiatri milanesi[6] hanno redatto e diffuso una «Lettera aperta. A tutti coloro che operano nella salute mentale in lombardia», che interviene sulle correlazioni tra stato del dibattito in psichiatria, politiche securitarie e prospettive di cambiamento.
Pertanto, in occasione del dibattito che caratterizza questo Forum, il presente contributo terrà conto anche di quanto lì scritto (a cui si rimanda il lettore) per formulare alcuni interrogativi che possono rappresentare una traccia argomentativa tale da rendere ragione, piuttosto che di punti di vista ideologici per quanto condivisibili, di elementi scientificamente fondati per offrire la prospettiva per un cambiamento dei discorsi che la psichiatria – in primis il ruolo di psichiatra, quindi tutti gli altri ruoli professionali che operano sul campo – produce e che concorrono alla definizione del suo statuto materiale e ancor più delle “carriere” biografiche degli utenti che vengono generate.
Si ritiene che questa potrebbe costituire una possibilità per riprendere un dibattito riflessivo interrotto almeno venti anni fa, e per generare qualcosa di nuovo e soprattutto di diverso. Si pongono all’attenzione, pertanto, le seguenti domande, la cui risposta può indicare un percorso razionale per rispondere alle criticità:
- si è certi che quanto è avvenuto e sta avvenendo in questi mesi, anche in ambito psichiatrico, circa l’illusione securitaria sia imputabile solo al processo riorganizzativo nelle aziende ospedaliere e/o alla «scarsa capacità di confronto e di azione comune, soprattutto da parte degli operatori», come sostenuto nella Lettera?
- come è possibile dare ragione di quella ricorrente vocazione “autoritaria” dell’attuale statuto della psichiatria, mai sufficientemente evidenziata e definitivamente superata?
- si può affermare che la psichiatria goda oggi nel suo statuto della stessa scientificità e rigore richiesti dal suo collocarsi nel modello medico della medicina biologica?
- si può affermare che lo “stigma” di cui la psichiatria spesso parla sia generato proprio dalle pratiche psichiatriche, piuttosto che dall’impatto della devianza primaria (Lemert) nelle reti naturali?
- in che modo e per quanto la psichiatria – con i suoi attuali strumenti conoscitivi – genera carriere morali (Goffman) che poi si trova a dover “riabilitare”? O per dirla con Ivan Illich, quanto i suoi strumenti (innanzitutto conoscitivi) generano disabilitazione degli utenti, come effetto iatrogeno?
- cosa giustifica il considerare mere sindromi come vere e proprie “malattie mantali”, in assenza di eziopatogenesi conosciuta e quindi di possibilità di prognosi, contravvenendo il criterio della coerenza con il modello medico?
- quanto è accettabile scientificamente ed eticamente che l’attuale statuto della psichiatria non renda disponibili per la prassi obiettivi definiti e condivisibili (tra tutti gli operatori), aspetti processuali rendicontabili e descrivibili, esiti valutabili?
- è possibile affermare che il processo conoscitivo messo in atto dalla psichiatria, qualora non venga orientato dal senso scientifico, possa far sì che essa assuma facilmente il ruolo che il senso comune le attribuisce, con il rischio di ricadute autoritarie che spesso – come sopra accennato – sono apparse nella sua storia (ricordo il socialista Cesare Lombroso, di cui si “celebra” il centenario della morte)?
- quanto la critica all’impiego del DSM IV e alla farmacologizzazione della psichiatria si è tradotta nella trasformazione dei suoi strumenti conoscitivi e delle correlate prassi operative, in tutti i contesti in cui è presente, compreso quello delle persone detenute in carcere?
- quanto l’affermato statuto dell’utente con diagnosi psichiatrica come soggetto di diritto trova corrispondenza nella pratica dell’informazione per il consenso alla diagnosi e al trattamento[7]? E se tale corrispondenza non è data, in virtù di cosa?
- le équipes dei servizi psichiatrici sono strumenti strategici per il gioco di squadra? E quindi l’azione comune è resa possibile in virtù di obiettivi definiti e condivisibili, strategie e azioni descrivibili, risultati valutabili? Tali risultati vengono valutati?
- le équipes sono il luogo della elicitazione delle competenze professionali proprie di diversi saperi e profili, pienamente riconosciute e rilevanti ai fini dell’intervento? Oppure si assite a una mera gerachizzazione dei saperi e dei corrispondenti profili di ruolo?
- il testo della Lettera citata riporta: «[…] evitando cioè che disagio sociale e devianza vengano impropriamente delegati alla psichiatria, ovviamente con la richiesta di sfoderare i suoi strumenti di intervento coattivo»; quali sono gli aspetti cruciali perché tale delega, la cui pressione anticipiamo – date le attuali configurazioni discorsive che pervadono il senso comune – sarà sempre più forte, non venga accolta dalla psichiatria?
- riprendendo quanto scritto nel Manifeste contre la politique de la peur dell’omonimo Collectif, a cui la Lettera aperta fa riferimento[8], non occorrerebbe riflettere sul fatto che per contrastare adeguatamente la politica della paura – come scritto nel Manifeste: “Nous savons que le droit peut être utilisé en vue d’atteindre n’importe quel but social; sa fonction première est de maintenir l’ordre social. C’est pourquoi nous nous déclarons résolument du côté des Droits de l’Homme et du citoyen dans leur fonction ordonnatrice de la société”, la delega data alla scienza e al diritto per “valider avec zèle dérégulation, sauvagerie du marché, destructivité, etc.” – la scienza e il diritto debbano interrogare se stessi e la società anzitutto sui criteri utilizzati per definire qualcuno “malato mentale” o/e “criminale”?
- non occorrerebbe riflettere, inoltre, su come avvenga che, attraverso i loro apparati teorici e le loro pratiche, scienza e diritto conferiscano per primi lo statuto di soggetti (in verità, di meri oggetti) di diritto alle persone che qualcuno (chi sono i definitori?) ha ritenuto di dover definire (o vorrebbe definire) malati e/o criminali?
- è possibile condividere tali domande perchè le risposte costituiscano punti di snodo per il cambiamento?
- è possibile pensare – al fine di «favorire il risveglio» degli operatori auspicato – di aprire un processo per la costruzione di una comune riflessione al fine di generare un nuova condivisione, attraverso una consensus conference degli operatori della psichiatria, aperta a tutti i soggetti implicati, persone con diagnosi psichiatrica, familiari e operatori della giustizia (il testo della Lettera recita «Su tutto questo occorrerà incrementare il confronto, sempre difficile e molto sporadico, col mondo della giustizia»), perché si possa generare una nuova configurazione discorsiva circa l’intervento e quindi possibilità che l’attuale statuto non permette di anticipare?
- infine, è possibile (e come) che quanto venga così generato possa incidere su una diversa architettura dei servizi, intendendo con ciò il sistema “integrato” dell’arcipelago dei molti soggetti pubblici e privati che agiscono sul territorio, che contrasti quanto rilevato, ovvero il fatto che «il campo della psichiatria è stato attratto inevitabilmente nell’area medica», con il corollario della «costante sottovalutazione e di conseguenza sottodimensionamento, riduzione del personale o talora chiusura dei servizi collocati nel territorio»?
Una conferenza per il consenso
Il contributo offerto dalla «Lettera aperta» evidenzia una serie di criticità che coloro che operano in ambito psichiatrico e coloro che utilizzano i servizi in tale ambito erogati attualmente incontrano. Tali criticità si esplicano a vari livelli e coinvolgono tutti i soggetti, individuali e associativi, che contri–buiscono a generare le pratiche operative della psichiatria. È altresì condivisibile quanto viene rilevato, da una parte, circa la necessità di produrre un cambiamento che sia efficace nel dare risposta alle criticità, dall’altra circa quanto viene considerato come «un grave ostacolo al cambiamento [ovvero] la scarsa capacità di confronto e di azione comune, soprattutto da parte degli operatori. Di fatto, non esistono più luoghi di reale aggregazione (sindacato, associazioni professionali, gruppi rappresentativi) in cui la maggior parte si riconosca, mentre i momenti di incontro istituzionali sono sempre più formali, aridi e spesso condotti con modalità autoritarie. Sicuramente vi è un po’ più di vitalità nelle associazioni dei familiari e in quelle di volontariato, mentre le associazioni degli utenti sono allo stato nascente; ma tutte queste realtà sono fortemente parcellizzate e si confrontano assai poco fra di loro».
Pertanto si rileva come il processo di comunicazione tra i vari soggetti si sia arrestato in questi anni, rendendo non più condivisi e condivisibili obiettivi, strategie, pratiche e la possibilità di una loro valutazione, e quindi, di conseguenza, si sia ridotta considere–volmente la possibilità di generare il consenso nel merito di quanto viene ormai replicato nelle routines dell’assistenza psichiatrica, nei suoi vari aspetti.
Il documento citato si chiude con la considerazione della prospettiva in cui si ritiene che sia efficace muoversi, ovvero
«individuare nuove forme di dialogo e di confronto, agili ed efficaci, veloci e non burocratiche […], che portino poi a periodici momenti di incontro, a orientamenti largamente condivisi, a iniziative anche pratiche. Su tutto questo desideriamo sentire i suggerimenti di tutti, e attendiamo quindi le vostre risposte e proposte».
Assecondando tale prospettiva condivisibile, si intende qui offrire alla considerazione dei lettori e in particolare di coloro che operano in ambiti psichiatrici, la proposta della promozione di un processo comunicativo non episodico, che possa generare una nuova condivisione circa i temi trattati, garantendo a tale processo una gestione tale che sia in grado:
1. di «individuare nuove forme di dialogo e di confronto»: ciò è possibile fare promuovendo la generazione di discorsi nel merito da parte di tutti i soggetti: persone con diagnosi psichiatrica, familiari, associazioni, psichiatri, volontari, educatori, infermieri, assistenti sociali etc., attraverso specifiche modalità partecipative (focus groups, interviste a testimoni privilegiati etc.);
2. di «raccogliere orientamenti»: raccogliendo le configurazioni testuali che saranno prodotte;
3. di portare « […] a orientamenti largamente condivisi, a iniziative anche pratiche»: elaborando i dati testuali raccolti al fine di poterli restituire in modo tale che possano costituire la base scientificamente fondata per il dibattito, al fine di un nuovo possibile consenso.
Convenzionalmente si potrebbe indicare il processo descritto con la locuzione di “Conferenza per il consenso della salute mentale”. È certamente possibile entrare nel merito delle strategie efficaci per raggiungere l’obiettivo così definito, che potrebbero vedere soggetti terzi come garanti scientifici della metodologia di un processo configurabile come una ricerca-intervento (per esempio ricercatori universitari che impieghino modelli e strumenti dialogici-interattivi di ricerca); in questa sede, si intende porgere quanto scritto per costruire le possibili convergenze su tale proposta, nei vari contesti teritoriali e per porre gli aspetti sostantivi illustrati come fuoco della discussione.
Eludere tali domande – insieme a tutte le altre che potranno essere poste – significa affidare al mero “dover essere” e all’ideologia il compito di fornire risposte che proprio in virtù del “dovere essere” e dell’approccio ideologico non sono state rese dispoinibili.
Consapevole della incompletezza e della schematicità di quanto scritto, concludo ricordando il detto hassidim:
«Se non io per me, chi per me? E se non adesso, quando?».
* Dottore di ricerca in servizio sociale, sociologo della salute, assistente sociale specialista. Lavora dal 1980 nel Servizio sanitario nazionale, in vari ambiti di intervento sociale (salute mentale, comportamenti a rischio). Insegna discipline sociologiche e del servizio sociale in varie università italiane. È referente per il nodo italiano del network europeo DANASWAC (Discourse And Narrative Approach to Social Work And Counselling).
E–mail: luigi.colaianni@gmail.com
[1] L’assetto dei servizi sanitari e socio-sanitari della Regione Lombardia statuisce che i dipartimenti di salute mentale (Centri psico sociali, Servizi di diagnosi e cura, Centri diurni e Centri riabilitiativi ad alta assistenza) siano gestiti e organizzati dalla Aziende ospedaliere.
[2] Per il documento originale del protocollo: http://www.menteinsalute.it/documenti/accordo.pdf
[3] «Il dr. […], Direttore del DSM, ribadisce che si tratta di un progetto del Comune e che al tavolo partecipano oltre alle strutture sanitarie identificate, le forze dell’ordine della Polizia e dei Carabinieri, conferma che da parte dell’Azienda Niguarda, non è stato divulgato alcun elenco di persone socialmente pericolose anche se richiesto al tavolo di cui sopra», dal verbale 23 dicembre 2008 A.O. Niguarda Ca’ Granda, Milano.
[4] I reports che contengono gli elenchi si aprono con le seguenti configurazioni testuali: «[…] le segnalo, come richiesto, i pazienti che seguo personalmente in CPS e che ritengo socialmente pericolosi:», «Le segnalo, come richiesto, i pazienti che sono in carico presso il CPS e che hanno manifestato un comportamento che denota un rischio di pericolosità sociale», che evidenziano l’utilizzo di un criterio di giudizio personale non configurabile come portato dal processo diagnostico.
[5] In particolare vedasi l’art. 17, Limiti all’utilizzabilità di dati personali. 1. Nessun atto o provvedimento giudiziario o amministrativo che implichi una valutazione del comportamento umano può essere fondato unicamente su un trattamento automatizzato di dati personali volto a definire il profilo o la personalità dell’interessato. 2. L’interessato può opporsi ad ogni altro tipo di decisione adottata sulla base del trattamento di cui al comma 1 del presente articolo, ai sensi dell’articolo 13, comma 1, lettera d), salvo che la decisione sia stata adottata in occasione della conclusione o dell’esecuzione di un contratto, in accoglimento di una proposta dell’interessato o sulla base di adeguate garanzie individuate dalla legge.
[6] http://www.menteinsalute.it/documenti/letteraaperta.pdf
[7] vedi Colaianni L. 2009, «Per incapacità di intendere e volere». Il consenso informato della psichiatria, Roma: Aracne.
[8] http://www.uspsy.fr/IMG/pdf/manifeste_CEDEP_etats_generaux_droits_et_libertes.pdf