Si al “Trattamento psicologico obbligatorio”
nel nuovo Codice deontologico dell’Ordine degli Psicologi e delle Psicologhe

Non amo il termine “psicologico”. Lo psicologico non esiste.
Diciamo piuttosto che si può migliorare la biografia di una persona…
J.P. Sartre

Si è concluso con parere positivo il referendum per la revisione del Codice Deontologico degli Psicologi, la cui modifica si presta a delle note critiche su cui vale la pena di riflettere. La proposta di revisione degli articoli è stata resa pubblica ad aprile dal Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi (CNOP), e ha ricevuto approvazione tramite referendum on line, il 25 settembre scorso, a cui ha partecipato un numero esiguo di psicologi: sono stati 16.909 i votanti (su un totale di 131.584 iscritti all’ordine e aventi diritto al voto), di cui 9.034 hanno dato parere favorevole, 7.617 parere contrario, e 258 schede bianche. 

Il codice deontologico di un ordine professionale non è assimilabile alla legge ma costituisce un riferimento etico interno alla categoria, che si fonda su principi morali e regole di comportamento a tutela dell’utenza, della categoria e della società; in quanto tale ha un valore etico elevato perché non richiede la semplice attenzione alla non-violazione delle norme deontologiche – come accade nel caso della giurisprudenza – ma invita i professionisti ad un’etica attiva, e quindi all’assunzione di un atteggiamento partecipato nella scelta del proprio modo di essere nella cura e in relazione all’altro.

Le modifiche che sono state introdotte nel nuovo Codice Deontologico delle Psicologhe e degli Psicologi è necessario che siano oggetto di una riflessione critica, soprattutto per alcuni cambiamenti di carattere etico/deontologico che vanno verso una progressiva sanitarizzazione della professione, anziché stimolare nei professionisti l’assunzione di un habitus, ovvero di una disposizione morale che favorisca il rispetto della persona umana, e che agevoli al contempo la costruzione e il mantenimento di un rapporto di fiducia reciproca con l’individuo e tra le persone significative. In particolare, qui si vuole far luce su alcune modifiche che rischiano di snaturare la professione, di ridurre il libero arbitrio delle persone e delle figure genitoriali e, non in ultimo, di diminuire il valore degli aspetti fondanti la pratica professionale, quali la relazione e la reciprocità nel rapporto tra chi domanda e chi presta sostegno. Non sarà presentata in questo articolo un’analisi esaustiva del Codice per cui si invita il lettore ad un approfondimento del testo, in particolare riguardo alcune modiche importanti qui di seguito elencate: 

  • nel nuovo Codice la professione degli psicologi viene assimilata al modello medico. La precedente dicitura “prestazione professionale” è stata sostituita con “trattamento sanitario” (Art. 31); è stata introdotta l’indicazione di attenersi alle “linee guida e alle buone pratiche clinico-assistenziali” (Art. 22); si fa rimando non più alle “conoscenze psicologiche” ma a “metodi e tecniche” (Art. 21); e sono stati introdotti termini  come “diagnosi e prognosi” (Art. 24). Si ricorda che lo psicologo non psicoterapeuta non può lavorare all’interno del Sistema Sanitario Nazionale
  • Con la modifica dell’articolo sul “consenso informato di adulti capaci” (Art. 24) lo psicologo deve aggiornare la persona riguardo le “conseguenze dell’eventuale rifiuto del trattamento sanitario”. 
  • Nel nuovo Codice il concetto di “segretezza” del rapporto professionale viene sostituito con quello di “riservatezza” (Art. 17). 
  • Con l’aggiornamento apportato avviene una de-regolazione delle prestazioni psicologiche non sanitarie (Art. 24, Art. 31), che sono invece ricorrenti nella professione dello psicologo, come quelle operate a scuola, in ambito perinatale, nella psicologia del lavoro e delle organizzazioni, nelle risorse umane, nel counselling psicologico, ecc.
  • Negli articoli che riguardano il “consenso informato di adulti capaci” (Art. 24) e il “consenso informato di soggetti di minore età oppure incapaci” (Art. 31) il termine “interdetti” viene sostituito con “incapaci”, senza una definita specificazione del concetto. 

È importante soffermarsi su un cambiamento poco chiaro e controverso che ha acceso in questi giorni un ampio dibattito, e che concerne l’Art. 31 in merito al “Consenso informato sanitario nei casi di persone minorenni o incapaci”, nel quale viene data una ampia possibilità decisionale allo psicologo di segnalare all’autorità giudiziaria la necessità del “trattamento psicologico” senza il consenso informato. Qui di seguito è possibile leggere l’Art. 31 nella prima versione e in quella revisionata. 

Art. 31 (prima della revisione)

Art. 31 (revisionato)

Consenso informato sanitario nei casi di persone minorenni o incapaci

Le prestazioni professionali a persone minorenni o interdette sono, generalmente, subordinate al consenso di chi esercita sulle medesime la potestà genitoriale o la tutela. Lo psicologo che, in assenza del consenso di cui al precedente comma, giudichi necessario l’intervento professionale nonché l’assoluta riservatezza dello stesso, è tenuto ad informare l’Autorità Tutoria dell’instaurarsi della relazione professionale. Sono fatti salvi i casi in cui tali prestazioni avvengano su ordine dell’autorità legalmente competente o in strutture legislativamente preposte.

I trattamenti sanitari rivolti a persone minorenni o incapaci sono subordinati al consenso informato di coloro che esercitano sulle medesime la responsabilità genitoriale o la tutela. La psicologa e lo psicologo tengono conto della volontà della persona minorenne o della persona incapace in relazione alla sua età e al suo grado di maturità nel pieno rispetto della sua dignità. Nei casi di assenza in tutto o in parte del consenso informato di cui al primo comma, ove la psicologa e lo psicologo ritengano invece che il trattamento sanitario sia necessario, la decisione è rimessa all’autorità giudiziaria.

 

La domanda che emerge è come possa una tale modifica stimolare negli psicologi la disponibilità morale a comprendere la persona nel suo diverso modo di essere, e se invece questa indicazione non orienti piuttosto verso la medicalizzazione del bisogno e la normalizzazione di comportamenti considerati “non allineati” alla norma. È verosimile pensare che un codice deontologico che non metta in rilievo l’importanza di tenere sempre al centro la persona e il suo bisogno possa, in qualche modo, determinare negli psicologi una minore capacità di accettazione del dissenso, in favore di una più ampia direttività nella pratica professionale. 

L’altro dubbio che si pone è se sia stato adeguato introdurre nel Codice Deontologico un costrutto mutuato dalla medicina, come quello di «trattamento sanitario necessario», che rimanda indubbiamente a un orizzonte semantico e a una postura etica decisamente lontana dagli obiettivi di un codice etico, e che si distanzia inoltre dalla funzione di orientamento e sostegno che gli psicologi sono chiamati a svolgere nella loro pratica professionale. Ricordo che gli psicologi sono le figure preposte ad accogliere e sostenere la sofferenza e le necessità delle persone e delle famiglie, ad accompagnarle nel raggiungimento di una più ampia consapevolezza delle proprie fragilità e risorse, orientandole quindi verso una maggiore capacità di autonomia, di auto-determinazione e quindi di ben-essere. Leggendo il nuovo Codice però non si comprende in quale modo tutto questo possa essere favorito. Viene inoltre da chiedersi come possa avere attuazione un trattamento psicologico obbligatorio senza la collaborazione e il coinvolgimento attivo della persona, e quali possano essere le virtù di un approccio simile, ma soprattutto in che modo questa possibilità possa favorire negli psicologi il saper essere nella cura, nell’accezione più ampia del termine. 

È altresì necessario capire come mai in un codice deontologico che non sostituisce la legge sia stato dato rilievo ad aspetti che mirano ad una maggiore direttività degli operatori e all’adesione alla scienza, e non sia stata messa in luce invece l’importanza di esercitare quella capacità di saggezza e di ragionevolezza, oggi purtroppo residuale, fondamentale per chi si appresta ad una professione così delicata. Un codice etico, che possa dirsi tale, dovrebbe essere uno stimolo per gli psicologi all’esercizio delle virtù, quali sono la moderatezza, la prudenza, la temperanza, nel rispetto della persona e al di là del suo stato di sofferenza, di differenza o di malattia. In una società che è molto cambiata rispetto al periodo di istituzione del Codice deontologico degli Psicologi (1998) sarebbe stato importante agevolare il saper essere nella cura, nell’accezione umanistica che porta con sé il concetto, come esercizio di disponibilità da parte degli psicologi nel fornire, con il proprio comportamento, un modello etico di integrità e responsabilità morale a cui l’utente potesse fare riferimento. In questo modo il Codice sarebbe rimasto uno strumento etico importante per l’utenza, per la categoria professionale e per la società. Ma sembra invece che tutto questo venga disatteso da scelte che non rispettano affatto l’intento per cui il Codice è stato istituito, e cioè quello di offrire un orizzonte valoriale condiviso che dia prima di tutto rilevanza alla persona, alla sua singolarità irriducibile, non come oggetto della cura ma quale soggetto della cura. 

Sappiamo come uno dei fattori protettivi per ogni individuo sia proprio la possibilità di essere protagonista del proprio percorso di vita e di cura. L’opportunità di vedersi riconosciuta la dignità come persona umana – al di là del proprio stato di malattia o di altra condizione [legge 180, 1978] – costituisce un diritto che è stato ottenuto con molto impegno e sacrificio, e che rimane ancora oggi un riferimento etico di inestimabile valore per ogni operatore. Provare a ragionare sulla nostra contemporaneità, guardando ai valori che nel passato hanno portato alla conquista di una visione più umana del bisogno, indubbiamente può essere ancora oggi un buon modo per favorire una riflessione critica sulle scelte odierne che riguardano l’etica professionale, ricordando a chi si accosta alla professione che per “prendersi cura” di qualcuno bisogna sapere, prima di tutto, tenere in conto quale sia il “bene” per quella persona.