di Anna Poma.
Può accadere di perdere la testa, o forse il cuore, i confini, il senso della propria integrità, può accadere che non torni l’unico conto che davvero conta, quello che ci fa stare nel mondo senza sentircene oltraggiati, violati o in attesa che qualcosa venga a farlo. Può accadere che dentro quel trambusto che scuote tutto il resto, il resto appaia scuro, le ombre carne e ossa, il noto ignoto e spaventoso, e che la paura di chi sta nel capogiro faccia paura proprio agli altri che non ne vedono ragioni e ne restano spiazzati. Può accadere allora, come è accaduto ieri -ma proprio non doveva- che la storia diventi un’altra storia. Quella di Mauro, ucciso a trentatré anni da un carabiniere perché reagisce violentemente alla presa di un suo collega che, dopo averlo rincorso, lo ammanetta, per sottoporlo a un trattamento sanitario obbligatorio. Siamo in un piccolo paese in provincia di Padova, un luogo in cui tutto è familiare e i nomi di tutti si conoscono: Mauro, che ha le carte in regola per sentirsi a casa dove sta, una laurea, un lavoro, un lavoro suppletivo per arrotondare, ma anche passioni che lo stringono alla vita, prende sempre più a tremare del suo vivere, allarma chi gli sta vicino e invoca in una lingua inconsueta qualcosa che lo sottragga a quel dolore.
Quel che accade dopo, in mezzo, da qui fino alla morte del ragazzo non è dato di afferrare appieno, sulla scia di ricostruzioni che continuano a contendersi la scena. Sappiamo solo di una procedura che forza ogni intenzione di cura, di medici che lasciano il campo a gente in armi, barattando parole con minacce, ascolto con distanza e punizione. Una procedura che racconta, più che di Mauro, di un Paese in cui ancora la Salute Mentale è in troppi luoghi una gara a colpi bassi, violazione dei diritti, umiliazione dell’offesa. Quando non, come in questa storia senza scampo, ancora crimine di pace. Nonostante la legge 180 e tutto quello che da lì è diventato possibile. La cura, le cure costruite intorno alla restituzione dei diritti, alla negoziazione, alla costruzione delle condizioni perché il mondo torni ad essere abitabile per chi nel dolore lo ha perduto e si è perduto. Al riconoscimento e non all’esproprio delle soggettività e alla loro soppressione. Qualcosa che molta psichiatria continua deliberatamente ad ignorare, a smentire, costruendo servizi di salute mentale caricaturali, in cui la cura non è altro che somministrazione di farmaci, contenimento, chiusura, produzione di cronicità, di stigma e di disperazione. Per una paura di ritorno che non riesce mai a interrogarsi su chi davvero ha più paura. Mauro aveva paura, la sequenza di gesti che l’ha ucciso non ha saputo vedere e sentire nient’altro che la propria. E bisognerà mobilitarsi perché adesso almeno ne risponda.
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Grazie Anna per la presentazione e il commento a una vicenda tanto tragica quanto oscura nel racconto della quale compaiono solo Mauro e i Carabinieri ma spariscono il sindaco (che avrebbe disposto il t.s.o.), il Dsm (esistono operatori della salute mentale nella civilissima Bassa Padovana, e se esistono come si comportano di solito nell’esecuzione del t.s.o. ?), la famiglia (ne sapeva qualcosa del t.s.o.?), una piccola comunità del Nord Est in cui forte dovrebbe essere il controllo sociale. Che dice il Governatore Zaia? Che dice l’opposizione al Governatore Zaia?