“Se a Trieste la storia riscrive la Basaglia” di Massimo Recalcati
La Stampa, 7 giugno 2021
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La riforma psichiatrica di Franco Basaglia, conosciuta come Legge 180, approvata nel maggio del 1978, è stata probabilmente la riforma più significativa, se non l’unica, figlia della grande contestazione del ’68. Essa ha avuto nella città di Trieste il suo epicentro geografico e politico. E’ questa una cifra simbolica di grande rilievo: nella città italiana che più di tutte porta con sé il valore, anche traumatico, dell’esperienza del confine, si chiude il manicomio come luogo di segregazione brutale della follia per ricordare alla vita della polis che essa – la follia – non è l’indice di una vita che si è disumanizzata, ma un’esperienza dove la condizione umana trova una sua espressione tragica ma fondamentale. Basaglia lo ripeteva spesso: la follia non è una malattia del cervello, ma una manifestazione della vita dell’uomo. Il movimento che ha portato alla chiusura dei manicomi nel nostro paese e all’idea di un servizio per la salute mentale radicato sul territorio (al di là dei limiti incorsi nella sua effettiva applicazione), e’ stato un movimento non solo interno alla storia della psichiatria, ma anche più ampiamente filosofico e politico: liberare il folle dalla violenza dell’istituzionalizzazione che tendeva a cronicizzare la malattia, sottrarlo al destino del confinato, dell’emarginato, dello scarto della società. Grande opera, dunque, di inclusione, di riscatto anche civile, di riapertura dei confini.
Oggi Trieste torna a essere ancora la cifra emblematica di una battaglia politica e culturale, quella relativa all’eredità di Basaglia. Nel Friuli Venezia Giulia funziona attualmente un sistema di assistenza psichiatrica fondato sui Centri di salute mentale aperti 24 ore, con la possibilità di accogliere persone in crisi in un ambiente accogliente e non ospedaliero che si è rivelato capace, anche durante l’emergenza pandemica, di offrire cura alle persone “in tempo reale”, con un approccio non solo psichiatrico in senso stretto, ma allargato ai bisogni della vita nella sua interezza, nel rispetto dei diritti umani, seguendo l’ispirazione di fondo della psichiatria rinnovata dal pensiero di Basaglia. Tale sistema – fortemente innovativo rispetto a quelli di altre regioni, basati spesso solo su ambulatori che erogano psicofarmaci e non fanno visite a domicilio, squallidi reparti ospedalieri a porte chiuse dove si pratica largamente la contenzione fisica, strutture residenziali private, fonte di cronicità, che assorbono gran parte degli investimenti delle aziende sanitarie – ha dimostrato a tutt’oggi di essere non solo l’applicazione più compiuta a livello nazionale della legge 180, ma un modello di intervento talmente efficace da essere proposto da parte dell’Organizzazione mondiale della sanità in una importante guida pubblicata in questi giorni, come esempio mondiale di rete integrata di servizi per la comunità. Ebbene, recentemente, l’assessore regionale alla Salute del Friuli Venezia Giulia, Riccardo Riccardi, sembra si stia impegnando per la sua progressiva demolizione. In gioco, come è evidente, non è solo l’eredità culturale e clinica di Franco Basaglia ma anche la sorte di molti pazienti. Una lettera a firma di cinque ex direttori dei Dipartimenti di salute mentale della regione ha lanciato l’allarme. Nonostante i molteplici riconoscimenti, come denunciato in questi giorni in una petizione pubblica anche dalle Associazioni dei Familiari dell’Unasam, l’assessore non nasconde la volontà di mettere mano a questo sistema attraverso progetti che mirano a ridurre il numero dei Centri di salute mentale e il loro orario di apertura, a rinforzare l’assistenza ospedaliera, a impoverire di risorse materiali e umane i dipartimenti di salute mentale, diminuendo il personale e nominando, dopo i numerosi pensionamenti, direttori che siano in linea con il nuovo indirizzo per spezzare la continuità dell’attuale linea dirigenziale. Ultimo grave episodio è stato il recente concorso per direttore di un centro di salute mentale a Trieste che ha visto penalizzati tutti i dirigenti che lavorano nel dipartimento giuliano, in particolare colui che era primo in graduatoria per titoli, pubblicazioni e curriculum, superato nella prova orale dal terzultimo fra i candidati, proveniente da una realtà arretrata di un’altra regione, dove si pratica la psichiatria in reparti ospedalieri fatiscenti, usando ancora la contenzione fisica e dove c’è scarsissima esperienza di lavoro sul territorio.
La domanda allora diviene inevitabile: perché si vuole affidare a queste persone la guida dei servizi triestini? Perché si vuole dimenticare l’eredità basagliana e voltare drammaticamente pagina? Il passo indietro che si sta compiendo oggi a Trieste riguarda, in fondo, il bivio più profondo al quale il pensiero di Basaglia ci ha consegnati: la cura della follia implica la sua segregazione, la soppressione della dignità di uomo del malato, la riabilitazione di pratiche di cura francamente autoritarie e disumanizzanti, oppure bisogna sempre riconoscere che la follia e la sua cura non sono la perdita dell’uomo, ma una possibilità sempre presente in ogni uomo? È, infatti, a questo riconoscimento di fondo che Basaglia ci sospinge: la follia coincide con l’umano.