RICERCA AMERICANA SUL RAPPORTO TRA MALATTIA MENTALE E VIOLENZA

di Nico Pitrelli

“I nostri risultati mettono in discussione la percezione diffusa che la malattia mentale sia una causa principale di comportamenti violenti”. Per molti lettori del forum probabilmente si tratta di una non-notizia, ma sappiamo bene che quanto sembra scontato a chi accompagna quotidianamente il percorso di persone con disturbi mentali, non lo è affatto nel discorso pubblico e politico. Il rapporto tra violenza e malattia mentale, non a caso, è una di quelle questioni in cui si scatenano gli istinti più bassi dei mass-media, sintomo di un immaginario pubblico ancora troppo incrostato di pregiudizi.

Vanno accolti allora con una certa soddisfazione i risultati pubblicati qualche mese fa dal giornale Archives of General Psichiatry, una rivista specialistica edita dall’American Medical Association, la più grande associazione di categoria degli Stati Uniti.

Primo perché la fonte è al di sopra di ogni sospetto. Eric Elbogen e Sally Johnson, autori dello studio dal titolo The Intricate Link Between Violence and Mental Disorder1, sono due ricercatori della University of North Carolina lontani mille miglia dalle polemiche nostrane. I due hanno usato gli strumenti della ricerca sociale per affrontare degli aspetti lasciati irrisolti dalla letteratura scientifica che da più di vent’anni si dedica al tema. E non si tratta di questioni secondarie.

Molte ricerche del passato, alcune delle quali si sono pronunciate su un preciso legame tra comportamenti violenti e disturbi psichici senza preoccuparsi troppo delle conseguenze, non hanno affrontato quella che per Elbogen e Johnson è la domanda chiave: il disturbo mentale severo è un fattore di rischio indipendente di violenza?

Attraverso l’analisi di un corpo di dati ricavato da un’inchiesta campionaria estesa a un ampio strato della popolazione americana, l’interrogativo di ricerca si è esplicitato nell’esaminare quali fattori di rischio contribuiscano a determinare possibili comportamenti violenti, se il disturbo mentale severo è una condizione che predispone ad atti violenti e come, a partire da differenti fattori di rischio, si possono pronosticare differenti tipi di violenza.

La solidità metodologica dello studio è un altro elemento che dà robustezza ai risultati. I dati sono stati raccolti come parte di un’indagine che ha coinvolto un totale di quasi 35.000 persone intervistate in due annate, tra il 2001 e il 2003 una prima volta e tra il 2004 e il 2005 una seconda. Ai soggetti è stato chiesto di comunicare se negli ultimi dodici mesi era stato loro diagnosticato un disturbo mentale severo, esplorando anche altri aspetti problematici della loro vita, come dipendenze da alcool o sostanze stupefacenti. I ricercatori hanno studiato le eventuali correlazioni tra le loro dichiarazioni e l’emergenza di comportamenti violenti.

Il risultato a cui sono giunti è che il disturbo mentale anche severo, da solo, non è associabile a futuri atti violenti, i quali sono determinati piuttosto dalla storia individuale della persona, dalla condizione sociale ed economica e da altri fattori contestuali come un divorzio, una separazione o la perdita del lavoro.

È insomma la conferma che il contributo dei disturbi mentali alla violenza nella società è eccezionalmente basso. E che quando accade che una persona affetta da disturbi mentali commetta, ad esempio, un omicidio, le cause del suo gesto non vanno necessariamente cercate nella sua condizione di malattia.

È un bene che i ricercatori americani se ne siano accorti. Speriamo che siano sempre di più coloro che se ne accorgeranno.

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