I volontari di San Vito al Torre dal 1997 volano nel continente nero e cercano fondi nonostante il silenzio di Unione europea, Onu e Oms. L’orrore in Costa d’Avorio, Burkina, Togo, Benin e Ghana, dove anche l’epilessia è vista come una possessione e per scacciarla bisogna fare soffrire il corpo.
Schiavitù è una parola di cui, in Occidente, si abusa e che si utilizza con nonchalance – e a volte stupidità – nel mondo del lavoro, magari per rivendicare qualche benefit in più nei contratti. Perchè, a queste latitudini, la schiavitù, quella vera, dura, fatta di mercanti di morte e di centinaia di anni di sopraffazioni dell’uomo bianco sui suoi simili dalla pelle diversa ce la siamo dimenticata da tempo.
E quindi pensiamo, come accade sempre quando superiamo gli abissi e le vergogne della nostra storia, che un dramma, semplicemente perchè non si trova più sotto ai nostri occhi, non esista e sia stato cancellato con un colpo di spugna. Magari soltanto grazie a una votazione in Parlamento.
Ma non è così. Perchè gli schiavi esistono ancora. Sono incatenati agli alberi della foresta o a ganci di ferro, per impedirne la fuga, in stanze minuscole e sporche. Completamente vuote e senza finestre. Costretti a mangiare scarti e avanzi. Dimenticati da tutti, sino alla morte.
Aprite gli occhi: non è un incubo. No. Qui siamo in Africa occidentale, oggi, nel 2015. Siamo in Costa d’Avorio, Togo, Benin, Burkina Faso. Ma anche in Ghana, da tanti descritto come uno dei Paesi emergenti e tra i più moderni del continente nero. Dove l’animismo e le convinzioni ancestrali sono talmente forti e radicate nel tessuto sociale da non essere state scalfite nemmeno dal passaggio del colonialismo europeo.
Ogni comportamento diverso va punito e bandito: per la salvezza del villaggio e della famiglia. Anche e soprattutto quello dei malati mentali perché il loro comportamento bizzarro, strano, anormale è percepito come una possessione demoniaca. Poco importa, poi, se nel novero delle malattie mentali gli africani ci mettano anche disturbi come l’epilessia. Il “pazzo” va tenuto a distanza. Nessuno lo deve toccare: il demonio in un corpo non deve essere trasmesso agli altri. E per la liberazione di questi schiavi moderni si batte, sin dal 1997, l’associazione di solidarietà internazionale “Jobel onlus” di San Vito al Torre affiancando Gregoire Ahongbonon: il “Basaglia nero” che da più di 30 anni libera – letteralmente – i “pazzi” dalle loro catene.
Per una società come la nostra, laica e convinta del fondamentale ruolo del progresso medico–scientifico, è impossibile, probabilmente, anche soltanto immaginare una cultura, animista e profondamente attaccata alle leggi della natura e a quelle dei vecchi del villaggio, dell’Africa nera. Un mondo in cui l’uniformità della comunità vince su tutto e se un suo componente diventa un “disturbo” nella normale quotidianità di una tribù, il suo allontanamento rappresenta, quasi sempre, la soluzione del problema. La malattia mentale, in particolar modo, per gli africani rompe l’ordine instaurato all’interno della società. Distrugge l’equilibrio del gruppo, ma la colpa non è dell’individuo. No, è degli spiriti maligni o, volgarmente tradotto nella tradizione cristiana, del diavolo che si è impossessato del corpo della persona.
La possessione demoniaca, per molti africani, è contagiosa. Il malato di mente, quindi, deve essere isolato. E il contenimento più frequente, nei villaggi o nelle piccole comunità, avviene incatenandolo, letteralmente, segregandolo in un angolo buio della casa. È considerato a un livello inferiore degli animali, che invece pascolano liberi, e costretto a cibarsi degli scarti delle persone “normali”. Oppure viene “inceppato” per il resto della vita: uno o più arti vengono bloccati all’interno di grossi tronchi o radici di alberi. Nelle città, invece, lo si lascia errare da solo ad affrontare il suo destino. Senza vestiti: perchè questa è la “divisa del matto”.
Esistono poi casi, per lo più nelle comunità animiste, in cui la famiglia del malato chiede “aiuto” al capo villaggio, il quale può coincidere con la figura del guaritore che cerca di liberare il corpo dal demonio attraverso riti e medicine tradizionali: ad esempio cospargendo il capo della persona con il sangue di un animale sgozzato. Quando il capo villaggio non è un guaritore, però, le famiglie, spesso affidano il malato a sette religiose o a centri di preghiera esterni al villaggio – come quello in Togo con 204 persone incatenate – che se ne “prendono cura” a pagamento. Il malato, nella stragrande maggioranza dei casi, viene accompagnato nella foresta per essere legato con una catena a un albero assieme ad altri suoi “pari”.
E i metodi di guarigione di queste sette guidate da sedicenti profeti cristiani, ma che di cristiano non hanno davvero nulla, prevedono, oltre alla segregazione della persona, fustigazioni, percosse, privazioni di cibo e sollecitazioni a pregare continuamente affinché gli spiriti maligni, attraverso le sofferenze del fisico, lascino il corpo del posseduto. Il più della volte queste pratiche sono letali, ma per i profeti, e per le stesse famiglie, la morte non rappresenta altro che il prezzo, sostenibile, da dover pagare per la salvezza dell’anima.
Una barbarie che avviene nel completo disinteresse dell’Organizzazione mondiale della sanità, dell’Onu e pure dell’Unione europea che conoscono alla perfezione l’incubo di queste persone. Lo sanno da almeno 30 anni. Da quando, cioè, il beninese Gregoire Ahongbonon ha fondato in Costa d’Avorio la sua “Saint Camille de Lellis di Bouaké” e ha cominciato – letteralmente – a liberare i malati di mente dalle catene. Gregoire combatte da una vita e, al momento, ha aperto undici centri di accoglienza nei diversi Stati. Qui, dopo aver convinto i capi villaggio e le famiglie, le persone vengono ricevute, lavate, vestite, protette e trattate con dignità. Soltanto dopo vengono somministrati i farmaci, quando serve. Poi ci sono i corsi di lavoro in cui i “pazzi” imparano un mestiere prima di tornare nelle proprie comunità. Da uomini liberi e sani. Dopo un viaggio di drammi e patemi. Nel totale disinteresse dell’Occidente che non ha tempo, o voglia, nemmeno di pensare ai nuovi schiavi d’Africa. Che continuano a morire a migliaia ogni anno, come animali.
Gregoire, negli anni, ha ottenuto l’appoggio di diverse associazioni a livello mondiale, ma qui, in Italia, il “Basaglia nero” è affiancato dalla “Jobel onlus” di San Vito al Torre che, dal 1997, lo aiuta a reperire fondi a sostegno della sua causa, a premere su Bruxelles perchè l’Europa faccia qualcosa, ma soprattutto manda i suoi uomini in Africa due volte all’anno affiancando Gregoire nella sua lotta di liberazione. Un piccolo gruppo di diciotto persone, capitanato da don Paolo Zuttion, l’iniziatore dell’attività, e in cui, i più attivi, sono Marco Bertoli, Meri Marin, Lorenzo Rizzotti e Federica Ferro.
Un esiguo gruppetto di grandi uomini e donne che, soltanto negli ultimi anni, hanno contribuito fattivamente a liberare Tenin, 32enne in catene da 12 anni, Celestin, appena maggiorenne e ridotta in schiavitù da 8 mesi, e Lankan, di cui si ignora l’età esatta, impossibilitata a muoversi da oltre un anno. «Il lavoro di Gregoire è incredibile – ci racconta Marin – perchè con la sua fede, il suo lavoro e la sua abnegazione continua a liberare persone che, senza di lui, passerebbero la vita, sino al giorno della loro morte, in catene come le bestie».
Loro si impegnano, ma per riuscire a scardinare centinaia di anni di convinzioni ancestrali servirebbe il pugno di ferro delle istituzioni internazionali che, però, latitano. «L’Organizzazione mondiale della sanità – conferma Bertoli – è perfettamente a conoscenza dello stato delle cose eppure non muove un dito, esattamente come tutti gli altri.
Noi siamo stati a Strasburgo e a Bruxelles per sensibilizzare i parlamentari europei, ma abbiamo ottenuto ben poco. Certamente non demordiamo, perchè ci basta guardare negli occhi Gregoire per capire che non possiamo e non dobbiamo gettare la spugna. Ma siamo consapevoli dei nostri limiti e di come continuiamo a rappresentare una goccia nel mare del dramma umano e sociale che coinvolge migliaia di persone ogni anno». Parole dure, ma precise e che testimoniano come l’Occidente non possa continuare a voltare la testa come non fosse un “fastidio” suo.
È un problema di New York e Bruxelles. È un problema di Roma. È un problema di tutti coloro che si riempiono la bocca parlando di diritti e di civiltà.
[di Mattia Pertoldi – dal Messaggero veneto del 22 Febbraio 2015]