La lunga strada per rimettere la persona al centro.
Di Lavinia Nocelli
da https://www.lifegate.it/salute-mentale
16 settembre 2022,
La salute mentale in Italia è un concetto su cui c’è ancora molto da lavorare, per rimettere al centro l’individuo e sospendere il giudizio.
Va sempre ricordata una cosa quando si parla di salute mentale: non è semplice farlo. E non perché sia difficile scriverne, ma poiché è una disciplina che non ha risposte evidenti, sintomi netti. Tempi di recupero standard. Avere a che fare con la salute mentale vuol dire prima di tutto confrontarsi con la solitudine: quella di chi si allontana, quella del territorio inesistente, delle strutture predisposte alla cura incapaci di intercettare il disagio. La malattia mentale ti schiaccia dentro una categoria, ti priva dell’identità sociale, della condizione di cittadino: la diagnosi è più forte della persona, la cura più cara della guarigione. Dalla definizione di pazzo non ne esci più.
Un nuovo approccio alla salute mentale
La “rottura” fu il punto di svolta nel trattamento del malato: la legge n. 180/1978, nota anche come legge Basaglia – da Franco Basaglia, promotore della riforma psichiatrica in Italia – chiuse i manicomi in Italia, luoghi istituiti per annientare la persona, cancellarne i diritti. Si spinse per dare importanza alle variabili extra-cliniche, agli aspetti che escono fuori dal sanitario: la vicinanza, la condivisione, l’ascolto. L’importanza di un abbraccio nel momento di dolore. La riforma fu molto più di questo: rappresentò la volontà di un Paese di non lasciare indietro i più fragili, i disabili, gli emarginati. Una visione in cui la comunità era il
luogo in cui la persona riacquisiva dignità, veniva riconosciuta come tale, e privata dell’etichetta di paziente.
Una conquista civile, prima che politica. La costruzione di un’adeguata organizzazione e presenza dei centri di salute mentale è stata de-finanziata nel tempo in gran parte del territorio italiano, con l’applicazione della Legge che ha dovuto far fronte ai tagli alla sanità, al personale, alla diffusione di una concezione organicistica della cura. Elemento che ha favorito il primato dell’approccio farmacologico. Si è tornato molto a parlare dell’argomento con lo scoppio della pandemia, ma sarebbe sbagliato dire che è per via di questa che si sono aggravati i problemi. La mancanza di finanziamenti, l’assenza di strutture, il carico della malattia sulle famiglie, erano difficoltà già presenti, così come i servizi oberati di lavoro e l’affollamento di pazienti.
La Legge segnò un punto, ma le leggi da sole non bastano a cambiare le cose: la politica, la lotta sociale, lo slancio culturale portano all’affermazione dei diritti. Il 1978 è ricordato come un anno di grandi riforme sanitarie, a partire dall’istituzione del Servizio sanitario nazionale, già anticipato proprio dalla 180. Un sistema che, con criterio universalistico, garantiva l’accesso alle cure a tutti i cittadini, senza distinzione di sesso, età, o classe sociale. Fu introdotta la tutela sociale della maternità, l’interruzione volontaria della gravidanza e furono istituiti i consultori. In questa riflessione, è stata avanzata un’ipotesi nel tempo: non avremmo avuto la legge 833, sul finire del 1978, senza Basaglia e senza la legge 180. Eppure, la sanità italiana è una pelle a macchia di leopardo: la regionalizzazione ha favorito la nascita di “venti repubblichette sanitarie” – ricorda sempre Maria Grazia Giannichedda, presidente della Fondazione Basaglia – facilitando la diffusione di stigma e pregiudizio là dove si trova un’offerta di servizi carenti.
Il concetto di malato cambia negli anni
Oltre al problema economico, quella italiana non è solo una questione territoriale, ma culturale. A più di 43 anni dalla riforma, cosa rimane di quel movimento, del gesto d’aprire le porte, di quell’idea di salute e comunità che metteva al centro la persona? Lo studio della materia oggi esclude, per la maggior parte, il discorso: nelle università non si studia Basaglia, la Legge, non si sa nulla del servizio di comunità o di una politica pubblica di salute. Il sistema sanitario si è trasformato in una struttura che eroga prestazioni: la sua lenta e inesorabile privatizzazione ha acuito la precarietà di medici, infermieri e operatori, divisi tra stipendi miseri e turni massacranti.
Sta al singolo avvicinarsi a questo concetto così profondo e critico, poiché nella formazione non si parla più città che cura, di vicinanza, di ascolto: la declinazione farmacologica della salute mentale ha portato alla scomparsa della persona. Si ha una malattia, quindi i sintomi, una sindrome e una terapia. La Covid-19 ci ha ricordato ancora una volta quanto la prossimità dei presidi sia fondamentale, ma anche sottolineato lo squilibrio tra il Nord e il Mezzogiorno, tra regione e regione. Si è rimasti legati all’idea del posto letto, dell’istituzione contenitiva, ma in molte realtà associazioni, cooperative, e gruppi di familiari si son uniti instaurando modalità di intervento del tutto fuori dagli schemi.
Prossimità non è solo la vicinanza fisica della struttura: è il servizio aperto 24 ore su 24, è l’operatore che si reca a casa del paziente, la riabilitazione sociale, l’inclusione, il reinserimento lavorativo, ma soprattutto la prevenzione. Ma questa declinazione farmacologica è più interessata alla malattia che al malato, per questo troviamo liste d’attesa lunghissime, operatori impreparati e tagli al sistema stesso. Parte del problema è nato nel 1994 con lo scorporo delle unità locali socio-sanitarie, passo che ha slegato la cura del sanitario dalla cura del sociale e ha permesso di separare i finanziamenti: il comune lavora nel sociale e il sanitario nella sanità. Con le Leggi che rimangono sulla carta, il compito della politica dovrebbe essere volto a riprendere in mano il coordinamento generale, e non ad amministrare l’esistente, perché è l’intreccio della clinica con la vita che ha valore, e non il contrario.
Roberto Mezzina, già direttore del dipartimento di Salute mentale di Trieste e oggi consigliere dell’Organizzazione mondiale della sanità, disse in un’intervista: “Internare qualcuno è uscito dalla coscienza civile. Non lo sottovaluti”. Il problema culturale sta qui: come trasmettere questi saperi, far applicare queste conoscenze e sostenere un sistema medico ancora considerato modello a livello mondiale? È complicato accettare che nella malattia mentale devi confrontarti con la frustrazione, con le ricadute, con un tempo che sembra non avere un inizio, né una fine. “Che cosa sto togliendo alla persona con una diagnosi?”, si chiede Peppe Dell’Acqua, psichiatra, tra i primi a lavorare con Basaglia, quando gli chiedo cos’è per lui oggi la salute mentale.
Per rispondere a questo quesito nel 1978 si decise di sospendere il giudizio sull’individuo, a mettere tra parentesi. Non schizofrenia, psicosi, depressione acuta, ma soggetti con un nome, un cognome, una storia, degli affetti, dei dolori, delle conquiste. Da qui si aprirono le porte dei manicomi, perché si rimise al centro della cura il soggetto. Eppure, la diagnosi permette di prescrivere, di accertare, di trattare, e di definire la persona dentro un’unica accezione. Ma il farmaco non cura un problema mentale. Si alzano i muri, ed il concetto di malato, di fragile, cambia negli anni: l’anziano, il tossicodipendente, malati cronici, gli immigrati, sono i nuovi diversi, quelli da lasciare ai margini della società. Ci vengono proposti specchietti per allodole, contentini per far credere che l’argomento stia tornando centrale, come il bonus psicologo, che di fallimentare ha anche il nome, ma nel concreto poco, o nulla, si muove per la causa.
Non è impossibile lavorare sul concetto di salute sociale, comunità, di mettersi insieme, ma quanto siamo disposti ad accettare la malattia oggi?