Il carcere è un luogo del territorio. I cittadini detenuti hanno gli stessi diritti dei cittadini liberi, gli stessi diritti alla cura intendo. L’anomalia che segnala Francesco e Antigone non è tanto che si garantisca in carcere la cura anche quando la persona non è consapevole e rifiuta le cure. Il Tso è uno strumento, non mi stanco mai di ripeterlo, che deve garantire la cura nell’attenzione al diritto della persona anche quando per altre ragioni privata della libertà. Qui si tratta del ricorso reiterato che restituisce la mancanza di tentativi di negoziazione nel corso del tempo o di ipotesi e programmi alternativi anche alla detenzione. Ancora una volta il Tso, che in sé e per sé dovrebbe essere uno strumento di garanzia, finisce per essere una procedura fredda, distante, che non fa altro che negare la persona già in una condizione di doppia fragilità. La mancanza di libertà perché detenuto, la mancanza di libertà perché condizionato dalla sofferenza mentale.

[nota di Peppe Dell’Acqua]

di Francesco Santin

“Antigone” Triveneto

Come Osservatori di Antigone, ci capita anche di visitare altri istituti di pena fuori regione e ogni volta è necessario porre la massima attenzione a ciò che incontriamo durante le visite. Gli istituti possono differire molto gli uni dagli altri per dimensioni, caratteristiche e tipologia ed è quindi necessario essere pronti a cogliere nell’osservazione ogni diversa sfumatura. Ci capita però anche di entrare in alcuni contesti in cui le situazioni sono talmente particolari da risultare subito evidenti. Questo testo racconta una di queste storie.

La situazione che abbiamo incontrato riguarda una persona che si trova nella casa circondariale di Pordenone, dove abbiamo svolto una visita di osservazione nel 2021.
L’istituto di Pordenone è una Casa Circondariale situata in centro città e facilmente raggiungibile, trovandosi in una zona servita e comoda. Tuttavia l’istituto è collocato all’interno di una vecchissima struttura, aperta come carcere già nel 1866. Seppure siano stati portati a termine alcuni lavori di ristrutturazione negli anni scorsi, il carcere presenta spazi stretti, è privo di molti luoghi importanti quali una palestra, un campo sportivo o spazi dedicati al lavoro. Le docce non si trovano internamente alle celle ma sono comuni. Già negli anni precedenti ci era capitato di riscontrare durante le visite l’utilizzo del locale lavanderia, ampio pochi metri quadrati, come aula per svolgere corsi o attività di gruppo.
Si tratta di un carcere piccolo, la cui capienza massima è di 38 posti. Al momento della visita erano presenti 39 persone recluse, fra le quali la maggioranza con condanne definitive.

Durante la pandemia la sezione che nel carcere era destinata ai detenuti semiliberi è stata trasformata, necessitando l’amministrazione di un’area per l’isolamento precauzionale sanitario e i detenuti semiliberi sono stati trasferiti ad altri istituti. Inoltre è stata aperta una nuova sezione, composta da due stanze detentive, dove viene effettuato l’isolamento sanitario al bisogno.
Quello di Pordenone è sicuramente il carcere più piccolo dei 5 presenti in regione Friuli Venezia Giulia, dove il più capiente è quello di Tolmezzo con 149 posti, a seguire Trieste con 138 e infine Udine con 86 e Gorizia con 52.
Il carcere di Trieste è l’unico in regione con una sezione femminile e attualmente conta 20 donne presenti. A Tolmezzo invece sono presenti prevalentemente detenuti soggetti ad alta sorveglianza e in regime di 41bis.

 

Durante la visita nell’istituto di Pordenone abbiamo dunque incontrato, e successivamente approfondito, la situazione molto particolare di un uomo detenuto con una diagnosi psichiatrica.
Le persone detenute che presentano una diagnosi o un disturbo psichiatrico in Italia non sono una rarità. Infatti “con l’ingresso in carcere la persona perde il proprio ruolo sociale, è privata dei suoi effetti personali, di uno spazio personale, della capacità di decidere autonomamente, del contatto quotidiano con la famiglia e con gli amici. La persona detenuta vive rapporti sociali imposti e diventa dipendente dall’istituzione; sperimenta l’impotenza e la frustrazione, soprattutto delle aspettative. Un detenuto con difficoltà di adattamento può sviluppare, specie nella fase iniziale, psicopatologie quali ansia da separazione, ansia reattiva da perdita e da crisi di identità, o addirittura disturbi correlati alle emozioni scaturite dal reato commesso”1).

La persona di cui raccontiamo qui si presenta diversamente da altre per le modalità in cui il suo disagio mentale è trattato. Infatti si tratta di una persona che precedentemente alla detenzione è stata per anni seguita dal dipartimento di salute mentale ma oggi è detenuto con una sentenza che lo identifica come imputabile.
Già prima della detenzione assumeva una terapia psichiatrica a rilascio prolungato, il depot, che si effettua tramite iniezione e garantisce un’attività terapeutica prolungata, evitando al paziente di dover assumere quotidianamente delle pillole.
Da quando si trova in carcere però rifiuta di sottoporsi a questa iniezione e pertanto, con l’obiettivo che non resti scoperto dall’azione del farmaco, questo gli viene somministrato forzatamente attraverso un TSO, che viene disposto sistematicamente per permettere al personale sanitario di effettuare l’iniezione.
Il TSO è quel dispositivo, nato a seguire dalla legge 180 del 1978 di chiusura dei manicomi e regolamentato dagli articoli 33, 34 e 35 della legge 833/1978, che si identifica come intervento sanitario e che può essere applicato in caso di motivata necessità e urgenza, qualora sussista il rifiuto al trattamento da parte del soggetto che deve ricevere assistenza. In particolare è previsto “solo se esistano alterazioni psichiatriche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici, se gli stessi non vengano accettati dall’infermo e se non vi siano le condizioni e le circostanze che consentano di adottare tempestive e idonee misure sanitarie extraospedaliere”.

Nella nostra attività di osservazione sul territorio nazionale risultano solo altre due situazioni in cui sia stato necessario disporre un TSO in carcere per una persona detenuta nell’arco dell’anno 2021. Per quanto riguarda le persone libere i dati sono ovviamente più alti ma raccontano di numeri in calo, dal 1980 ad oggi. In particolare, nel Rapporto sulla salute mentale del Ministero della salute i dati parlano di 8289 casi di TSO effettuati nel 2015 e a seguire 7962 nel 2016, 6737 nel 2019 e 5398 nel 20202).
Si evidenzia come in ogni caso il trattamento sanitario obbligatorio, anche per la persona libera, sia un atto estremo che, pur consentendo alla psichiatria di operare nelle situazioni più difficili, si connota come un atto di forza ed è sempre da utilizzare in forma residuale fintanto che possa permettere, limitata la fase acuta dello scompenso, di operare a favore del soggetto con un insieme di attività farmacologiche, psicologiche e sociali.

La situazione di un uomo detenuto che presenta una diagnosi psichiatrica e al quale viene somministrata forzatamente la terapia a rilascio prolungato ci è apparsa dunque come eccessiva. Scoprire poi che questi TSO funzionali alla somministrazione forzata della terapia sono stati ripetuti periodicamente ci ha lasciato sgomenti. Infatti nel corso di un anno sono stati oltre dieci i trattamenti sanitari obbligatori che questo unico soggetto ha subito trovandosi in carcere, quasi uno al mese. In una sorta di detenzione all’ennesima potenza, oltre a tutto ciò al momento della visita abbiamo verificato che egli si trovava in una cella chiusa all’interno della micro-sezione dedicata all’emergenza sanitaria.
In risposta ai bisogni manifestati la risposta data è sicuramente discutibile, poiché il metodo adottato appare sistematico e privo di attenzione per un qualsiasi percorso dell’individuo. Proponendosi di tutelare in qualche modo la persona, quanto realizzato risulta come profondamente lesivo della sua salute e anche della sua sicurezza, oltre al fatto che questo sistema ci sembra totalmente incapace di essere vagamente risolutivo.

Successivamente abbiamo ricostruito che in questi mesi in cui è in atto questo particolare trattamento, egli ha compiuto diversi atti di autolesionismo, con esiti anche gravi, portandolo ad un ricovero ospedaliero.
La condanna di questa persona nel frattempo è diventata definitiva e la pena è di lunga durata. Abbiamo dunque provato a ricostruire con chi lo ha in carico dal punto di vista sanitario il suo percorso di cura, cercando una prospettiva che sembra però non esserci. La stessa ipotesi di un trasferimento ad altro istituto cela preoccupazione nei terapeuti, perché nel cambiamento si possa annidare un ulteriore peggioramento o una mancanza di riferimenti per il paziente.
In ogni caso non viene prospettata neanche la richiesta di incompatibilità con il regime carcerario, e non possiamo non evidenziare che questa non sembra plausibile primariamente per mancanza di alternative, in un territorio che per storia ha vantato un primato proprio nella capacità di cura e di prossimità alle persone con bisogno di cura psichiatria.

  1. Il problema della salute mentale in carcere, Maddalena di Lillo, https://antigoneonlus.medium.com/il-problema-della-salute-mentale-in-carcere-4ae94fe83391
  2. Ministero della Salute, Direzione generale della digitalizzazione, del sistema informativo sanitario e della statistica – Ufficio II Direzione generale della prevenzione sanitaria – Ufficio VI

da: https://www.rapportoantigone.it/diciottesimo-rapporto-sulle-condizioni-di-detenzione/pordenone-il-carcere-dei-trattamenti-sanitari-obbligatori/