Mi dispiace per Sergio Zavoli che ogni anno, insieme alla cara Giulia Lazzarini, mi aiuta a introdurre gli studenti del corso di psichiatria al manicomio che ufficialmente in Italia non c’è più.
Sergio Zavoli, voce fuori campo e quel bianco e nero consumato, ogni anno varca i cancelli dei Giardini di Abele e apre le porte di un mondo che è di un secolo fa e che, se non ci fosse quel documentario, si farebbe più fatica a far capire quanto sia attuale.
L’indagine di Sergio Zavoli del ‘68 è più di un documentario ed è anche più di un testo bellissimo. Si apre il cancello di Gorizia e si incontrano i “fratelli scomodi”, volti sghembi, operatori perplessi, ora convinti ora a disagio, persone dignitose che raccontano la propria esperienza di manicomio “chiuso” e poi quello “aperto”, che ci parlano del valore del lavoro per l’inclusione sociale «perché se parlo di soldi, se parlo di cose di lavoro tutti mi capiscono, e tutti mi accettano» e di diritti civili persi e «fatti riavere dall’avvocato».
Il documentario parla di un mondo possibile che inizierà in Italia dieci anni più tardi su larga scala e in cui, come dice Basaglia citando un proverbio calabrese parlando dei matti, «chi non ha, non è». Scrivo ripensando al documentario visto e discusso così tante volte con gli studenti da anticipare i dialoghi nella testa e mi vengono in mente altre persone senza diritti nel nostro Paese che non hanno e che, appunto, non sono. Matti e non.
Sergio Zavoli nei Giardini di Abele non racconta però solo con discrezione un mondo chiuso che sta per aprirsi ma si rivolge alle persone “di fuori”, smussandone i timori. «Perché le persone hanno paura di voi?» chiede Zavoli a una signora di mezza età ripresa in giardino. «Perché sono più matte di noi, forse! Ma cosa le ho fatto, io, signor Zavoli? L’ho mai picchiata? Vuole che le canti una canzone, che la faccia piangere? Sa cosa significa essere soli?» poi la signora ripensa alla sua vita e si commuove e noi pure ci commuoviamo con lei.
I Giardini di Abele, trasmesso dalla Rai nel 1969, servì a preparare la gente comune all’accettazione dell’“alienato”, contribuendo – insieme ad altre iniziative di quel tempo – a ridurre la distanza tra il noi e il loro. Fu insomma una seria iniziativa contro lo stigma. Senza troppi giri di parole, riferimenti scientifici, messaggi costruiti ad hoc. Zavoli raccontò i fatti, e raccontando diede voce a chi sui media non aveva voce e, in verità, di voce ne ha poca pure ora.
«È per il manicomio che sono qui» dice la voce garbata fuori campo prima che le telecamere inquadrino i disperati nei giardini ben curati. Poi parte la storia.
Il documentario è disponibile sulla piattaforma RaiPlay, lo potete trovare qui.
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