di Franco Rotelli (1983)
Parlando di Franco Basaglia il mio timore di rinchiuderlo in un codice, un’interpretazione, è grande così come è grande la fatica di parlare di lui dopo dieci anni di lavoro in comune.
Ha detto: <<Noi facciamo della pratica, prima della pratica e poi della teoria. Non facciamo prima della teoria e poi della pratica perché questo sarebbe un cammino molto più reazionario di quanto voi non possiate pensare; la teoria è l’apriori scientifico: del vecchio pensiero scientifico. Questo ci è stato molto rimproverato. Non mi sono difeso, ho accettato il rischio dell’empirìa. Non avessi accettato questo rischio avrei riciclato inevitabilmente la teoria antica, quella dei testi e dei manuali da cui sono venuto. Avrei soddisfatto una forma di narcisismo intellettuale, avrei tradotto le nuove esperienze dentro un codice e un linguaggio che sarebbe rimasto lo stesso>>.
Chi era cieco (e sono stati molti) ha cercato di leggere nell’insistenza con cui continuava a rifiutare la teorizzazione della propria esperienza, nell’avversione con cui guardava ad ogni cultura che potesse frapporsi come schermo alla sofferenza degli esclusi, la rivelazione di un fondamentale irrazionalismo, di un pragmatismo con cui si credeva di spiegare le apparenti incertezze della sua condotta politica.
Stava in realtà, in quell’atteggiamento pratico che sospendeva il giudizio e rinviava il valore della cultura e della scienza al “tribunale del mondo della vita” il più caratteristico legato di quella che era l’esperienza filosofica formativa di Basaglia: la fenomenologia di Husserl.
Negli anni tra il 1956 e il 1963 l’incontro con il pensiero fenomenologico esistenziale ebbe grande importanza per il suo pensiero. Prima di allora i suoi dieci anni precedenti di attività di psichiatria vengono descritti da lui con durezza: <<In quegli anni il mio contatto con la cultura psichiatrica fu tutto nell’adattamento pedissequo ai parametri di una scienza che presente l’oggetto e gli strumenti della sua analisi solo come dati fissi ed “immutabili”>>.
L’adesione al pensiero fenomenologico poté essere un primo strumento di smascheramento del terreno ideologico su cui la scienza si fonda (proponendo la possibilità di avvicinare il malato mentale, senza i diaframmi impliciti nella rigida definizione sintomatologica delle sindromi, attraverso la comprensione delle sue diverse modalità di esistenza). Tema centrale per quegli anni fu l’analisi del corpo husslerianamente inteso che si sviluppò in concettulizzazioni tendenti ad individuare nella ideologia del corpo la strutturazione dell’ideologia medica. É con quest’approccio concettuale che nel 1961 lo psichiatra, l’intellettuale, l’accademico assunse la direzione di Gorizia.
Anche anni dopo scriveva: <<un’istituzione che intende essere terapeutica deve diventare una comunità che si fonda sulla interazione preriflessiva di tutti i suoi membri, dove il rapporto non sia il rapporto oggettivante del signore con il servo o di chi dà con chi riceve; dove il malato non sia l’ultimo gradino di una gerarchia fondata su valori stabiliti una volta per tutte dal più forte: dove tutti i membri di una comunità possono, attraverso la contestazione reciproca e la dialettizzazione delle reciproche posizioni, ricostruire il proprio corpo proprio>>.
L’approccio fenomenologico è quindi un tentativo di inserire la medicina in un pensiero che tenga conto dell’uomo nella sua globalità, per liberarla della natura oggettuale del suo rapporto con il paziente che compromette fin dall’inizio la validità del suo intervento. La natura oggettuale del metodo scientifico su cui tutta la medicina positivista si fonda, in psichiatria è una contraddizione esplicita poiché qui il malato e la malattia non possono essere considerati come dati oggettivabili dalla scienza, ma coinvolgono la soggettività del paziente così come quella del terapeuta e, insieme, il sistema di credenze e di valori cui entrambi fanno riferimento.
Il pensiero fenomenologico esistenziale portava alla ribalta il problema dell’uomo non più come entità astratta definibile secondo un sistema di categorie chiuse, ma come soggetto-oggetto di una sofferenza sociale. Si affronta allora il concetto di etichettamento nosografico come fuga del reale, da parte di una scienza che si è fatta pura ideologia, strumento reificante, campo del pratico-inerte. La psichiatria, attraverso la diagnosi clinica si è difesa da un problema che non era in grado di risolvere e che non poteva affrontare.(L’etichettamento nosografico ha assunto così il valore di un giudizio che sancisce la distanza tra sano e malato e soprattutto agisce come definizione di una nuova categoria, di uno status sociale particolare nel quale il malato viene codificato). La cura, come preoccuparsi di, come tensione verso l’altro, come incontro e rischio tra due soggetti scompare e si fa terapia e reificazione e ospedale e corpo oggetto dell’intervento e ideologia fondata sul sequestro delle contraddizioni del soggetto, perdita del corpo proprio e della soggettività del medico come di quella del paziente.
Il nodo centrale diviene allora l’analisi del rapporto tra salute e malattia. La netta separazione tra l’una e l’altra è individuata per quel che è: il diretto prodotto dell’ideologia medica.<<Nel momento in cui la salute viene assunta come valore assoluto, la malattia si trova a giocare un ruolo di accidente che viene ad interferire nel normale svolgersi della vita come se la norma non fosse racchiusa tra la vita e la morte. L’ideologia medica, per il suo rifarsi ad un valore astratto e ipotetico qual è la salute come unico valore positivo, agisce da copertura a quella che è l’esperienza fondamentale dell’uomo: il riconoscimento della morte come parte della vita assumendola su di sé come oggetto di una esclusiva competenza. Essa cioè distrugge il malato nel momento in cui lo guarisce defraudandolo del suo rapporto con la propria malattia (quindi col proprio corpo) che viene vissuta come passività e dipendenza.
In questo senso il medico diventa responsabile all’insorgere di una relazione reificata tra l’uomo e la propria esperienza inducendo il malato a vivere la malattia come puro accidente oggettivabile della scienza e non come esperienza personale>>.
Nello stato relativamente arretrato della nostra società l’ideologia della diversità, dove il positivo si afferma e si conferma sull’esistenza e l’esasperazione degli opposti (salute e malattia, norma e devianza, ragione e follia), fonda il valore e la valorizzazione dei primi attraverso la svalorizzazione del negativo.
Quando assume la direzione di Gorizia, nell’incontro con la realtà fattuale del manicomio, Basaglia accetta il rischio, si misura sull’incontro: non potrà più essere intellettuale separato. Nella scelta pratica tra l’arroccarsi attorno alla malattia epochizzando il malato e riproducendo astratti separati e arroganti poteri e saperi o epochizzare la malattia come reificazione dell’altro per accettare il rischio dell’incontro con il soggetto malato, Basaglia rovescia la scelta che era ed è della gran parte degli psichiatri. Accetta il rischio e da quella coupure inizia l’iter dello psichiatra rivoluzionario.
La malattia dapprima messa tra parentesi si rivela attraverso la trasformazione del manicomio (il processo del praticamento vero) per quel che era: etichettamento, razionalizzazione, appropriazione istituzionale di una sofferenza ben altrimenti prodotta nella storia materiale, istituzionale, sociale, interpersonale, del soggetto. La trasformazione della sofferenza psichica in malattia pone l’esigenza di una critica pratica di questo stravolgimento, e di una lotta serrata contro gli apparati pseudoscientifici, istituzionali, economici che tale stravolgimento operano, istituzionalizzando la sofferenza ad altri fini.
Nella scienza e negli apparati psichiatrici quella sofferenza non è mai in causa. Si indagano per ogni sindrome cause proprie rintracciate nella migliore delle ipotesi in un sociale già positivamente esorcizzato come natura, come dato e non come prodotto storico-sociale. Su queste basi individuare nel manicomio l’avversario principale avvenne con grande chiarezza! Non era certo per l’arretratezza italiana, la barbarie della violenza manicomiale contrapposta alla civiltà dello Stato assistenziale e paterno delle democrazie progredite.
Al contrario, proprio l’attenzione al progresso e alle situazioni avanzate era venuto l’impulso alla lotta per la distruzione del manicomio, non per la sua umanizzazione o per la trasformazione in comunità protetta ancora separata. Aveva invece tradotto e presentato in Italia Asylum di Goffmann in cui la realtà manicomiale era vista non già come un’arcaica barbarie ma come momento paradigmatico ed essenziale di una società in cui la norma si allontana dal nesso effettivo con le cose e si fa rappresentazione, gioco di ruoli in cui l’unica salvezza possibile diventa la possibilità di una distanza non a tutti concessa.
Basaglia negava valore alla contraddizione tra modernità ed arretratezza quanto a quella tra razionale ed irrazionale, tra ragione e follia.
Ammoniva ancora ieri a non dimenticare il manicomio: non come chi ricordi all’operaio affluente gli zoccoli del nonno a mostrare i progressi compiuti. Piuttosto come chi ha colto in un momento dell’esperienza storica il disvelarsi allo stato puro della realtà dell’oppressione, la metafora che illumina di significato tutta quanta una fenomenologia complessa difficile da cogliere nella familiarità dispersa delle manifestazioni.
Ma era proprio lo sviluppo coerente e agito di quella lotta contro le concrezioni istituzionali, contro la scienza rivelatasi come ideologia, contro istituzioni e saperi che, nati per curare, opprimono, nati per rispondere a bisogni divengono sopraffazione e risposta non ai bisogni della gente ma ai propri bisogni di istituzione, che porta Basaglia alla fine degli anni sessanta ad interrogarsi su caratteristiche socio-economiche del sistema in cui le istituzioni stesse sono inserite ed a interrogarsi sull’a chi giovi che esse non rispondono che ai bisogni di riproduzione del dominio.
“La fenomenologia come metodo di indagine e di comprensione della realtà malata cade a contatto con questa realtà dove è la distanza stessa tra le elaborazioni concettuali e questa realtà violenta a mettere in crisi la validità della definizione classica di malattia, dei limiti di norma che tale malattia trasgredisce e travalica, del concetto di cura in un’istituzione che non ha nulla di terapeutico e che si serve delle terapie per coprire il proprio isolamento, la propria violenza e la finalità esclusoria implicita nella sua esistenza”.
Ma: in ogni dibattito sulla psichiatria non era mai sui bisogni e sui diritti dell’infermo che si dibatteva.
L’oggetto della critica era nelle migliori delle ipotesi l’autonomia degli psichiatri dall’ingerenza dello Stato, la libertà della corporazione medica di gestire interamente il corpo da riparare contenuto sempre in un’istituzione creata a tal fine.
Il fatto che gli internati nei nostri manicomi appartengono tutti ad una medesima classe sociale chiariva la funzione delle istituzioni manicomiali in un’esplicita azione di controllo degli elementi di disturbo sociale dove la malattia ha un ruolo molto marginale. Come infatti non vedere, nel dilatarsi e nel restringersi dei limiti di norma, a seconda delle situazioni di espansione e di recessione dello sviluppo economico di un paese, la relatività di un giudizio scientifico che di volta in volta muta l’irreversibilità delle sue definizioni?
Come non sospettare che esse siano strettamente collegate e dipendenti dalla ideologia dominante il cui mantenimento sono deputate a garantire? In che modo si può presumere di poter procedere ad un intervento tecnico innovatore in un contesto socio-economico immutato?
Divennero più chiare le implicazioni socio-economiche presenti nella funzione discriminante e segregatrice delle istituzioni psichiatriche così come nel riconoscimento pratico della psichiatria come ideologia.
Lo spettro delle soluzioni possibili non esce mai dal controllo assistenziale della quota di marginalità che di volta in volta viene definita come tale e ciò a meno che non venga messo in discussione il terreno pratico, l’oggetto della psichiatria, i criteri della sua determinazione.
In una società più avanzata, l’ideologia della diversità si muterà nell’ideologia dell’equivalenza, dove salute e malattia, norma e devianza si omologano in quanto ormai equivalenti di fronte alla produzione, nel momento in cui la malattia come la salute viene assorbita nel ciclo produttivo. Qui la necessità del controllo si dilata sempre più e l’equivalenza e l’omologazione di salute e malattia avviene nella totalizzazione alla produttivizzazione dell’una e dell’altra.
Di fronte a questo quadro la necessità che la pratica si trasformasse in prassi collettiva veniva dall’urgenza dell’analisi e dell’incontro con la “questione sociale” come processo inevitabile.
Resterà da cogliere più analiticamente il nesso esistente nel pensiero di Basaglia tra “prassi”, alienazione, e reificazione.
Partito da una posizione che forse tendeva a vedere hegelianamente l’alienazione da sopprimere nel carattere di oggettività dell’oggetto, e a leggere nell’alterità la reificazione della coscienza posta fuori di sé e da riassorbire nell’auto-coscienza, ben presto contro questa tendenza porrà il privilegio della pratica come movimento inverso: come ricerca nel carattere determinato dell’oggetto, nel suo prodursi disumanamente, nel suo disumanamente oggettivarsi, dell’alienazione da sopprimere.
E la rimozione del fatto che l’ente umano si oggettivi disumanamente, la rimozione dell’alienazione, soprattutto è rimozione della divisione in classi (che impedisce il processo di oggettivazione come pura realizzazione di sé e contemporanea elaborazione dell’altro).
Ma mentre per il marxismo simpliste la scomparsa della divisione delle classi porterà automaticamente alla caduta dell’alienazione, Basaglia sarà sempre vincolato organicamente all’arricchimento della critica di Sartre. Nella lezione di Sarte esiste comunque nei processi di oggettivazione-alienazione-estraneazione un meccanismo di costituzione del pratico-inerte che si oppone comunque come vischiosità sull’uomo e la cui inerzia esercita un peso passivizzante sull’uomo creando le condizioni perché esso venga irretito nell’inerte e trascinato nella ripetizione e nella routine.
La costituzione di un campo pratico-inerte, di un mondo al participio passato, è strettamente connessa come la formazione di correnti di abitudine che adempiono ad una funzione di relè e il cui irrigidirsi determina un ridursi di disponibilità nell’iniziativa e un decadere della consapevolezza dell’azione. (L’agire si subordina ad un paradigma a schema-tipo che si separa da esso e vi si sovrappone dirigendolo e dominandolo. Il pratico-inerte ha origine nella concezione dell’attività vivente in risultati obbiettivi, socialmente e tecnicamente determinati che si fissano creando un campo d’inerzia). Il pratico-inerte non si estingue con il superamento dei rapporti di proprietà e di produzione capitalistici. Di questo assunto Sartre vivissima è la consapevolezza in Basaglia. Ne deriva la coscienza delle istituzioni (e della psichiatria) come luoghi della reificazione, come terreno anche autonomo di lotta e la coscienza dell’inerzia nella scienza, negli apparati, nei rapporti interpersonali: l’ideologia.
Citerà spesso la frase di Sartre “l’ideologia è libertà mentre si fa e oppressione quando si è costituita”. Sa della necessità di rompere continuamente l’inerzia che si produce contro l’uomo e la parola “deistituzionalizzazione” ricorrerà in ogni momento.
L’istituzione è il luogo principe in cui si concreta l’estraneazione-alienazione come reificazione dell’altro e del sé.
Sarà questa antropologia a vivere in Franco, a dargli il filo conduttore nel suo lavoro dentro Gorizia: dentro la società italiana, dentro la psichiatria: dentro i suoi rapporti politici intellettuali, dentro la sua peculiare attenzione ai rapporti con gli altri, dentro la sofferenza del non escludere mai nessuno, non reificare mai, non solo il malato, ma neanche l’amico o il nemico, lottando sempre perché l’inerzia venisse rotta, la soggettività si esprimesse come conflitto, come aggressività, come corpo dell’altro che si fa di nuovo corpo proprio. Che da questa soggettività e da quella rottura nasce sì la speranza che compaia alla luce la coscienza delle disumanità dell’alienazione e la scintilla della rivolta della classe. Ma egli sapeva che il pratico-inerte non si estingue con il superamento dei rapporti di proprietà e di produzione capitalistici e che già ora è tuttavia necessario lottare su di esso.
Sapeva anche che quanto più una società realizza in fatto di omogeneità attiva dei suoi membri in seguito all’abolizione delle distanze sociali più gravi, tantomeno la serialità prevale, tanto più si accresce l’autonomia e la libertà dell’uomo, tanto più facilmente gli aspetti deteriori della vischiosità pratico-inerte vengono circoscritti e neutralizzati.
E allora, una volta capito, attraverso il processo di affrontamento dei bisogni degli internati che cos’era il manicomio, che cos’era la psichiatria, una volta che si venivano via via svelando la faccia dell’oppresso e i metodi dell’oppressione, allora la marcia attraverso le istituzioni della modificazione e della trasfigurazione della sofferenza in malattia, la critica della neutralità della scienza, gli fecero riconoscere il ’68 e dal’68 fu riconosciuto. Divenne allora più chiara anche la necessità di essere dentro al processo complessivo di trasformazione della società italiana e nacque “Psichiatria democratica”, nacquero infinite e pazienti iniziative per collegarsi organicamente alle lotte sociali in Italia e portare dentro il movimento operaio i contenuti di analisi critica e di pratica che i tecnici andavano via via accumulando. E nacque e si sviluppò con Trieste la lotta sulla materialità e l’economia politica dell’istituzione.
“La borghesia – egli scrive – è riuscita alla fine del secolo a separare il proletariato dal deviante, a coinvolgere anche la classe operaia nella sua visione scientifica e naturalizzante della sofferenza”. Non era una consonanza casuale quella con il movimento operaio, anche se era la più forte delle contraddizioni, quella che avvicinava lotta, organizzazione, lavoro, esperienza all’esperienza dell’esclusione, alla singolarità della miseria arresa e svuotata che sono i segni della follia.
La distruzione dell’ospedale psichiatrico di Trieste sarà allora possibile solo perché le lotte contro l’emarginazione e l’esclusione diventano, grazie al movimento di Psichiatria democratica, negli anni ’70 in Italia il patrimonio del movimento operaio, delle donne, dei giovani.
Allora la fine del manicomio acquista il suo valore emblematico (e Franco Basaglia lo celebrerà affermando la nuova fase “dentro il contratto sociale fuori dalla tutela”).
Rimprovererà a vari esponenti dell’”antipsichiatria” di non aver saputo cogliere la dimensione politica della psichiatria e delle istituzioni di controllo o di rinunciare dentro il mantenimento del narcisismo intellettuale dello psichiatra al rischio della pratica non in un terreno “alternativo” (che è la solidificazione dell’esistente), ma ben dentro il reale: ciò che ossessivamente andava definendo come il praticamente vero. Rimprovererà a certi movimenti sociali il loro rifugiarsi in una alterità agita solo nel muoversi sul proprio terreno (dentro istituzioni separate o cosiddette alternative) dotandosi di un’ideologia propria autonoma rispetto alla cultura della classe avversa e di un sapere diviso.
Questo è dovuto essere terreno di lotta per Basaglia e ci ha insegnato invece a non demonizzare il potere, a leggere e lavorare dentro le contraddizioni del campo avverso, che il servo è indissolubilmente legato al padrone e il padrone al servo, che le separazioni non eludono la servitù, che per gli oppressi è importante capire che la lotta per la sopravvivenza di sé e il problema della soggettività, dell’identificazione è altrettanto materiale di quello del nutrimento e che l’aggressione si associa ovunque all’incorporazione dell’aggressione.
La lezione di Basaglia e la specificità italiana stanno tutte in questa contraddizione.
Ha scritto: “Fanon ha potuto scegliere la rivoluzione, per evidenti ragioni obbiettive ne siamo impediti, la nostra realtà è ancora continuare a vivere le contraddizioni del sistema che ci determina, gestendo un’istituzione che neghiamo consapevoli di ingaggiare una scommessa assurda nel voler far esistere dei valori quando il non diritto, l’ineguaglianza, la morte quotidiana dell’uomo sono eretti a principi legislativi”.
Nacquero invece una legge nuova, principi legislativi radicalmente diversi, ma questa non può essere la fine, ma il principio di un’altra fase.
(Pubblicato in: “Per la normalità. Taccuino di uno psichiatra”, I Ed. Trieste, Edizioni “e”, 1994)