di Veronica Rossi
29 dicembre 2022
da “Vita”
I parenti delle persone affette da patologie psichiatriche a Trieste lamentano un depauperamento dei servizi di salute mentale, evidenziando un calo nella funzionalità e negli orari di apertura dei Csm, che, da poli di aggregazione, stanno diventando dei semplici erogatori di farmaci
Avere bisogno di aiuto, di notte. Andare al proprio Centro di salute mentale (Csm) di riferimento e trovarlo chiuso. Vagare per tre giorni, da solo, in città, dormendo all’addiaccio. È quanto è successo a un ragazzo affetto da una malattia psichiatrica. E non in una località sperduta, dimenticata dal sistema sanitario, ma a Trieste, punto di riferimento per la salute mentale a livello internazionale, laboratorio della rivoluzione basagliana.
«Stiamo notando, già da un po’, un degrado, un impoverimento», racconta Tiziana Tomasoni, vicepresidente dell’Associazione Familiari sofferenti psichici (A.Fa.So.P.) noi insieme, che riunisce genitori e parenti di persone con problemi di salute mentale e madre di un giovane con una patologia psichica.«Da noi siamo fortunati, non abbiamo la contenzione, le porte blindate o le telecamere, i Csm sono aperti, ma non si può negare che non abbiamo più le risposte che avevamo un tempo, anche se i pazienti psichiatrici sono aumentati». Il centro di riferimento per il figlio di Tiziana è quello di Via Gambini – gli altri sono Domio, Barcola e Maddalena –, che ultimamente ha subito una riduzione del servizio, passando dall’apertura sulle 24 ore a un orario di 12 ore al giorno. «Questo provoca un disagio grandissimo», continua la donna, «perché si sta male anche di notte e non solo dal lunedì al venerdì. Nel weekend, però, stando a quanto ci risulta pare ci sia un solo psichiatra reperibile che copre tutti e quattro i Csm». Tomasoni ha vissuto sulla sua pelle le difficoltà legate alla diminuzione dell’aiuto offerto da Via Gambini. «Mio figlio ha avuto l’esordio del suo disturbo a 16 anni, ora ne ha 25», racconta. «Circa un anno fa è stato male e ha avuto bisogno di un ricovero in Diagnosi e cura (Spdc), che è il reparto in cui si lavora sulle acuzie. Dopo due o tre giorni, a emergenza finita, avrebbe dovuto venire mandato al Csm di riferimento per un periodo, ma purtroppo Via Gambini chiude la notte. Così ha dovuto rimanere più di un mese in Spdc, occupando un letto in un’area che serve per trattare chi ha crisi e non per lunghe degenze». Il giovane non ha ricevuto un cattivo trattamento da parte degli operatori. Semplicemente, però, non avrebbe dovuto rimanere lì, ma continuare il percorso di cura nella struttura più adatta alle sue esigenze. Nonostante le richieste e le proteste da parte dei genitori, la situazione non sta migliorando, anzi: il centro, che deve subire degli interventi di ristrutturazione, sarà chiuso e dovrebbe essere spostato in un edificio universitario situato poco distante. «La dottoressa Elisabetta Pascolo, la direttrice di Via Gambini, ci ha assicurato che ci sarà una sede alternativa», afferma Tomasoni, «ma non sappiamo ancora quale sarà, perché non è sicuro se la struttura che era stata inizialmente designata abbia effettivamente tutte le caratteristiche per poter ospitare un Csm».
Nel centro ci sono anche problemi di personale: la coperta è corta e alcuni dei già pochi operatori sono stati inviati a coprire i turni di Domio, Barcola e Maddalena, che rimangono aperti sulle 24 ore. I genitori erano andati a chiedere rassicurazioni ad Antonio Poggiana, direttore generale dell’Azienda sanitaria universitaria giuliano-isontina (Asugi), che – dicono – aveva assicurato che sarebbero arrivati nuovi infermieri. Ora, tuttavia, è stata aperta una Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) a Duino-Aurisina, Comune costiero poco più a nord, che ha richiesto l’invio di infermieri, e Via Gambini rimane ancora scoperto. «Ormai i Csm rischiano di diventare dei semplici erogatori di farmaci», commenta la donna, «mentre prima erano un luogo in cui intraprendere un percorso riabilitativo. Capitava che i colloqui si facessero addirittura passeggiando, andando a prendere un gelato. Gli operatori giocavano a calcio con gli utenti, mangiavano anche con loro». Un tempo Via Gambini offriva il pranzo e la cena, ora solo il primo, in un contenitore da portare via. «Capiamo che fossero misure per ridurre il diffondersi della pandemia», dice Tomasoni, «ma adesso non c’è più l’emergenza che c’era nel 2020 e nel 2021. L’impressione, ora, è che il Covid-19 venga utilizzato come pretesto».
A essere archiviato la scorsa estate anche un servizio innovativo, avviato dal precedente direttore del dipartimento di Salute mentale, Roberto Mezzina, che l’aveva importato dai paesi anglosassoni: un supporto domiciliare, in cui un equipe formata da uno psichiatra, un infermiere, un tecnico si recava nell’abitazione dei pazienti in crisi, riducendo la necessità di Trattamenti sanitari obbligatori (Tso) e ricoveri. Per i primi giorni, il team andava a far visita quotidianamente alla persona in difficoltà, la portava fuori, controllava il suo stato di salute e dava supporto ai familiari. «Ci hanno detto di aver sospeso il servizio per permettere le ferie del personale», spiega Tomasoni, «ma poi non è più stato reintrodotto».
Una delle caratteristiche del metodo di Basaglia, si sa, è il dialogo, con i pazienti, ma anche con i familiari e la società nel suo complesso. Oggi, pare, il confronto è sempre meno incoraggiato e l’ascolto diventa ogni giorno più raro. «La salute mentale è vita», conclude la vicepresidente. «Vedere che ci portano via i nostri servizi, soprattutto i Csm, straordinari presidi sul territorio, fa male. Questo attacco fa davvero paura. Non riusciamo a immaginare di avere dei politici talmente insensibili da distruggere un sistema che funziona, invidiato in tutto il mondo».
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