God save the Queen. Lo ha fatto per ottant’anni, senza mai venire meno al suo dovere Dio ha protetto la regina, da guerre, disgrazie, attentati, scandali, ministri, Lady Thatcher, i Sex Pistols, figli, nipoti, nuore e cani, e persino da se stessa e la ben nota attitudine di Sua Maestà alla guida spericolata, sorry, sportiva. Ma stavolta il primario dei Cieli è seriamente preoccupato, e con il primario, sudditi e corte intera. Si teme il peggio. E se ne hanno tutte le ragioni: la regina è malata, colpita – da un giorno all’altro – da una rara, e per il suo rango rarissima, malattia. E dato che il fisico di Sua Altezza non sembra risentirne, anzi mai stato più in salute, c’è da presumere che a farne le spese sia, si perdoni l’espressione poco aristocratica, il senno dell’ottuagenaria reggente.
A nulla vale passare al setaccio le enciclopedie mediche classiche e moderne; e d’altronde neppure un infallibile diagnosta quale fu Jerome Clapp/Klapka Jerome (che in non sospetti tempi vittoriani si dilettava a organizzare gite in barca per scapoli e cane al guinzaglio sul Tamigi, alternandole a meticolose ricerche ipocondriache sui testi di medicina custoditi al British Museum), l’aveva scovata.
Dio e scienza, consiglieri e attendenti non sanno più che pesci pigliare, mentre inesorabile si avvicina il giorno in cui si sarà costretti ad annunciare in mondovisione che il Regno Unito sta per chiudere. Fallito una volta per tutte “per cause di forza maggiore”, comunicheranno senza rinunciare all’aplomb richiesto dalle circostanze, omettendo l’analogia con la catena di grandi magazzini Harrods svenduta all’emiro del Qatar, meglio noto come sceicco Hamad bin Khalifa al-Thani.
Non c’è nebbia londinese né understatement che tenga, i bollettini parlano chiaro: c’è poco di che essere ottimisti. Le quotazioni dei sintomi del misterioso morbo che sta consumando la Regina sono oramai alle stelle, e le improbabili manovre a scopi terapeutici di Buckingham Palace falliscono una dopo l’altra. La situazione è disperata a tal punto da rendersi opportuna, se pur nello sconvolgimento generale, una «regale clausura, dove alla regina (e ai monarchi in generale) fosse garantita maggiore libertà e perfino stravaganza di comportamento, prima che le toccasse una diagnosi plebea come il morbo di Alzheimer». Del quale, volenti o nolenti, bisognerà prendere atto, insieme alle dovute contromisure. A mali estremi rimedi estremi, elementare Watson. Sennonché, un inappuntabile sillogismo con tanto di bombetta e ombrello manda all’aria anche l’ultima delle piste seguite da Scotland Yard: «L’Alzheimer è plebeo; la regina non è plebea; dunque la regina non ha l’Alzheimer».
Allora che cos’ha? E soprattutto, come andrà a finire?
Lo scopriremo leggendo il più imperdibile degli imperdibili libri firmati dal Lord del british humour Alan Bennett, il cui titolo a dire il vero qualche vago indizio che lo concede. Stiamo parlando de “La sovrana lettrice” (Gli Adelphi 2011, pagg. 95, euro 8), che in questi tempi di lacrime e sangue giunge come una sana, oltre che economicissima, risata liberatoria. Elegante e irresistibile, squisitamente e non meno anacronisticamente al di sopra di ogni volgarità – tanto da far pensare (al consumatore di prodotti umoristici di casa nostra) che la fin troppo recente data della prima edizione inglese, il 2007, sia un errore di stampa.
Altro non aggiungiamo, preferendo, da devoti sudditi delle buone letture quali siamo, prendere l’esempio da Her Majesty Elizabeth II: «[…] ragguagliare non è leggere. Anzi, è l’esatto contrario. Il ragguaglio è succinto, concreto e pertinente. La lettura è disordinata, dispersiva e sempre invitante. Il ragguaglio esaurisce la questione, la lettura la apre».