Mi è venuta voglia di scambiare due chiacchiere con Peppe Dell’Acqua di recente, dopo aver letto il libro Sono schizofrenica e amo la mia follia di Elena Cerkvenič, da poco pubblicato dall’editore Meltemi in una collana, la Collana 180 – Archivio critico della salute mentale che prende il nome dalla famosa “Legge Basaglia”.

Peppe Dell’Acqua, che è stato a lungo direttore del Dipartimento di Salute Mentale di Trieste e che, agli inizi della sua carriera, lavorò con Franco Basaglia, è stato l’ideatore di questa Collana 180, oggi passata dalle mani dell’editore Alphabeta a quelle di Meltemi per un nuovo progetto editoriale, nel quale verranno proposte sia ripubblicazioni di opere passate sia, come nel caso del libro di Cerkvenič, opere ancora inedite in Italia.

Beh, insomma, capirete bene che l’occasione era troppo ghiotta! Peppe Dell’Acqua, non solo ha vissuto in pieno e da protagonista la rivoluzione delle cure psichiatriche in Italia ma, evidentemente, crede ancora, come me, all’importanza della parola scritta… dei libri. Come Basaglia fece con lui (lo leggerete sotto), la prima cosa che Peppe ha fatto con me è stata dirmi: «diamoci del tu»… e allora:

Peppe, vorrei partire collegandomi alla tua esperienza biografica. Nel 1971 hai iniziato a lavorare come psichiatra a Trieste e hai conosciuto Franco Basaglia. Circa dieci anni dopo è arrivata la Legge 180. Com’era Franco Basaglia e come sei diventato tu, dopo averlo conosciuto?

Bella domanda… Com’era Franco Basaglia… vediamo… Ne avevamo sentito parlare all’università, io e altri amici, quando era uscito il suo libro L’istituzione negata. Sapevamo che era andato all’ospedale psichiatrico di Parma, a Colorno, ma erano tutte notizie vaghe. In quegli anni ero diventato interno alla clinica delle malattie nervose e mentali. Lì, con altri amici e compagni, abbiamo parlato di Basaglia – sempre di nascosto, in riunioni quasi “carbonare” – e del fatto che forse avremmo potuto conoscerlo. Cominciavamo a capire che quello che vedevamo ci stupiva, ci metteva in imbarazzo. Sentivamo i più anziani di noi che iniziavano a criticare la medicina come “un modo” del potere. Eravamo nel ’67-’68 a Napoli. Qualcuno ci disse: «È nei manicomi che tutto questo si vede e si manifesta al meglio». Così abbiamo cercato chi potesse metterci in contatto con Basaglia. Non era come adesso: sto parlando degli anni Sessanta, c’erano solo telefoni a gettoni e lettere. Alla fine, un medico napoletano, Luciano Carrino, che lavorava con Basaglia a Colorno, ci ha aiutato. Sono andato a Parma nell’aprile del ’71, poco prima di laurearmi. C’era una partita di rugby tra l’Università di Parma e il CUS Napoli, dove giocavo io, e ho colto l’occasione per incontrarlo.

Quando sono arrivato, era la prima volta che entravo in un ospedale psichiatrico. Mi hanno accompagnato in una grande stanza dove Basaglia stava facendo una riunione con medici e infermieri. Quando sono arrivato, lui si è alzato, mi è venuto incontro, mi ha stretto la mano e mi ha dato subito del tu, pretendendo che facessi lo stesso. Questo mi imbarazzava molto. Il fatto che venisse incontro a me, uno studente, era significativo. In quel momento era molto preso dal voler creare un gruppo che fosse in grado di lavorare con lui a Trieste. Cercava ragazzi giovani – io avevo ventiquattro anni e mezzo – non “contaminati” dalle psichiatrie. Ho conosciuto un mondo nuovo. Io venivo dalla clinica, dove tutti indossavano il camice bianco. Invece, a Trieste, erano tutti seduti intorno al tavolo e nessuno indossava il camice bianco. E c’era quest’uomo, ormai diventato un personaggio importante e noto, che mi veniva incontro, estremamente accogliente.

Basaglia era una persona molto rigorosa, che non dava tregua nel lavoro. Pretendeva molto da noi. Aveva reclutato tanti ragazzi in giro per l’Italia e credo si fosse subito reso conto che non era impresa facile tenere insieme un gruppo di quindici-venti come noi: si poneva il problema non solo della nostra formazione ma anche dell’educazione alla responsabilità. L’ho conosciuto bene in quegli anni perché tutti noi eravamo invitati al pomeriggio, alla fine del lavoro nei reparti dell’ospedale, a partecipare a una riunione che diventò “la mitica riunione delle cinque”, dove si discuteva di tutto. Noi giovani stavamo zitti e ascoltavamo, sostanzialmente; io ho preso la parola solo qualche anno dopo essere arrivato lì, per intenderci. Franco Basaglia era una persona che accoglieva, però era anche attento e sospettoso nei confronti di quelli che, in qualche maniera, ostacolavano il suo lavoro. Era preoccupato dallo sguardo critico e talvolta ostile sia delle accademie, sia delle amministrazioni pubbliche.

Se dovessi dire una cosa che ti ha lasciato Basaglia, una che ti è rimasta più delle altre?

Una su tutte? Beh, sicuramente, l’incontro con l’altro.

Parliamo ora della Collana 180 – Archivio critico della salute mentale, che hai recentemente riportato in auge con l’editore Meltemi. Il primo libro con cui avete esordito è stata la ripubblicazione di una biografia di Franco Basaglia scritta da Mario Colucci e Pierangelo Di Vittorio. Che valore ha oggi quel libro, a cento anni dalla sua nascita?

La collana con questo titolo, Archivio critico della salute mentale, nasce in un giorno d’estate parlando con Pier Aldo Rovatti e con Aldo Mazza, l’editore. Riflettevamo sul fatto che tutto ciò che era accaduto negli anni Cinquanta e Sessanta, l’ingresso in campo dei maestri che abbiamo avuto l’opportunità di conoscere e leggere – dai fenomenologi a coloro che portavano avanti pratiche antistituzionali – si stava perdendo. Allora, abbiamo pensato che fosse il caso di iniziare a scrivere, a raccogliere. Questo archivio aveva il senso di documentare ciò che accadeva e ciò che era accaduto. La collana di Alphabeta Verlag è durata più di dieci anni, ha avuto un discreto successo e ha prodotto ventisei volumi. Poi, è stata chiusa perché la cooperativa di Merano non aveva più la possibilità di portare avanti questo lavoro. E allora è entrata in gioco Meltemi che ha rilevato tutti i titoli, con l’intenzione di ripubblicare sia opere della vecchia collana sia dei titoli inediti. La scelta di iniziare con la biografia di Basaglia è legata al centenario della sua nascita. Il libro di Colucci e Di Vittorio aveva già avuto in passato una buona diffusione e diventava, in questo momento, un ottimo punto di partenza, se vogliamo anche simbolico, per questa nuova avventura con Meltemi. Nel corso degli anni, è diventato sempre più evidente che la conoscenza pubblica di Basaglia non si fonda tanto sull’enorme e rivoluzionario lavoro che ha fatto o sul suo pensiero, ma sui luoghi comuni tipo: “Basaglia ha chiuso i manicomi”. L’eredità di Basaglia viene spesso ridotta alla chiusura dei manicomi. Volevamo tentare di far capire, con le nostre pubblicazioni, da dove origina tutta la rivoluzione. È stata sempre una nostra priorità.

Vi siete dati anche la missione di pubblicare testi inediti, cosa che trovo molto importante. Far scoprire, oltre che far rivivere.
 

Sì, vero. Il secondo libro pubblicato da Meltemi è un testo a cui tengo moltissimo. Si intitola Sono schizofrenica e amo la mia follia e l’ha scritto Elena Cerkvenič.

Sono curioso della storia di questo libro.

Il libro nasce in maniera assolutamente inaspettata. Elena frequentava il centro di salute mentale di Domio, un rione di Trieste, come luogo sicuro dove vivere il proprio malessere. Aveva cominciato a star male a venticinque anni, mentre frequentava a Monaco un corso di perfezionamento in letteratura tedesca. Si era laureata con Claudio Magris. Inattese, come sempre, voci minacciose la terrorizzavano. Non riuscì a concludere il corso e fu ricoverata nell’ospedale psichiatrico di Monaco. Un’esperienza, come essa stessa ricorda nel libro di cui stiamo parlando, che segnò una frattura per anni irrecuperabile.

Il Centro di Salute Mentale, la vicinanza degli operatori, l’intenzione mai abbandonata di farcela, le hanno permesso, nei momenti di benessere, di sposarsi e avere un figlio. Tuttavia, fino a oggi, ha sempre riconosciuto di avere bisogno di aiuto. Ha sempre partecipato, quando poteva, a tutte le attività che le venivano proposte. Una di queste, in particolare, era un gruppo di autoaiuto che poi è diventato un gruppo di partecipazione civile chiamato “Articolo 32”, riferendosi all’articolo della Costituzione che consideriamo l’ossatura della riforma nel campo della salute mentale e della medicina in generale.

Elena partecipava a vari programmi come l’autoaiuto, le discussioni letterarie, i corsi di scrittura e i viaggi. Questi non erano obbligatori o parte di un piano terapeutico specifico, ma proposti liberamente. Lo stile nostro era quello di proporli e poi lasciare che gli operatori, gli accompagnatori e le persone stesse decidessero il modo e il tempo della loro partecipazione.

Io non sono mai stato il responsabile del centro dove lei è stata curata, ma come direttore, incontravo gli operatori nelle riunioni di verifica e anche quando la crisi sembrava essere insuperabile. Con Elena si è sviluppato un rapporto molto fluido. Lei mi telefonava per dirmi delle cose e circa cinque anni fa ha iniziato a scrivermi anche delle e-mail. Elena è laureata in letteratura tedesca, è molto radicata nella minoranza slovena e l’italiano è la lingua che parla correntemente. Mi scriveva mail in cui mi diceva di star male o di star bene, mi parlava del figlio, come scriveva anche ad altre persone e ai terapeuti. All’inizio non davo particolare peso a queste e-mail, le leggevo e pensavo “vabbè, e allora?”. Ma continuando, la quantità delle mail ha fatto qualità. La trasparenza e l’assoluta verità nei suoi scritti hanno cominciato a interessare me e i miei colleghi.

Un punto di svolta è stato quando Elena ha partecipato ai seminari filosofici tenuti da Pier Aldo Rovatti, con me come mediatore. Lì, dopo vent’anni di malattia, Elena ha cominciato a percepire la sua presenza come uguale a quella degli altri. Questa esperienza le ha dato una possibilità di “rimonta”, come la chiamo io. A quel punto, sia io che altri, compreso Pier Aldo, abbiamo incoraggiato Elena a scrivere i suoi pensieri, senza insistere. Io ho iniziato a fare una cartellina in cui trascinavo tutte le sue e-mail. Successivamente, Francesca de Carolis, una giornalista della RAI ora in pensione, ha visto questo materiale e ha riconosciuto il suo valore straordinario. Francesca ha iniziato a lavorare con Elena per organizzare gli scritti in un ordine accettabile, mantenendo la sequenza temporale come in un diario. L’editing è stato veramente semplicissimo, con l’obiettivo di preservare al massimo le parole di Elena come un reperto prezioso. Inizialmente doveva essere pubblicato nella Collana 180 di Merano. Quando Meltemi ha rilevato la collana, ha immediatamente deciso a sua volta di pubblicarlo.

Mi incuriosisce il tuo coinvolgimento con la letteratura e l’editoria. Come ci sei arrivato?
 

È un percorso che parte da lontano. Quando ho iniziato come giovane psichiatra con Franco Basaglia non pensavo minimamente di occuparmi di scrittura, mia o di altri. Le mie esperienze liceali non erano così brillanti nello scrivere. Ma è accaduto qualcosa di significativo nei primi anni di lavoro. C’era una forte spinta nelle “pratiche basagliane” verso l’incontro con l’altro. Nel 1973, l’arrivo a Trieste di Giuliano Scabia, Vittorio Basaglia e del Cavallo (qui la voce Treccani dedicata a Marco Cavallo, n.d.i.) ha segnato un momento importante. Ho capito che dovevamo abbandonare il linguaggio della psichiatria – anamnesi, diagnosi… – per concentrarci sull’ascolto dell’altro e sul raccontare la sua storia, non come malato di mente, ma come persona con una possibile vita di relazione, una storicità. Questa idea di narrazione mi ha accompagnato fino a oggi. Significava entrare nel gioco del Cavallo che racconta, del cantastorie che va in giro per la città a dire: “C’era una volta la città dei matti in via San Cilino e a San Giovanni… ”. Ho capito che il nostro lavoro andava comunicato in modi comprensibili, abbandonando il lessico psichiatrico ma mantenendo il rigore di ciò che si dice.

Tu però scrivi…
 

Sì. Dopo l’incontro con Giuliano, la nostra frequentazione successiva mi ha incuriosito. Raccontare le storie, come lui faceva, mi è sembrato un modo per uscire dalle secche della psichiatria. All’esame di tesi di specializzazione ho portato sette storie nelle quali era bandito qualsiasi termine psichiatrico e una lunga riflessione su questa scelta. Devo dire che stare a Trieste ha significato una fortuna impensabile. I profughi e gli esuli istriani che trovavo in ospedale pretendevano una narrazione che salvaguardasse la loro dimensione storica, umana e dolorosa. Raccontare del dolore dell’abbandono delle proprie terre, senza cadere nella tentazione di ridurre tutto a una dimensione clinica è stato per me un esercizio che mi interrogava e che continua a interrogarmi ancora oggi. Sono stato fortunato. Ho letto tutto Fulvio Tomizza e tanti altri scrittori che mi hanno permesso di entrare in quella storia ricca di passioni e di sentimenti che rischiavano, ogni giorno, di venire ridotti a un conflitto politico, a un problema di immigrazione e alla fatica di una difficile integrazione. Con Tomizza ho riscostruito sul campo le storie degli uomini e delle donne che ho trovato in ospedale e che ho fatto fatica, da meridionale quale sono, a comprendere, ai primi incontri. Così come Tomizza mi ha portato per mano a conoscere l’Istria, i conflitti del dopoguerra e l’emigrazione verso l’Australia, gli Stati Uniti e il Canada, Italo Svevo e tanti altri scrittori triestini mi hanno permesso di entrare nelle case e nei salotti buoni di quella borghesia un po’ immalinconita dalla “perdita dell’Imperatore”. Anni dopo, quando già lavoravamo da tempo nel Centro di Salute Mentale e mi occupavo del lavoro con i familiari, ho pubblicato un libro con Feltrinelli, Fuori come va? Famiglie e persone con schizofrenia. Manuale per un uso ottimistico delle cure e dei servizi, che ha avuto molto successo in quell’ambito. Ovunque andassi c’erano familiari che mi dicevano di avere quel libro sul comodino. Nel 2010-2011, con Pier Aldo, l’editore, Roberto Mezzina e altri amici, abbiamo riflettuto sul fatto che molte cose di questa storia rischiavano di andare perdute e abbiamo pensato che fosse opportuno documentarle, in qualche modo.

Hai menzionato Marco Cavallo. So che il prossimo libro sarà proprio Marco Cavallo di Giuliano Scabia. Puoi dirmi qualcosa di questa uscita e del suo valore?
 

Marco Cavallo è anche la storia della mia vita. Questa sarà la terza edizione. La prima fu pubblicata da Einaudi nel 1976, subito dopo il laboratorio e l’uscita del Cavallo. Giuliano scrisse questo diario del laboratorio, che divenne un libro di successo, adottato in molte scuole come il DAMS o quelle più specialistiche dove si preparano i tecnici della riabilitazione. Da allora, il Cavallo ha continuato a “trottare”. In questi cinquant’anni è stato in centinaia di posti in Italia, ha fatto un lungo viaggio in Germania, è stato in Spagna, è stato rappresentato alla Berkeley University, dove dei medici antropologi hanno fatto dei seminari su Marco Cavallo. Quando è nata l’idea della casa editrice Alphabeta, il primo libro è stato proprio Marco Cavallo. Abbiamo rischiato, io ero molto contento di farlo, ma l’editore e Pier Aldo erano un po’ scettici. Invece ha venduto tantissimo.

Dopo la morte di Giuliano Scabia, sua moglie Cristina e molti amici hanno cercato di raccogliere il suo lavoro. C’è un archivio Scabia a Firenze, un luogo della fantasia e della magia. Hanno fatto una mostra a Castiglioncello due anni fa e hanno invitato il Cavallo. Ora è nata la Fondazione Giuliano Scabia, e alcune università hanno chiesto di riproporre il libro nelle classi che si occupano di questo. La Fondazione ci ha chiesto di rieditarlo ancora una volta. Il nuovo editore ha accettato pensando che fosse una buona azione anche sul piano editoriale. Abbiamo deciso di non toccare il testo, lasciandolo come il lavoro originale di Giuliano.

La narrazione continua. Dal 2018, con Massimo Cirri e Erika Rossi abbiamo creato uno spettacolo teatrale, (Tra parentesi) La vera storia di una impensabile liberazione, che ha fatto circa ottanta repliche. Ora ci sono nuove richieste per portarlo a Perugia, Fabriano, Trento e Bolzano nei primi giorni di ottobre. C’è anche la trascrizione di questo canovaccio che è diventata un altro libro che sta girando molto. Cerchiamo sempre di mantenere quella dimensione emotiva ed emozionale che ha funzionato molto bene.

E adesso, per concludere, dimmi di cosa ti stai occupando? 
 

Io sono in pensione dal 2012, ma non ho mai smesso di lavorare. Il cambiamento prodotto in Italia si è radicato. Tuttavia, rischia sempre. In tanti di noi sentiamo la necessità di tenere vive organizzazioni per far fronte, soprattutto in questi tempi, a politiche, ostilità ideologiche e smemoratezze che rallentano le possibilità di ulteriore progresso. L’impegno principale per me oggi è tenere in piedi il Forum Salute Mentale che continuiamo a immaginare come una piazza dove, prendendo un caffè, ci riconosciamo per tenere un presidio in un campo così delicato e fragile. La scorsa primavera abbiamo lanciato una campagna #180benecomuneL’arte di restare umaniSperiamo bene!  

da Medical Humanities