Roma, 5 mar (Velino) – Thomas Szasz si occupa di “psichiatria” da tempo immemorabile. Insegna allo Health Sciente Center della State University di New York da oltre cinquant’anni. La sua famiglia è ungherese; emigrò negli Stati Uniti per ragioni di vita. Nel 1961, Szasz pubblica un libro, “The Mith of Mental Illness” – un testo formidabile, in cui pone radicalmente in discussione un’ideologia secolare, diffusa da quella pseudoscienza chiamata psichiatria. Le sue posizioni in materia sono tutt’ora libertarie, antiproibizioniste e antipsichiatriche, anche a seguito di oltre mezzo secolo di battaglie legali e scientifiche volte a sensibilizzare governi, ricercatori e cittadini intorno alle conseguenze dell’uso e dell’abuso di psicofarmaci e dell’internamento psichiatrico. Di recente, è uscito un suo nuovo libro, pubblicato in Italia da Spirali, intorno alla vicenda della grande scrittrice Virginia Woolf – “La mia follia mi ha salvato” – dove pone in rilievo gli aspetti meno noti della sua vita, utilizzando come fonti le annotazioni quotidiane del marito, Leonard Woolf, gli appunti e i carteggi di Virginia, e i suoi stessi romanzi. Il libro di Szasz è un “romanzo” intorno alla presunta follia di Virginia, al suo modo ambiguo di viverla e alle varie relazioni e interlocuzioni con le persone che erano incaricate di gestirla.
La “follia” è un tema di cui dicono, in effetti, più Dante e la letteratura che la psichiatria. La psichiatria si pone come pseudoscienza postilluministica, che vanamente ha tentato di sistematizzare l’insistematizzabile per antonomasia, ossia la psiche e la sua logica, ciò che i greci chiamavano anche “soffio”, “respiro”, e “anima”, “vita”. Vari i tentativi di localizzare il “soffio” nei secoli: si prenda quello – per citare un aneddoto – di Jean-Francois Dufour, che in pieno illuminismo voleva un microscopio per poter cercare, nel cervello di un filosofo, l’appartamento dove era sano e l’appartamento dove era matto. In effetti, questa pseudoscienza si è quasi sempre basata sul “visivo” e sul “visibile” – sul saper vedere – ereditandone, dall’inquisitore ecclesiastico, la prerogativa. Come l’inquisitore diceva che la strega, di cui aveva visto i segni, “si rifiutava di ammettere di essere una strega”, lo psichiatra individua il sintomo della follia nel fatto che il presunto folle non riesca ad ammettere di essere malato di mente. (segue)
Szasz ritiene che la psichiatria sia una moderna religione laica e che la malattia mentale sia una mitologia. In questo libro, racconta la vita di Virginia come fosse l’emblema di una favola pseudomedica, dove convergono luoghi comuni postilluministici e postromantici, tutt’oggi agenti, come quello per cui la follia ispirerebbe il “genio” e, allo stesso tempo, in quanto malattia, lo ostacolerebbe. “È una palese assurdità”, scrive Szasz. “Per millenni, gli umani hanno prodotto grandi opere d’arte senza che nessuno sentisse il bisogno di attribuire tali opere al genio o alla malattia dei loro creatori. Ma l’uomo moderno trova soddisfazione soltanto nelle spiegazioni ‘scientifiche’”. Ecco, la religione laica è questa. Un altro aspetto, raccontato nel libro, riguarda la famiglia stessa di Virginia, in cui ognuno assume il jeu du role tipico della famiglia fabbricata dalla pseudoscienza, composta da padre, madre e paziente, con alcune varianti. Virginia, secondo Szasz, cercò di “avvalersi dei vantaggi che il ruolo di malato di mente le offriva”. Ella “poteva atteggiarsi a genio folle, Leonard a marito di una scrittrice folle, Vanessa, a sorella di una folle”. Szasz scrive che Virginia e Leonard utilizzavano la psichiatria e gli psichiatri per “orchestrare la propria vita, l’una da folle, moglie e scrittrice, l’altro da infermiere, marito e manager”. In altre parole, Virginia collaborava con gli psichiatri per crearsi, secondo Szasz, la doppia identità di folle e di artista. Come ciò avvenne e come si protrasse per anni, ciascuno può leggerlo in questo romanzo.
Fu l’alienista italiano Cesare Lombroso (1835-1909) a coniare l’espressione “genio e follia”. Come nota Szasz, però, genio e follia sono espressioni di valore e non espressioni mediche o scientifiche. Il significato più recente di genio come eccellenza ereditaria fu foggiato dal padre dell’eugenetica, Sir Francis Galton, cugino di Charles Darwin, che applicò quindi la formula ereditaria agli attributi “mentali”. Nei regimi novecenteschi, sia Stalin sia Hitler si sostituirono ai genetisti scientifici (Stalin molti ne giustiziò e ne esiliò), preferendo un’applicazione immaginaria dell’eugenetica per migliorare o elevare il “ceppo umano”. Il genio ammirato da Hitler, “era marziale e misogino: gli uomini devono essere guerrieri, le donne devono essere madri e tutti devono essere membri della razza ariana”. Di conseguenza, cercò di eliminare i presunti degenerati razziali, tra cui, in primis, i “malati di mente”. Ma il primo, vero, psichiatra “eugenetista-darwiniano” resta proprio Lombroso. Cosa fece lo scienziato veronese? Mise insieme la teoria evoluzionistica, il discorso medico, il giudizio morale e il diritto penale per giustificare lo stato terapeutico, con a capo “lo psichiatra nei panni del filosofo”. Ma lo “stato terapeutico” dove troverà maggior applicazione se non in Italia, con la legge 180, erroneamente definita “legge Basaglia”? Integrando il progetto di Pinel, che creò l’ospedale psichiatrico moderno come città dell’utopia, la legge 180 coinvolge tutta la città nel progetto utopico dell’ospedale psichiatrico, conformando e statalizzando, quindi consegnando il paziente al territorio, che dispensa assistenza, farmaci e conforto religioso.
Lombroso è anche un antesignano della psicologia evolutiva tutt’ora in auge. Il libro che gli diede maggior fama è “L’uomo delinquente”, un testo in cui egli impiegò le idee darwiniane dell’evoluzione per spiegare il comportamento criminale. Una tappa ulteriore, che forma un ponte tra Galton-Lombroso e la nostra era – in cui trionfa la psichiatria della malattia mentale considerata come malattia del cervello – è l’opera del tedesco Ernst Kretschmer, fortemente influenzata dal pensiero di Lombroso, secondo cui la follia sarebbe una malattia ereditaria. Quindi, due termini di valore, come genio e follia, diventarono un problema biologico proprio a partire da questi tre psichiatri, in primis Lombroso. L’attribuzione morale di genialità e di follia trovava (e trova) legittimità in un presunto sostrato biologico anormale, con il “progetto” di favorire la crescita in influenza e sviluppo della psichiatria nella società. La connessioni tra genio e follia, come rileva Szasz, hanno prodotto “enormi quantità di fesserie pretenziose”. Un termine esalta il soggetto, l’altro lo degrada e lo demonizza: bene e male, quindi, sono attribuite a un soggetto dualistico. Le due immagini stanno, l’una rispetto al’altra, come la negativa e la positiva di una foto dell’era predigitale. Ma quali saranno le prossime tappe?
(da Il Velino.it, Francesca Bruni) 5 mar 2010