Assonanze e sincronicità per la lotta alle istituzioni totali e alla pratica della contenzione.
di Daniele Piccione
1.Il ruolo del manicomio nel racconto di una fuga “I detective selvaggi”.
“Mio padre lo dovemmo internare in un manicomio (mia madre mi corregge e dice: clinica psichiatrica, ma ci sono parole che non hanno bisogno di nessuna riverniciata: un manicomio è un manicomio)….”([1]).
Sono parole che, introducendo il rapporto tra i personaggi letterari e l’istituzione psichiatrica, appaiono in una delle due opere più celebri di Roberto Bolaňo, “I detective selvaggi”. E’ il racconto del viaggio di tipi sghembi, della vita di poeti marginali ed esclusi che vagano alla ricerca dei propri sogni attraverso il subcontinente americano. Un racconto ellittico e irregolare, talvolta quasi indescrivibile. Ma il manicomio vi campeggia, presidia il panorama.
In generale,la prosa di Bolaňo è abitata dal manicomio.Lungo la traiettoria narrativa de “I detective selvaggi”, nell’istituzione manicomiale, incappa unpersonaggio (solo in apparenza minore) che compone la girandola a più voci da cui è animato il romanzo.
Nel vortice di scoperte e scomparse che costellano quest’epopea picaresca dedicata al viaggio e alla fuga,Bolaňo con la tautologia in epigrafe,ci mostra la logica dell’ingresso nell’istituzione totale e, al contempo, risolve fulmineamente ogni problema definitorio. L’uso puntuale del concetto di internamento apre il libro alla dimensione delle istituzioni della violenza. E vi si accompagna il riferimento a una necessità non spiegata che avrebbe condotto madre e figlia alla scelta di recludere il padre, Joaquin Font.
Da questo momento, Bolaňo abbraccia la logica a tappe dell’internato, il suo angolo visuale. E se prima è stato ellittico sulle ragioni effettive dell’ingresso in manicomio, ora non ne parla semplicemente più, le relega nell’ombra dell’indeterminatezza più assoluta. In questo romanzo a più voci, Bolaňo impiega le frazioni narrative dedicate al personaggioJoaquinFont, per ritrarre il manicomio e il peso che assume nella sua idea di letteratura. A guardare bene è il tentativo di coglierne la funzione istituzionale nell’intera storia del novecento latinoamericano. Così, dopo poche pagine, ritroviamo JoaquinFont alle prese con una dimensione temporale alterata che scandisce la sua giornata nell’istituto.
“..mi hanno rubato l’orologio e cronometrare ad occhio è rischioso….Me l’hanno rubato i pazzi che circolano qui dentro. I poveri matti del Messico che picchiano e che piangono….”([2]).
Si percepisce il senso del tempo che si trasforma e poi incide nel cambiare anche la memoria, ravvivata appena dalle visite di persone che l’internato Font non riesce nemmeno a riconoscere: è allora che lui finge, per compiacerle. L’incipit scelto da Bolaňo, per delineare il fossato che si apre con il mondo esterno, è tagliente e proditorio:
“Un giorno venne a trovarmi uno sconosciuto. Questo è quello che ricordo dell’anno 1978”([3]).
Dalla dilatazione del tempo rispetto alla capacità di trattenere i ricordi, staremmo per credere a una qualche malattia che affligge Joaquin Font; sospettiamo per un attimo che egli soffra di dementiapraecox, di un disturbo mentale, solo che poi si comprende che il misterioso visitatore non è affatto uno sconosciuto: si tratta del suo amico Alvaro Damian, che, pur apparendo un estraneo al compagno internato,
“sorrise, ma i suoi occhi erano sempre tristi, come se guardasse tutto da un dolore molto grande”([4]).
Si compie allora uno scarto cruciale. Bolaňo passa a narrare del manicomio visto dall’esterno. Comincia un viaggio struggente, attraverso altre visite all’internato che portano il dolore da dentro a fuori.
Poi Alvaro Damian, l’amico triste, si suicida. L’effetto narrativo è radicale e abrasivo, perché il lettore è indotto a sospettare che il suicidio dipenda proprio da quelle sue visite in manicomio, dal fatto che Joaquin Font non sia stato in grado di riconoscerlo.
Nello snodo successivo lo stesso Joaquin Font viene trasferito all’ospedale psichiatrico di massa, ribattezzato La Fortaleza:
“Adesso che sono circondato da pazzi poveri, quasi nessuno viene più a trovarmi”.
Bolaňo, in un romanzo che si propone anche come elegia dell’amicizia, vira verso una nuova forma di solitudine. L’internato è isolato tra le mura manicomiali e da questo momento in poi, l’istituto asilare diviene, per contrasto, vasto e sconfinato, accoglie masse di sofferenti tra le quali si sciolgono e non si riconoscono più le individualità. Tra le righe, se ci si libera dalla presa e dal ritmo della narrazione, si capisce che l’internamento è divenuta faccenda di selezione tra classi sociali. Meno si ha, e più sono le persone con cui si è reclusi. Riecheggia, allora, l’illuminante proverbio tanto spesso citato da Franco Basaglia, a dimostrazione dei meccanismi escludenti che portano all’ospedale psichiatrico: “Chi non ha, non è”([5]).
Eppure Bolaňo intende spingersi ancora più a fondo. Approfondisce e sviluppa lo specifico profilo della vista esterna e fugace del manicomio e dei suoi abitanti. Una descrizione che pervade una delle più intense e dolenti pagine de “I detective selvaggi”, quella che dipinge il cortile del manicomio La Fortaleza, ormai identificato apertamente con il nome di prigione e di cui colpisce la vastità suggerita da termini come “steppa”, oppure “distesa grande come tre campi di calcio”.
“Il giorno dopo lo incontrai di nuovo, forse inconsciamente lo stavo cercando e mi diressi verso di lui, a passi molto lenti, molto pazienti, così lenti che a volte quelli che passano sugli autobus lungo il viale senza nome hanno la sensazione, credo, che non ci muoviamo, però ci muoviamo, su questo non ho il minimo dubbio….”([6]).
Questa frase disseminata nel cuore de “I detective selvaggi” va tenuta a mente, perché si collegherà, poi, con un dato biografico dell’autore; un episodio intenso e drammatico che sul finire della sua vita, Egli rivelerà in tutta la sua crudezza.
E ancora:
“Questo cortile principale è il perimetro naturale del silenzio, anche se la prima volta che lo vidi pensai che lì il rumore e le grida dei pazzi avrebbero potuto essere insopportabili e ci misi un po’ a trovare il coraggio di passeggiare per quella steppa….
Se c’era un luogo in tutta La Fortaleza da cui il suono fuggiva come un coniglio terrorizzato, quel luogo era il grande cortile che alte inferriate proteggevano dal viale senza nome lungo il quale la gente di fuori passava rapida, protetta dentro i veicoli, perché di pedoni propriamente detti lì non se ne vedevano, anche se di tanto in tanto il parente disorientato di qualche pazzo o personaggi che preferivano non entrare dalla porta principale si fermavano vicino all’inferriata, solo per un momento e poi riprendevano il cammino”([7]).
E’il preludio all’intuizione letteraria che Bolaňoimpiegherà per descrivere, a suo modo, “l’istituzionalizzazione”. Mentre JoaquinFont è internato, il senso del tempo si è sgretolato in lui, i tranquillanti de La Fortaleza lo confondono, alimentano visioni, gli ottenebrano la memoria, la terra trema a Città del Messico: è il terremoto. Dopo il disastro, quando la figlia di Font tornerà a trovarlo nel manicomio post cataclisma, egli descriverà la reazione degli internati al disastro in corso.
“I dolenti della Fortaleza erano tutti caduti dal letto, quelli che non erano legati, le dissi, e non c’era nessuno a controllare i padiglioni perché gli infermieri erano usciti in strada e alcuni erano andati in città per sapere qualcosa delle loro famiglie. Per qualche ora i pazzi furono abbandonati a loro stessi. E cosa fecero? Disse mia figlia. Poco, alcuni si misero a pregare, altri uscirono nei cortili, la maggior parte continuò a dormire, nei letti o per terra”([8]).
La disamina degli effetti delle istituzioni totali si conclude, ne“I detective selvaggi”, con la cronaca scarna del rientro a casa che segue le dimissioni. Il lento ritorno alla vita di prima viene introdotto da una frase che rimarrà celebre nella produzione letteraria latinoamericana di tutto il Novecento.
Eccola:
“La libertà è come un numero primo. Quando tornai a casa tutto era cambiato……Mia moglie, a quanto pare, si era risposata……Comunque, nel giro di tre giorni la stanza era completamente impregnata dl mio odore, un odore di vecchio, di pazzo, e tutto tornò come prima. Mi deprimevo e non sapevo cosa fare. Rimanevo immobile e lasciavo che passassero le ore in quella casa vuota finchè non tornava dal lavoro qualcuno dei miei figli e scambiavamo qualche parola….Il quartiere era cambiato, Mi rapinarono due volte. La prima, dei bambini armati di coltelli da cucina. La seconda, degli adulti che, non trovandomi niente in tasca, mi riempirono di botte. Ma io ormai non sento più il dolore e non mi importò. Questa è una delle cose che ho imparato a La Fortaleza”([9]).
La logica della violenza e della sopraffazione appresa nell’istituzione segna l’epilogo di una parabola che attraversa, metaforicamente,il libro intero, scandendo il percorso di vitain cui Bolaňoimmerge il suo personaggio. Nella parentesi manicomiale è mutato il senso del tempo, si è scolorita la memoria, sono cambiate le abitudini e ritrovarsi nel mondo esterno che ha proseguito i suoi rirmi sarà arduo per chi viene dimesso. Di qui la scelta narrativa dolce e definitiva effettuata dal narratore: la voce di JoaquinFont sfuma via; non apparirà più nel romanzo. Avrà lasciato una traccia, certo, ma il manicomio, la psichiatria, si eclisseranno fino alla successiva opera, quella più nera e cupa dell’autore cileno: il romanzo multiplo dal titolo enigmatico 2666.
- Un romanzo – mondo, “2666”: il manicomio come destino possibile.
Il manicomio torna nel Bolaňo più tardo come immagine che fa capolino, ancora luogo possibile del destino che però, ora, diviene sempre approdo finale, esito non modificabile cui tendono le vite di alcuni personaggi. L’autore sembra ribadire che l’internamento non è affatto un’eventualità remota, ma una tragica e reale probabilità per ognuno.
Ecco allora una descrizione del manicomio, questa volta più asettica, trattandosi di un posto per ricchi, nei pressi di Montreaux, dove i protagonisti della prima parte del libro vanno a trovare un misterioso pittore. Questi, sulle orme di Van Gogh, si è auto mutilato e dovrebbe metterli sulle tracce dell’altrettanto misterioso Benno von Arcimboldi, una sorta di eroe letterario che rappresenta il cuore dell’intero romanzo e l’estremo magnetico verso cui tutte le piste narrative sembrano confluire:
“il cancello nero di ferro che si ergeva a dare il benvenuto (o a impedire l’uscita, e le entrate inopportune) davanti al manicomio Auguste Demarre….Poi i tre affrontarono la sagoma del manicomio, che si intravedeva in fondo alla strada e ricordava una fortezza del Quattrocento, non per la linea architettonica ma per ciò che la sua inerzia ispirava all’osservatore”([10]).
Da questo momento in poi, Roberto Bolaňo, si cura di operare una progressiva sostituzione tra istituzioni totali. Il peregrinare dei personaggi del libro vedrà dissolversi il profilo dei manicomi alle loro spalle e nel panorama, poco a poco, apparirà qualcosa di diverso, al principio appena accennato, poi sempre più definitoecruciale per lo snodarsi della narrazione:
“A sud scoprirono binari e campi da calcio per indigenti circondati da baracche e videro addirittura una partita, senza scendere dall’automobile, fra una squadra di agonizzanti e un’altra di affamati terminali, e due strade che uscivano dalla città, e un canyon che era stato trasformato in una discarica, e quartieri che crescevano zoppi o monchi o ciechi e qua e là in lontananza, le strutture di un deposito industriale, l’orizzonte delle maquiladoras”([11]).
All’ombra delle maquiladoras, il tono del romanzo muta di segno, diviene aspro e inquietante:il lettore avverte l’orrorein un modo ancora diverso. Comincia una lunga, interminabile sequela di omicidi di donne e bambine. Bolaňo contribuisce a suscitare sgomentodescrivendo la contenzione come segno della durevole sconfitta dell’autodeterminazione, il sinistro pensiero di non poter disporre del proprio corpo, dell’essere ridotti in schiavitù e, in quelle condizioni, affacciarsi sull’abisso dell’orrore:
“…presentava le mani legate dietro la schiena, con una cinghia di plastica, come quelle che si usano per imballare i grossi pacchi”([12]).
Bolaňo, mentre si inerpica lungo l’ondivago percorso del suo romanzo- mondo, appunto 2666, accede al nucleo più duro della narrazione, quello dedicato a “La parte dei delitti”; si concentra sulla descrizione delle vittime degli efferati femminicidi in un Messico selvaggio e misterioso. Ricorre spesso a questo dettaglio del legare, dell’immobilizzare, del cingere e bloccare la vittima, con espedienti narrativi efficaci.
Il dettaglio della contenzione – trasmesso con la presenza, sul luogo del ritrovamento, di legacci e corde, oppure riscontrando ecchimosi ai polsi e alle caviglie delle vittime – serve a suggerire la pena verso la povera donna rinvenuta di volta in volta, adombrandone la fine tragica. Ancora una volta, nello scarno brano riportato, l’autore riesce a riassumere in poche righe la violenza del messaggio visivo connesso alla contenzione e il suo potere estremo di ridurre l’uomo che ne è vittima a cosa; in una parola a reificarlo. Eppure, trattandosi, di vittime di omicidi, il lettore apprende che la contenzione era stata praticata prima dell’uccisione, in un qualche luogo imprecisato. Il ponte immaginario con il racconto del terremoto a La Fortaleza, ne “I detective selvaggi”, con i soli internati legati ai letti che rimangono al loro posto mentre la terra trema e con essa il manicomio, non potrebbe essere più netto.
Il richiamo ai luoghi del legare, del ridurre in schiavitù, dell’esercizio del potere che annichilisce la dignità, colora e trascende al tempo stesso il messaggio della contenzione: è dedicato non solo a chi la subisce, ma a tutti quelli che si trovano concentrati in un’istituzione chiusa, ai quali si minaccia un’ulteriore costrizione, una ristrettezza che ricordi loro quanto potrebbe ancora peggiorare il già esiguo spazio vitale a disposizione. Più della cella di isolamento, del carcere di rigore, della perquisizione fisica più invasiva, affiora lo spettro della contenzione.
L’anima sinistra e ambigua risiede nella sua valenza metaforica. Non è una pena, non consiste in una misura prevista da qualche legge o comminata in proporzione alla gravità di quel che si fa. La durata delle contenzioni fisiche è incerta e priva di prospettive sicure. Per chi è legato, non esiste la possibilità di contare il tempo che lo separa dalla fine dell’umiliazione. Egli non la conosce, poiché la fine della contenzione è arbitraria. Nell’ospedale dipende dal medico; nel carcere dalla guardia penitenziaria; in generale, dal detentore di un potere assoluto.
La contenzione, mentre si proietta nel tempo, in avanti, sembra scandire ferocemente, ancora una volta, una solitudine, una diversità, senza termine definito. Fa vacillare. E allora, a una persona legata, potrà sembrare rilevante un qualche computo di termini esterno da sé, che origina da altre e diverse esigenze. Imponderabili. Non le ore, non i giorni trascorsi a soffrire legato a un letto, ma il cambio di turno di infermieri e medici, l’orario di visita in reparto e persino il momento delle pulizie dei letti e dei locali, al mattino. Così, il riattivarsi della speranza di liberazione non è connesso a qualcosa che si dice o si compie, ma a fattori esterni, gesti di chi domina o comanda, comunque scanditi dai tempi del luogo, dell’istituzione che li accoglie annullandoli.
Bolaňo suggerisce questa irrazionalità avvincendola al mistero degli omicidi.E’ uno dei fulcri dell’incomprensibilità della strage compiuta dagli aguzzini nel deserto messicano. Il tirante narrativo della ricerca dei colpevoli non serve solo a tenere viva l’attenzione del lettore, ma getta a sua volta l’ombra dell’insondabile sulle ragioni di questi assassinii di donne; sopraffazioni efferate il cui simbolo resta sui corpi delle vittime e raggiunge il culmine proprio quando vengono ritrovate legate.
Il racconto, infine, restituisce un terzo elemento delle contenzioni che ognuno sa di dover temere. Ed è l’immagine di sé che si offre agli altri. Tutte le altre privazioni della libertà personale sono rese più sopportabili da un senso di dignità romantica, di ribellione, magari sghemba, ma pur sempre circondata da un’aura di rispetto ed eroismo irredento.
Tutte attenuazioni del dolore che si percepiscono, quando si torna dal periodo di isolamento, si esce da un luogo di detenzione, si viene liberati dall’oppressione e si racquista una quota di libertà. Allora i propri compagni di internamento, persino i controllori, avranno maturato una briciola di rispetto o di inconfessabile stima per un proprio simile che si è sottoposto a una sanzione più dura degli altri, in nome di un’idea, di una briciola di reazione umana, di una scelta etica di qualche tipo, quantomeno di un rischio che si è deciso di correre. Invece, per le contenzioni che affliggono la donna o l’uomo anziano o malato, o psichicamente sofferente, non è mai così.
L’umiliazione sta anche nel ritorno a una forma di libertà di poco più ampia, quando i legacci vengono sciolti, se si è finalmente svincolati dal letto, le cinghie aperte e le caviglie libere; ecco allora, si farà ritorno a uno stato, a una condizione in cui si viene riaccolti come degli umiliati, dei battuti, dei segnati marginali stritolati da un meccanismo che continua ad incombere e può tornare.
- I fungibili luoghi dell’oppressione: dall’ospedale psichiatrico alle “maquiladoras”
La sensibilità di Roberto Bolaňo per i luoghi dell’oppressione umana costituisce un tema continuo della sua opera. Si vorrebbe dire, quasi, uno dei nuclei cruciali della sua vita. Non a caso, nell’ultima intervista che potrà rilasciare, il Nostro si sofferma, ancora una volta, sull’istituzione manicomiale, e in qualche modo il lettore che gli è affezionato avverte che si sta chiudendo un cerchio.
Bolaňo chiarisce da dove origini questa sua sensibilità per le istituzioni della violenza: il manicomio, il carcere, infine, le maquiladoras. Tutto origina da una visione, da uno sguardo. E’la condivisione di un’esperienza suggerita dall’America Latina, dalle sue contraddizioni, dalle moltitudini umane concentrate in luoghi chiusi, in apparati di controllo. La stessa visione che fu di Roberto Sambonet e di Franco Basaglia. Eccola, dalla voce di Bolaňo in cui risuona la summa di una vita consacrata alle narrazioni, ispirata a una forma di irregolare e strenua resistenza contro i luoghi dell’esercizio del potere repressivo. Bolaňo torna a parlare retrospettivamente de “I detective selvaggi”, il romanzo degli inizi che, nel frattempo, ha riscosso un enorme successo.
“E il padre di Maria Font, Quim, che finisce in un manicomio e oltretutto non in una clinica privata, ma in un manicomio statale. E tu non hai idea di cosa sono i manicomi in Messico….spaventosi. Mi ricordo che lambivo quelle parti in autobus durante un periodo in cui lavoravo in un posto lì vicino, e l’autobus passava accanto a questo manicomio statale. C’era un’enorme rete metallica sormontata dal filo spinato, e i pazzi vagavano come nel film La notte dei morti viventi di George Romero.
Era impressionante, impressionante…Faccio fatica a descriverlo”([13]).
L’aggettivazione impiegata da Bolaňo, come al solito, non va sottovalutata. Evidenzia la natura pubblica del manicomio e l’enormità della rete metallica che cinge lo spazio di internamento. Dall’ottica del letterato cileno l’assurdità del luogo, dell’immagine, è amplificata dalla natura pubblica dell’istituzione. Sembra quasi che Egli critichi velatamente l’assenza di immaginazione di uno Stato che non riesce a prevedere nulla di diverso rispetto a quella sorte tragica che tocca ai “pazzi”. La vastità della rete, poi, allude a significati ricchi e determinanti. Bolaňo non è colpito soltanto dalla vastità del luogo, dalla massa dei reclusi in manicomio. Invece, è scosso dal simbolo di divisione tra chi è dentro e chi è fuori. La mastodontica linea divisoria tra i destini dei sommersi oppressi e quelli degli spettatori che, appunto, “passano di lì”.
Si intende che quella visione, l’episodio dello sguardo su quel confine, lo influenzerà per sempre.
Tratti comuni e minime differenze conuna traccia di racconto che qui vale appena rammentare. La offre Franco Basaglia ne “Le conferenze brasiliane”.
La visita al Centro hospitalarpsiquiátrico di Barbacena, nel 1979, ha sullo psichiatra veneziano “un impatto tanto violento da lasciarlo profondamente depresso. Basaglia, che doveva parlare di comunità terapeutica, arrivò alla sede del corso ma non voleva parlare. All’inizio ci fu un silenzio pesante e depressivo ma il pubblico lo incitava a parlare. Basaglia si mise allora a parlare della storia della psichiatria scandendo il suo discorso con frasi come “è necessario lottare dall’internodell’istituzione”. Parlando dell’epoca pre-pineliana, disse: “ci sono posti nel mondo in cui la storia si è fermata”, e “ci sono situazioni in cui è impossibile trovare soluzioni di compromesso perché se lo facciamo stiamo andando al compromesso con la morte, e con la morte non c’è compromesso possibile”. Basaglia, che in quei giorni aveva visto una situazione che lui stesso definiva “peggiore di un campo di concentramento”, commosse il pubblico. Aveva visto milleseicento persone rinchiuse in cortili lerci, sedute sulle proprie feci, nude e legate. Basaglia, ancora una volta, aveva visto la fame e la degradazione umana fabbricata dall’ospedale psichiatrico, aveva sentito i lamenti e le richieste di persone che non avevano altra speranza che la morte, e aveva sentito anche frasi gelide, come questa del direttore di Barbacena:
“Di fronte a un malato, su cui voi sapete che non hanno effetto néfarmaci né alcun altro trattamento, la soluzione è il metodo medievale: legarlo mani e piedi e lasciarlo marcire in una cella fino a quando non arriva un neurochirurgo che trasforma questa persona in un vegetale togliendogli volontà ed emozioni“([14]).
Lo stesso sgomento vissuto da Roberto Bolaňo, è quello percepito da Basaglia. E’ l’esperienza tangibile del gigantismo del manicomio brasiliano a gettare nello sconforto lo psichiatra, mentre, in Bolaňo, è la mastodontica dimensione della rete di separazione, percepita dal bus in movimento, a colpire l’immaginazione, a paralizzare –ma solo momentaneamente, come si è visto- l’abilità descrittiva.
- Roberto Bolaňo e Franco Basaglia: due visioni del grande internamento
Il tema del manicomio e della sua immagine ritornerà, infatti, in una poesia dello scrittore cileno pubblicata nel 2006. Quasi una visione anticipata, uno spicchio rivelatore dell’esigenza di andare a fondo, toccare con mano, superare la vista tragicamente possente, ma pur sempre passeggera, da quel finestrino d’autobus.
Ecco allora il finale della poesia intitolataDino Campana controlla l’autobiografia nel manicomio di Castel Pulci.
“Percorsi l’Argentina e tutta l’Europa nell’ora in cui tutti dormono e appaiono i fantasmi a guardia del sonno.
Ma proteggevano il sonno degli altri e non ho saputo decifrare i loro urgenti messaggi. Frammenti, forse sì, e per questo visitai i manicomi e le prigioni.
Frammenti, sillabe brucianti.
Non credevo alla posterità, benché talvolta credevo alla Chimera. Ero buono per la chimica, per la chimica pura”([15]).
E’il preludio dell’ultima e più amara consapevolezza.
I manicomi sembrano scomparsi dall’orizzonte, quasi non fossero più “capaci di “guardare le spalle” ai sistemi repressivi. E invece nel Messico percorso dai protagonisti di 2666, nella Ciudad Juarezribattezzata Santa Teresa, il manicomio c’è. Ma è nascosto. Si è mimetizzato e trasformato. Assume fattezze e nome di un altro luogo. Bolaňo, se possibile, colpisce più duro di sempre. Identifica la caratteristica camaleontica delle istituzioni totali. E il manicomio, ora, si è trasformato in maquiladora.Si è evoluto, camuffandosi.
E’ rinato, ed agisce sulla società in modo violento e surrettizio. Mentre si susseguono le morti strazianti di donne, le discariche adiacenti le maquiladoras, sono il luogo infernale dove si ritrovano i cadaveri.Nelle maquiladorassi assembla la merce con turni di lavoro disumani e tutto per pochi, miseri soldi. Si confezionano beni da vendere all’estero, su altri mercati. Si tratta di non luoghi, di meccanismi repressivi che incombono sui destini e attraggono i poveri e i marginali, proprio come il carcere e il manicomio vero e proprio.
5. Il subcontinente americano di ieri e l’odierna transizione italiana.
Le vittime dei delitti raccapriccianti descritti in 2666, non a caso, vivono e lavorano nell’area gravitazionale delle maquiladoras, autentiche incubatrici dell’orrore. Industrie, quindi, che poi le espellono, le ripudiano con la morte violenta e impietosa. D’altra parte, Bolaňo non mancherà di rendere esplicita e leggibile l’identificazione tra manicomio e altre strutture istituzionali escludenti che si insinuano nel tessuto umano, nel desolato panorama sociale del suo continente di origine.
Scriverà, infatti:
“L’America Latina è stata il manicomio d’Europa così come gli Stati Uniti ne sono stati la fabbrica. La fabbrica ora è in mano ai caposquadra, e i matti evasi dal manicomio ne sono la mano d’opera. Il manicomio, da più di sessant’anni, sta bruciando nel proprio olio, nel proprio grasso”([16]).
Dunque, alla fine, irrompe la lettura politica dell’ospedale psichiatrico; inteso come luogo di sopraffazione del dissenso, anche solo potenziale. Non stupisce, quindi, che nella sua letteratura, il manicomio incomba come potenziale conclusione di tutto, quale luogo dove si può cadere e finire e con cui i suoi personaggi sono in lotta costante. E ancora una volta, il rapporto tra istituzioni totali e logiche di morte, cui si contrappone la cultura dell’immaginazione e della liberazione, non potrebbe essere più vicina all’analisi dell’ultimo Basaglia, ancora quello delle “Conferenze brasiliane”:
“In una città come San Paolo, la prima cosa è che i tecnici capiscano la logica di morte dello Juqueri.
La nuova tecnica di gestione della follia potrà venir fuori solo dalla trasformazione dello Juqueri. Non si distrugge nulla trasportando le persone in altri manicomi o in altri luoghi. E’ una mistificazione, un’assurdità. La trasformazione avverrà quando, giorno dopo giorno, distruggeremo i meccanismi dell’istituzione. E questo deve accadere con la partecipazione della comunità. Non so quale tecnica servirà per la distruzione dei manicomi brasiliani. Ma non sarà né inglese, né francese, né italiana e tantomeno americana. Sarà una tecnica brasiliana. E’ di questo che il Brasile ha bisogno”([17]).
Il monito visionario di Basaglia e il messaggio nella bottiglia di Bolaňo. Entrambi convergono a ricordarci che le istituzioni totali si succedono, si alimentano reciprocamente, si sostituiscono una all’altra. E sia lo scrittore cileno che lo psichiatra veneziano continuano a predicare la risposta indispensabile, ad indicare l’antidoto contro i dispositivi di oppressione di massa. La sensibilità individuale, la fiducia verso l’altro, la cura degli stati di sofferenza, il sostegno solidale e la partecipazione comunitaria. Converrebbe lasciar vagare il pensiero liberamente su questi frammenti di pensiero lungo, mentre nella delicata primavera che viviamo si intraprende il superamento definitivo degli ospedali psichiatrici giudiziari, si celebra l’anniversario dell’entrata in vigore della legge n. 180 del 1978 e si deve tornare a puntare sui servizi territoriali, per evitare che le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza giungano subdolamente a monopolizzare ilpanorama dell’assistenza psichiatrica.
Roma, Maggio 2015.
([1]) R. Bolaňo, I detective selvaggi, ed. it. Palermo, 2009, 244.
([5]) La citazione più celebre di questo proverbio calabrese da parte di Franco Basaglia, si rinviene in S. Zavoli, “I giardini di Abele”, documentario girato nell’ospedale psichiatrico di Gorizia nel 1968, ora disponibile su You Tube. Da notare, per cogliere a fondo le insospettabili assonanze tra il pensiero di Basaglia e la narrativa di Bolaňo, che il primo premetteva alla citazione del lapidario proverbio riportato nel testo, la significativa affermazione: “Io conosco la psichiatria per i ricchi e la psichiatria per i poveri”.
([6]) R. Bolaňo, Op. cit., 481.
([10]) R. Bolaňo, La parte dei critici, in Id, 2666, Milano, 2007, 105.
([12]) R. Bolaňo, La parte dei delitti, in Id, 2666, Milano, 2007, 624.
([13]) R. Bolaňo, Intervista a Raul Schenardi: Io non ho mai avuto paura della morte, ora in Id, L’ultima intervista, Roma, 2012, 104 e 105
[14]M. G. Giannicchedda, Introduzione a F. Basaglia, Conferenze brasiliane, Milano, 2000, VII.
([15])R. Bolaño, Los perrosromnaticos, (tr. It., F. Marotta, I cani romantici), 2012.
([16]) R. Bolaño, I miti di Chtulhu, Il gaucho insostenibile, Palermo 2006, 170.