Cari bambini, care ragazze e ragazzi e cari detenuti,
vorrei nitrire prima di tutto con voi, perché mi avete commosso con il canto, la musica e le immagini di tanti altri cavalli che avete fatto nascere con le vostre mani, perché venissi accolto da tanti altri amichevoli nitriti.
Mi ha commosso la grazia dei canti dei ragazzini della scuola media sul piazzale dell’ospedale, dove ho cercato di far uscire i degenti del SPDC: non ci sono riuscito completamente, ma ho sentito parole importanti pronunciate dai direttori per abolire quella stupida e orrenda pratica della contenzione e con me le hanno sentite tutte le persone che mi stavano attorno. Insieme abbiamo deciso di vigilare.
Mi ha commosso la musica nel cuore della cultura della città, l’università bellissima e accogliente, accanto a un luogo che dovrebbe esserlo altrettanto se non ancora di più, il CPS (il centro di salute mentale), perché si apre a chi soffre nell’anima e non riesce a trovare pace. Qui, come sempre ovunque io vada, mi è toccato svelare l’invisibile, quello che senza accorgercene dimentichiamo: la vergogna di un luogo indignitoso, quasi un pezzo di città bombardata, senza presente e senza futuro. Storie di sofferenze, di privazioni, di violenze come quelle che ho visto e che ho vissuto e che porto dentro di me. E poi, l’impensabile, la liberazione! Una rivoluzione culturale, sociale e medica che ha cambiato il modo di rapportarsi alla salute mentale, alla malattia e alla cura. Per questo ho alzato forte il nome di Franco Basaglia, perché lo apprendessero i più giovani ma anche lo ricordassero coloro che l’hanno ingiustamente dimenticato.
Mi ha commosso la musica potente dei fiati sotto le finestre del carcere, perché anche i detenuti sentissero, con le note della banda; la mia presenza accanto a loro. E a loro vorrei dire che non sono soli: assieme a me ci stavano studenti e professori, uomini e donne, italiani e stranieri, operatori e cittadini, che si stanno impegnando perché le mura che chiudono il carcere al resto del mondo siano meno potenti, meno laceranti, più trasparenti. E cercano di costruire una città più solidale e una giustizia meno punitiva, capace di vedere l’uomo, sempre, anche in fondo al buco nero del crimine.
Vorrei che gli uomini lì rinchiusi sapessero che ho ascoltato i loro pensieri e i loro desideri. La possibilità del ritorno alla vita non muore mai.
Nitrisco ancora di gioia e di riconoscenza pensando a tutta la città che mi ha accolto festosamente: la musica della banda, le bandiere colorate, l’amico sui trampoli, il sole e la luna, tanti ragazzi e ragazze e tante persone, che non mi avevano mai conosciuto ma hanno ascoltato il mio richiamo e sono venuti, per accompagnarmi in corteo, o mi hanno sostenuto con il loro calore ai lati delle vie.
Con me ho portato il mio vento triestino che tanto amo, la bora: voi non l’avete udito, perché viaggiava racchiuso dentro i miei polmoni; ma ho parlato con i vostri venti di lago, che mi hanno assicurato di dire il mio nome quando soffieranno…Marco Cavallo… Marco Cavalloo…Marco Cavallooo… A Lecco, ma anche a Bellano, dove sono andato in un bellissimo pomeriggio di sole e ho visto il colore che tanto amo: l’azzurro del lago e quello del cielo e ho colto l’impegno degli operatori a far crescere l’indipendenza degli ospiti e a restituirli alla vita nel mondo di fuori.
E poi mi hanno raccontato di ospiti e di amici, che hanno riempito un pomeriggio di teatro, danza e musica, anzi musiche: e ho gioito anche se non ho potuto essere presente. E da ultimo un nitrito in tono maggiore di stima agli insegnanti e ai capi d’istituto, che hanno creduto in me, e a tutte le autorità che mi hanno accolto: in piazza al mio arrivo, al Sevizio psico-sociale, alla CRA di Bellano, in ospedale, al carcere, in sala consiliare: hanno ascoltato la mia voce e hannopromesso buone cose.
Questi miei nuovi amici sanno che gli impegni presi nei confronti delle persone, soprattutto se deboli e indifese, sono sacri e quindi si onorano; “pacta servanda sunt “ diceva un professore di latino che ho conosciuto a San Giovanni, in manicomio, e che aveva perso la testa nella sintassi. Ma i cittadini sanno che è importante esserci, controllare, impegnarsi e lottare perché i patti vengano rispettati e realizzati. L’esperienza mi dice che insieme si fanno accadere cose “da pazzi”. Il papa polacco, vi ricordate, con la sua voce possente tuonava: “ non si può vivere gli uni senza gli altri, gli uni, contro gli altri!”
Con Basaglia parlavo quasi ogni giorno, mi diceva che ragione e follia sono presenti in ciascuno di noi e che una società è civile quando sa accogliere al suo interno anche la follia.
Ho un solo rimpianto: non essere riuscito a entrare nel campo profughi, perchè altri muri oggi si stanno innalzando nelle nostre città, anche nella vostra, in mezzo a voi, muri terribili come quelli che avevo conosciuto dentro il manicomio di Trieste quando sono nato.
E anche qui tocca a voi restare umani (e cavallini!).
Ma è ora di tornare a Trieste. E, se avrete occasione di venire nella mia bella città, venite al San Giovanni a salutarmi: vi accompagnerò a vedere le nostre profumatissime cinquemila rose e a visitare i nostri centri di salute mentale aperti 24 ore su 24, 7 giorni su 7.
Con l’augurio che non sia più una novità neanche per voi, perché quando ci rivedremo, ne sono certo, tutte le porte di Lecco saranno aperte, gli artisti con le fasce e i letti di contenzione avranno costruito monumenti per non dimenticare, i centri di salute mentale saranno operosi e affollati come il mercato della domenica. E ognuno avrà conquistato il suo pezzo di azzurro e la sua storia più bella.
Marco Cavallo
Lecco 16 maggio 2016
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