di Erika Cei.
“Dino Tinta era nato con Marco Cavallo. Quando il cavallo acquistò la sua forma definitiva era enorme e bello. Tinta, tutti in reparto lo chiamavano per cognome, guardava affascinato ed incredulo. Nessuno osava toccare il cavallo, solo Vittorio lavorava ogni giorno per rifinirlo e Tinta era con lui a passargli gli strumenti. Nessuno, prima di allora, aveva mai conosciuto Tinta. Era rinchiuso nel reparto C, il reparto più brutto e orrendo del manicomio, esclusione nell’esclusione. Aveva venti anni, tutti passati negli istituti. Era nato alla fine dell’occupazione alleata, a Trieste. A malapena gli avevano insegnato a scrivere il suo nome e, malgrado i suoi occhi attenti e vivaci, era stato condannato ad essere un deficiente: istituto medico psicopedagogico, che era il reparto del manicomio per i bambini.
Durante i due mesi di festa intorno al cavallo anche il reparto C (il reparto cosiddetto “sudici”, n.d.r.), col suo carico di relitti, partecipava quotidianamente. Tinta desiderava avere un orologio, dormire nella pancia del cavallo e avere l’articolo quattro per poter uscire dal manicomio. Più che tutto un orologio, intanto, per poter, una volta uscito, tornare in orario. La pancia del cavallo era la pancia dei desideri e Tinta ebbe il suo orologio, dormì nella pancia del cavallo e fu libero. Dopo quei giorni di festa andò a vivere in un altro reparto. Fu tra i primi a lasciare il reparto C che presto venne chiuso e abbandonato.
Ogni giorno usciva. Andava a trovare sua mamma in una squallida e minuscola soffitta in Cittavecchia. Spesso, a casa, non trovava nessuno e allora girava senza meta per la città accontentandosi di guardare ogni cosa. Imparò presto a girare per ogni strada. In Piazza Grande si divertiva a rincorrere i colombi. Andava ai grandi magazzini Upim a vedere gli orologi. Spesso, la tentazione era troppo forte, cercava di prenderne uno e non aveva i soldi per pagare. Qualche volta cedeva alla tentazione. Tornava felice col suo orologio, gli occhi furbi. Trovava mille scuse per dare ad intendere che lo aveva comperato. Fabio e Francesca, due studenti volontari, erano spesso con lui, erano i suoi amici. Tinta era ospite frequente in casa di Fabio o di Francesca, passava molte ore con loro: era preferibile che non uscisse sempre da solo.
Un giorno, in un supermercato, rubò un uovo di Pasqua. Fu scoperto. Impaurito cercò di scappare, di divincolarsi, fece cadere una commessa, chiamarono la polizia. Fu denunciato. Perizia psichiatrica, manicomio giudiziario. Tinta, lontano da Trieste, non poteva più uscire, di nuovo chiuso, senza più orologi. Tinta si comportò molto bene e, dopo otto mesi, il giudice del manicomio giudiziario di Castiglione delle Stiviere disse che poteva ritornare a Trieste. Tinta tornò e, più felice che mai, ricominciò ad uscire. Questa volta cercava di essere attento e giudizioso.
Tre anni dopo, il giorno di Santo Stefano mentre allegro come al solito, andava a casa da sua madre, un grosso camion lo ha investito.”
(cit. da Non ho l’arma che uccide il leone, Peppe dell’Acqua, pp. 193-194)
La storia di Tinta mi commosse profondamente, quando la lessi la prima volta e, ciò che importa soprattutto, colpì profondamente i ragazzi di una terza classe di saldocarpentieri dell’istituto professionale in cui lavoravo, ai quali avevo fatto precedentemente vedere “C’era una volta la città dei matti”. Entusiasti del film, adolescenti albanesi, kosovari, macedoni, ucraini e italiani (così era composta la classe) avevano voluto saperne di più e di quel “medico che aveva chiuso i manicomi” ma, soprattutto, dei “matti”, con i quali, non esagero, erano riusciti a identificarsi. Tinta compreso.
E quella di Tinta è solo una delle innumerevoli storie di “matti” che Peppe Dell’Acqua narra nel suo “Non ho l’arma che uccide il leone”, uscito nel 2014, nella sua terza edizione, per la Collana 180, Edizioni alpha beta Verlag, Merano. “L’epopea garibaldina dei matti“, come l’autore stesso, al termine del volume, definisce il suo racconto, si snoda fra il 1973 e il 1979 e raccoglie non solo le sue notazioni e narrazioni in terza persona, bensì anche testimonianze dirette di “matti”, articoli di giornale, cartelle cliniche di pazienti, come B., “affetta da un gravissimo handicap neurologico e psichico, ricoverata in un istituto già a tre anni e trasferita in manicomio… all’età di quattordici, nel 1963” (op. cit. pag. 59)
Ieri, 10 ottobre 2014, il volume è stato presentato presso lo spazio Villas dell’ex ospedale psichiatrico di Trieste, o Parco culturale di San Giovanni, come preferisce chiamarlo la Presidente della Provincia di Trieste, Marina Bassa Poropat, presente all’evento, che ha sottolineato la necessità di “cose belle”. Non si può certo darle torto e l’evento di ieri sera fa indubbiamente parte di queste “cose belle”.
Presentato da Massimo Cirri, voce nota agli appassionati di Radio, in quanto conduttore di Caterpillar di Rai Radio 2, l’evento ha riscosso un enorme successo di pubblico ed ha visto protagonisti numerosi esponenti del mondo politico, economico, giudiziario, culturale, oltre che della psichiatria (presenti i direttori dei quattro DSM del Friuli Venezia Giulia) che si sono susseguiti nella narrazione di alcune delle storie raccolte nel volume di Dell’Acqua.
Ma oltre all’evento in sé, fa soprattutto parte delle “cose belle” la rivoluzione che ha avuto luogo a Trieste tra il 1971 e il 1978, che ha poi portato alla chiusura dei manicomi in tutta Italia (e non solo). Una rivoluzione di cui i triestini dovrebbero andare orgogliosi perché ha avuto luogo proprio a Trieste e perché proprio a Trieste, città da almeno seicento anni abituata alla diversità, ha trovato il terreno fertile per avere luogo, smentendo con i fatti quel mito locale, purtroppo tuttora in auge, del “no se pol” (non si può) e quell’altro mito, sempre più in auge un po’ dappertutto, che vorrebbe tutti gli esseri umani omologati ad un unico e identico standard etnico-linguistico-nazionale-comportamentale-etico-cognitivo-culturale-esistenziale.
Di qui l’invito a leggere il libro di Dell’Acqua, che con una scrittura semplice, a misura d’uomo, riesce a condurre il lettore tra le storie, spesso tragiche, protagoniste di quella rivoluzione che ha determinato una svolta epocale, la chiusura dei manicomi, ma che non è ancora giunta a conclusione: ospedali psichiatrici giudiziari in Italia, manicomi tuttora esistenti in molte parti del mondo ne sono i più tragici degli esempi.
Trieste, 11 ottobre 2014
(dal Blog dell’autrice: http://photofrasando.blogspot.it/2014/10/lepopea-garibaldina-dei-matti-di-trieste.html)