Intervento di Annarita Venuti a nome di tutte le associazioni del Friuli Venezia-Giulia in preparazione della conferenza del Coordinamento Nazionale salute mentale che si terrà a Roma il 6 e 7 dicembre prossimi.

Buongiorno e ben ritrovate e ritrovati da parte di tutte le Associazioni dei familiari organizzatrici di questo evento.

Sono passati 5 anni dall’ultima conferenza regionale del 2019 qui al Centro Balducci di Zugliano, Udine, in cui, da un dibattito propositivo e da testimonianze forti e piene di speranza, nell’intero territorio regionale era emerso un diverso grado di realizzazione e di organizzazione dei servizi, nonché delle pratiche di recovery. Al contempo ci rendevamo conto che il percorso verso un maggiore e più uniforme sviluppo dei servizi sarebbe stato costellato da difficoltà e carenze di vario genere (finanziarie e di personale in primis). E soprattutto dal cambiamento politico che già cominciava a dare i suoi segni.

Tante cose sono successe in 5 anni, tante non le avremmo potute immaginare: la pandemia, il crescente disagio nelle persone, in particolare nei più giovani, il veloce incremento della privatizzazione della sanità a scapito di quella pubblica…

Paradossalmente la pandemia ci aveva addirittura convinti che le cose sarebbero dovute per forza andare in meglio nel servizio sanitario pubblico rimediando così alle falle emerse… Ma a distanza di 5 anni non possiamo che registrare l’assenza di una visione politica etica ed egualitaria, che ha come triste conseguenza la povertà soprattutto sociale, morale e culturale. Il disagio psichico non ha potuto che aumentare, soprattutto nella popolazione giovanile, in quella a basso reddito e con scarse opportunità di scolarizzazione e di lavoro. Senza contare che la crescente e fomentata paura del diverso, compreso quindi del “malato di mente”, ha contribuito a far crescere ulteriori muri all’interno della società. In questo tessuto sociale, la salute pubblica è un bene prezioso da difendere perché per un numero sempre maggiore di persone rappresenta l’unica possibilità di avere una cura che diversamente non potrebbero permettersi. La cura della salute mentale deve essere pubblica perché la sofferenza e il disagio delle persone che vivono l’esperienza del disturbo mentale va affrontato in modo complesso, coordinato e continuato; richiede un’azione temporale spesso di lungo termine e pertanto richiede che i servizi possano garantire una presa in carico della persona, del suo progetto di ripresa, di ascolto e di risposta ai bisogni radicati.

Rispetto a 5 anni fa abbiamo assistito ad un depotenziamento di vario grado dei Centri di salute mentale e dei tre Dipartimenti che si traduce in:

-una riduzione di orario di apertura (a Trieste il Csm di Via Gambini è ancora sulle 12 ore, a Udine due Csm – Codroipo e Tarcento – sono passati dalle 12 alle 8 ore; a Pordenone il Csm di Spilimbergo è passato dalle 12 alle 8 ore);

– una riduzione del personale in servizio;

– una mancanza di un Responsabile per ogni Csm e frequenti cambi di personale.

Assistiamo un po’ ovunque allo spostamento della pratica e della cultura del lavoro d’équipe e della presa in carico verso la prestazione, la divisione delle professionalità, la perdita di prossimità.

Il tempo e lo spazio per l’incontro, l’ascolto e la relazione stanno sempre più rarefacendosi: si tratta dei passi fondamentali per affiancare la crisi e per il recupero della soggettività dopo una crisi; il sostegno nella e della relazione sono dei passaggi sempre più marginali nella pratica di tutti ii servizi, venendo privilegiata la funzione di distribuzione farmacologica; anche negli spazi gestiti dal privato sociale il tempo dedicato è sempre meno, a causa dei tagli operati negli appalti (si registrano tagli ai progetti personalizzati, anche molto importanti in alcuni Csm, nonché tagli alle varie attività svolte dalle cooperative e conseguenti tagli di posti di operatori sociali; ci chiediamo a tal proposito se un diverso bilanciamento dei 3 assi – abitativo, lavorativo e sociale – potrebbe rendere più efficienti le risorse impiegate);

Mancano gli spazi di dibattito, di confronto: il silenzio degli operatori ci colpisce, è un silenzio fatto di rassegnazione, di scoraggiamento, di solitudine e di incomprensione; è un silenzio che non può essere tralasciato, soprattutto se si pensa al loro impegno e dedizione mai venuti meno. Sappiamo che patiscono la stanchezza per il carico di lavoro, la disinformazione, la mancanza di partecipazione alle scelte delle direzioni aziendali e dipartimentali.

Meno Csm FORTI aperti all’accoglienza 24 ore, meno personale, meno reti di servizi, meno progetti personalizzati, meno prevenzione: tutto questo si collega all’aumento dei Tso. Nella nostra regione, seppure con diversi gradi di intensità, si registra, nell’ultimo quinquennio, un aumento dei Tso, indicatore indiretto della scarsa efficacia dei programmi preventivi, terapeutici e riabilitativi. Un aumento dei Tso espone più facilmente a trattamenti farmacologici fortemente sedativi e implica il rischio di pratiche di contenzione fisica. A questo proposito ricordiamo un caso registrato dai giornali locali lo scorso giugno, quando un paziente ricoverato in Tso in un Spdc della regione è morto: di tutta questa vicenda ci è rimasto soltanto l’articolo sulla stampa locale segnato da un forte pregiudizio per cui la sofferenza psichica è uguale a pericolosità sociale; lo stesso pregiudizio che viene veicolato ogni qual volta queste vicende balzano agli onori della cronaca…

Questo progressivo smantellamento dei servizi comporta una minore efficacia delle cure; nella nostra Regione, dove la legge 180 è stata concepita e realizzata in modo più intenso e coerente rispetto al resto d’Italia, non possiamo accettare che la cura della salute mentale si livelli verso il basso della media nazionale. Godiamo ancora di un relativo vantaggio, ma se si considera che in termini di costo medio pro capite, il FVG è al di sotto di un -1,30% rispetto dato medio dei 67,50 euro a persona, possiamo ancora sperare in un miglioramento visto che la Toscana investe il 21,2% in più… Precisiamo che il bilancio destina alla salute mentale solo il 2,7% dell’intera spesa sanitaria, quando dovrebbe essere il 5% (in altri Paesi d’Europa si raggiunge il 10% e anche il 14%). Di fronte ad una crisi che investe la rete dei servizi sociali e il disagio crescente, soprattutto nella popolazione giovanile con bisogni di ascolto e di sostegno nuovi e diversi rispetto al passato, non possiamo accettare che ci venga detto che i fondi stanziati sono sempre gli stessi e che non sono stati effettuati tagli: se, a fronte di un incremento della domanda, i fondi non sono aumentati, ciò può soltanto significare che sono di fatto più carenti; se il disagio aumenta, anche gli investimenti devono trovare un adeguato incremento.

 

L’incremento della domanda a fronte di una riduzione del personale implica necessariamente un calo della qualità dei servizi, una minore efficacia degli interventi che devono necessariamente riguardare tutti gli aspetti della vita e non ridursi alla mera somministrazione di medicine.

La mancanza di personale e di tempo da dedicare alla cura si traduce anche nella mancata formazione e trasmissione agli operatori più giovani delle competenze acquisite negli anni, preziosissime se si vuole continuare nell’attuazione della legge 180. Gli operatori con maggiore esperienza sono i veri depositari dell’eredità di Basaglia. Ma il loro valore esperienziale maturato viene frustrato, anche perché spesso si trovano a lavorare a scavalco su due sedi o con frequenti cambi di colleghi o colleghi ingaggiati per brevi periodi. Ciò ovviamente ha ricadute importanti nella continuità di cura delle persone fragili che, proprio in quanto tali, trovano nell’instabilità e discontinuità causa di squilibrio ed occasione e nuova possibilità di crisi.

La pratica quotidiana di cura si garantisce soltanto con un servizio pubblico forte e di prossimità, che non delega a cooperative e a enti del terzo settore di buona volontà le responsabilità che sono prerogative e competenze proprie di un vero servizio di salute mentale pubblico. Anche perché se il servizio pubblico non è forte ed efficace, il rischio è anche un altro, forse anche voluto da una certa politica: il ricorso a cliniche private a scapito dell’accesso diretto al servizio pubblico. Già al giorno d’oggi siamo a conoscenza del numeroso ricorso a strutture private nel vicino Veneto (che per la salute mentale pubblica spende un – 24% rispetto alla media nazionale); purtroppo non siamo in possesso di dati sul numero di accessi dalla nostra Regione e la durata dei ricoveri. Con il triste retropensiero che ormai un disagio mentale è trattato alla stessa stregua di un ginocchio da rifare o di una miopia da correggere… Non abbiamo dati nemmeno sul numero degli accessi diretti in PS per problematiche psichiatriche (quest’ultimo dato rappresenta un indicatore del grado di accessibilità dei Centri di salute mentale).

Alla luce di quanto appena detto abbiamo deciso di trovarci 5 anni dopo la prima conferenza regionale

  • PER sostenere rivendicazioni chiare, 
  • PER affermare il diritto alla tutela della salute mentale e alle cure, in primis in nome delle persone con disagio mentale, 
  • PER costruire alleanze e strategie di promozione dei diritti, 
  • PER riportare speranza e ricondurre all’ottimismo delle pratiche reali di cura.

Ricordiamo che l’OMS da anni promuove la salute mentale globale perché le questioni di salute mentale si integrano alle grandi questioni di salute globale e di sviluppo. Non c’è sviluppo ma soprattutto non c’è benessere se la salute mentale non c’è o non è sufficientemente garantita. 

Chiudiamo con delle note positive: nell’ultimo anno a Udine si è lavorato per la costituzione di un Comitato di partecipazione; a Trieste l’esperienza del Comitato di partecipazione era già stata avviata in precedenza e ci auguriamo torni ad essere nuovamente valorizzata a seguito del cambio del Direttore di Dipartimento; confidiamo che anche Pordenone accolga la proposta già avanzata dalle associazioni e che dal lavoro di questi organismi possano nascere nuove idee e progetti (ad esempio nella coprogrammazione e coprogettazione). Ringraziamo infine i Csm che dopo il COVID hanno ripreso i preziosi incontri periodici con i familiari e quelli che stanno lavorando per riprenderli. Confidiamo che siano di buon esempio per gli altri Csm.

Cosa chiediamo ai Dipartimenti?

Chiediamo il ripristino degli orari di apertura diminuiti negli ultimi 5 anni; chiediamo la conferma che la strada di programmazione avviata non sia quella di un cambiamento culturale organizzativo che metta in crisi la prossimità degli interventi e della presa in carico ma che, piuttosto, sia quella che la legge 180 aveva già tracciato e che in buona parte era stata percorsa; ossia che l’integrazione sociale, sanitaria, lavorativa e abitativa debba passare necessariamente attraverso un CENTRO DI SALUTE MENTALE FORTE, capace di svolgere la funzione di regia dei percorsi personalizzati di salute. Questo di concerto con tutti i portatori di interesse, ognuno nel rispetto del proprio ruolo e delle proprie competenze.

Chiediamo di preservare, attraverso momenti di studio, di ascolto e confronto aperto e costante anche tra operatori, persone con esperienza, caregivers dei tre dipartimenti, il prezioso know-how del personale acquisito negli anni, che inevitabilmente rischia di disperdersi con l’attuale regressione della cura quotidiana; è una preziosa risorsa per il processo di continuo “rimodellamento” delle pratiche alla luce dei nuovi bisogni, espressi soprattutto dai giovani, che sono il nostro futuro. Proprio per loro chiediamo un impegno comune e coordinato anche con i servizi di Neuropsichiatria infantile, il dipartimento delle dipendenze, il Centro per i disturbi del Comportamento Alimentare ed i servizi sociali. 

Chiediamo risorse adeguate al funzionamento dei Centri di salute mentale così come li abbiamo sperimentati in passato per esperienza diretta, che consentano anche di recuperare tante buone pratiche interrotte dal Covid e mai riattivate. E vogliamo essere coinvolti sulle scelte organizzative che le direzioni aziendali e dipartimentali intendono fare.

Non serve cambiare la legge 180; basta solo tenerla viva e alimentarla con risorse e con percorsi formativi e partecipativi adeguati. Gli ultimi 40 anni di legge 180 e legge 833 ci hanno permesso di capire cosa non vogliamo assolutamente perdere: un servizio sanitario pubblico, universalistico, gratuito e frutto del contributo di tutti i cittadini, che consenta di gettare nuovamente le basi per un futuro degno di tale nome.