Nella terminologia medica e infermieristica, e in psichiatria, si parla di contenzione fisica o meccanica per definire l’immobilità totale o parziale di una persona in cura, attraverso l’uso di cinghie, lacci, fascette, spallacci, cinture, polsini, corpetti, sedie di contenzione o altri mezzi, più o meno sofisticati.Merita sottolineare che la contenzione fisica è stata abolita e vietata nel carcere dalla riforma penitenziaria1. Altrettanto avrebbe dovuto accadere in Opg, ma non accadde, e ora nelle Rems, e certamente, non avrebbe dovuto essere neanche immaginata nei Servizi psichiatrici di diagnosi e cura.
Bisognerebbe sempre ricordare che l’assistenza sanitaria per le persone con disturbo mentale è regolamentata da una legge dello Stato ispirata massimamente alla Costituzione. Non trovo nei documenti della regione Lombardia che ho potuto consultare sia riportata una qualsivoglia attenzione in ordine al tema della contenzione e delle porte chiuse. La contenzione non viene vietata anzi viene regolamentata e di fatto proposta come un atto necessario e perché no, terapeutico. Ma tante altre regioni non fanno di meglio. Èche qualcuno denunci il ricorso così frequente alla contenzione in quasi tutti i luoghi della psichiatria.La possibilità di una diversa organizzazione dei servizi e delle pratiche, proprio in rapporto alla contenzione, ha determinato attenzione da parte di alcuni Governi regionali, pochi, e del Comitato nazionale di bioetica (Vedi il documento che pubblichiamo più avanti). Anche la Conferenza Stato Regioni nel 2010 aveva licenziato un documento2che il Governo ha fatto proprio con la finalità di indicare strategie omogenee perché tutte le Regioni si ponessero l’obiettivo della riduzione massiccia del ricorso alla contenzione, fino alla sua abolizione. Poco è accaduto negli anni successivi.
Un rapporto del Comitato Europeo per la prevenzione della tortura, delle pene e dei trattamenti inumani e degradanti su i Reparti Psichiatrici in Italia, del 2006, dedica larga parte alle misure di contenzione negli istituti psichiatrici per adulti: “Il potenziale di abusi e di maltrattamenti che l’uso dei mezzi di contenzione comporta, resta fonte di particolare preoccupazione per il Comitato. Purtroppo sembra che in molti degli istituti visitati vi sia un eccessivo ricorso ai mezzi di contenzione … la creazione e il mantenimento di buone condizioni di vita per i pazienti, così come un buon clima terapeutico, presuppone l’assenza di aggressività e di violenza … Il rapporto denuncia come stigmatizzante l’uso della contenzione come punizione e/o come intervento pedagogico … (il Comitato) considera che non esistono ragioni, né la mancanza di personale né la particolare condizione del paziente, che giustifichino il ricorso alla contenzione”. E’ un documento estremamente pragmatico che suggerisce come regola generale il ricorso alla contenzione solo come estrema misura di ultima istanza, per tempi brevissimi, che definisce come strettamente necessari, a operare per introdurre una terapia farmacologica o a evitare, in quel momento, danni per la persona o per terzi. Serve ancora sottolineare che il documento vuole enfatizzare le conseguenze di questo trattamento sulla persona. E’ noto e dimostrato da numerosi studi che l’esperienza della contenzione produce sentimenti di cupezza, di violenza e confusione nel paziente.
Il documento afferma che la contenzione per un periodo superiore a quello strettamente necessario, che deve essere brevissimo (si parla di minuti), è considerato un maltrattamento. In ogni caso le pratiche di contenzione non possono far parte dei dispositivi ordinari di cura e devono essere considerati interventi di grande straordinarietà, che possono essere conseguenza di uno stato di necessità che andrebbe prima di tutto evidenziato e segnalato e che andrebbe prevenuto adeguando le condizioni assistenziali, sviluppando speciali strategie per far fronte a situazioni di acuzie.
A giustificare il ricorso a questo tipo di intervento si invoca, di solito più o meno coerentemente, lo stato di necessità: l’articolo 54 del c.p.3
Il ricorso all’art. 54 è considerato da molti un corretto discrimine e tuttavia, anche quando correttamente citato, rischia di favorire comportamenti illeciti e, alla fine, lesivi e dannosi per le persone.
In ogni caso lo stato di necessità dovrebbe esaurirsi nell’arco di un tempo brevissimo.
[1] L. 354/75, all’art. 41 prevede in casi eccezionali l’impiego della forza fisica e l’uso dei mezzi di coercizione per “prevenire o impedire atti di violenza, per impedire tentativi di evasione o per vincere la resistenza, anche passiva, all’esecuzione degli ordini impartiti … Non può essere usato alcun mezzo di coercizione fisica che non sia espressamente previsto dal regolamento e, comunque, non vi si può fare ricorso a fini disciplinari …”
[2]Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome, 10/081/Cr07/C7: Contenzione Fisica in Psichiatria: una strategia possibile di prevenzione, 29.07.2010
[3] L’art. 54 c.p. o Stato di Necessità: “non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo”