Da tempo si coglie nel nostro Paese una diffusa e profonda preoccupazione per lo stato dei Servizi di salute mentale. Sono le associazioni dei familiari e delle persone che vivono l’esperienza a denunciare, a chiedere attenzioni maggiori e diverse, risposte concrete, più certe e durature. Operatori professionali, cooperatori sociali, cittadini attivi si aggregano alla denuncia evidenziando l’urgenza del cambiamento.
Non è raro che i mezzi di comunicazione segnalino la qualità frammentaria dei percorsi di cura, le pratiche segreganti e contenitive, il ritorno prepotente di servizi fondati sul modello bio-farmacologico. Ancora, non di rado, si scoprono, nelle regioni del nord come in quelle del sud, luoghi di abbandono e violenza che diventano oggetto dell’intervento della magistratura. Si registra da tempo una diffusa disattenzione alle politiche innovative.
L’impoverimento progressivo dei servizi e dei sistemi di welfare mette ormai a grave rischio le possibilità di cura, di ripresa, di guarigione di tanti cittadini che oggi sarebbero alla nostra portata. Parliamo qui non più, come spesso si finisce per lasciare intendere, del vecchio internato, del grigiore di immagini, risalenti agli anni sessanta e settanta, che pure siamo riusciti a lasciarci alle spalle. Stiamo pensando, e non senza una tormentata partecipazione, alle ragazze e ai ragazzi, ai giovani adulti che per la prima volta si trovano a vivere l’esperienza del disturbo mentale severo. Un’esperienza, questa, di per sé drammaticissima, che rischia di subire l’impatto con interventi inadeguati, spesso violenti e disabilitanti con la conseguenza di costringere il/la giovane e la sua famiglia a entrare in un labirinto senza vie d’uscita.
Possibilità di accoglienza “gentile”, di “buona” cura, di prospettive “ottimistiche” e di ripresa più efficaci sono realizzabili ovunque, ma è con estrema disomogeneità che vengono praticate. Nella maggior parte delle regioni il rischio di “cattive” pratiche resta ancora molto elevato.
(1- continua)