Malgrado la frammentarietà e la scarsità di studi valutativi, l’insufficienza di strumenti di verifica e di vigilanza e la disattenzione dei Ministeri, delle Regioni e delle Aziende che si sono succeduti, una descrizione qualitativa e quantitativa del sistema salute mentale è oggi comunque possibile (vedi il rapporto della Siep). Bisogna riferirsi a quanto prodotto dal Ministero della salute, occorre ripeterlo, in maniera discontinua e disorganica, dalle ricerche dell’Istituto superiore di sanità, dalle società scientifiche e, ancora, dai rapporti descrittivi annuali delle singole Regioni relativi all’allocazione delle risorse, alla quantità degli operatori sul campo, ai profili professionali, alla sensata distribuzione nel territorio, alla disposizione strategica dei servizi, alla presenza del privato sociale e del privato mercantile.
Un contributo empirico, che viene dall’esperienza immediata e dalla pratica giunge dall’ascolto attento delle persone con l’esperienza diretta e dei loro familiari. Non di rado, le associazioni hanno prodotto rapporti preziosissimi. Non trascurabile, e anzi fondamentale per ricostruire una piattaforma basata sul riconoscimento della singolarità, della dignità e del diritto delle persone è la risoluzione del febbraio 2000, adottata dal Comitato nazionale di bioetica (vedi link). Essa insiste sulla presenza sempre unica della persona in tutti i passaggi del percorso di cura. Non si deve omettere di citare, peraltro, la più recente risoluzione del Cnb del maggio 2015 (vedi link), relativa alla questione giuridica della contenzione biomeccanica, di cui finalmente si comincia a cogliere il profilo di illiceità assoluta. Il rapporto finale della Commissione parlamentare già citata, adottato nel 2013, fu frutto di numerose visite ai Dipartimenti di salute mentale, di audizioni di operatori, di familiari, di amministratori; quel rapporto permette di entrare nel merito di una valutazione critica dello stato dell’intera rete dei servizi.
I Dipartimenti di salute mentale (Dsm) presenti nelle Regioni vanno diminuendo di numero, in ragione di accorpamenti di più aree territoriali conseguenti a programmi di “razionalizzazione” e di contenimento delle risorse, peraltro già al limite della sufficienza. L’estensione talvolta spropositata del bacino di utenza (in alcune Regioni fino a 2 milioni di abitanti) crea vere e proprie impossibilità di governo, tradendo la dimensione della “piccola scala”, uno dei principi fondativi della riforma del 1978 e del lavoro territoriale.
Questo “gigantismo istituzionale”, come lo si è chiamato, molto sottrae alle opportunità di cura e la presenza di programmi riabilitativi ben strutturati spesso diviene miraggio. Talora, i dipartimenti non riescono efficacemente a uniformare l’offerta di cure e di servizi all’interno del loro bacino di riferimento.
La recente chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) ha ribadito l’esclusività e la centralità della presenza strategica dei Dsm; ha però evidenziato drammaticamente le differenze: la presa in carico delle persone in uscita dall’internamento ha sopportato ritardi e spesso soluzioni che attendono di essere ulteriormente riconsiderate (vedi articolo di Pellegrini).
In questo speciale frangente, la presenza di una struttura organizzativa “forte”, ben motivata e strategicamente presente sul territorio, ha fatto la differenza, dimostrando quanto siano aggredibili anche le scommesse più ardue e quanto la cura, la ripresa e una vita dignitosa siano possibili per tutte le persone che vivono le diverse condizioni del disagio mentale. Più di una persona su 100 è affetta da un disturbo mentale severo a rischio di disabilità e di marginalità sociale. Quasi un milione di persone, che si triplicano se si considerano i familiari e le persone più vicine coinvolte, con disturbi mentali severi sempre a rischio di cronicizzazione e di deriva sociale sono il nocciolo duro di una scommessa sicuramente oggi alla nostra portata.
(continua)