Il Giorno della Memoria invita a riflettere sulle psichiatrie che si sono succedute nel corso degli ultimo due secoli nelle Università e nei manicomi.
Non riuscendo a utilizzare parole più intense di quelle di Eugenio Borgna che, nel discutere delle conseguenze delle scelte di campo e dei modelli nel lavoro che facciamo e nell’interrogarsi sul senso della malattia e dell’esperienza psicotica, non può non riattraversare dolorosamente i tragici eventi dell’olocausto che oggi Marco Paolini ripropone con la sua ricerca coraggiosa.
Da “Come se finisse il mondo – il senso dell’esperienza schizofrenica” di Eugenio Borgna (Feltrinelli ed., 1995):
Le conseguenze catastrofali di una diagnosi
[…] Al di là della loro radicale problematicità, la concezione biologica (“organicistica”) e quella sociologica della schizofrenia si sono accompagnate storicamente a conseguenze pratiche molto diverse. La “riduzione” dell’esperienza psicotica a semplice (fatale) evenienza lesionale delle strutture encefaliche si è venuta costituendo, in determinate epoche storiche, come una delle condizioni che hanno condotto alla negazione di senso delle realtà psicotiche e dell’emarginazione (alla separazione istituzionale) dei pazienti psicotici. La “riduzione” sociologica delle esperienze psicotiche (concettualmente inaccettabile) ha trascinato con sé confusioni metodologiche arrischiate e precarie ma si è nondimeno accompagnata a una trasformazione profonda delle strutture istituzionali e, cosa ugualmente significativa, a una drastica modificazione dell’immagine interiore e pubblica dell’esperienza psicotica (schizofrenica): riscattata, in ogni caso, dall’insignificanza e dall’anarchia a cui essa è stata, e continua a essere in molte aree ideologiche, condannata.
[…] La memoria storica consente di constatare come, in vicino; sia stata la psichiatria (in Germanta) a offrire al potere politco indicazioni apparentemente scientifiche perche si negasse ogni valore alla forma di vita psicotica. Come ha sostenuto con parole spietate e sferzanti Alexander Mitscherlich: “Del resto non siamo stati forse testimoni dell’atroce sodalizio fra autorevoli psichiatri e l’opinione pubblica del nostro paese negli anni in cui questi malati furono condannati allo sterminio di massa sotto il termine ingannevole di ‘eutanasia’?”.
Nel 1920 usciva in Germania un libro di K. Binding e A. Hoche che insegnavano, il primo, diritto penale all’Università di Lipsia e, il secondo, clinica psichiatrica all’Università di Friburgo; nel contesto del quale si affermava che la vita dei pazienti psicotici (schizofrenici) degenti in ospedale psichiatrico fosse una vita non degna di essere vissuta. Le terribili e inumane parole di Binding dicevano: Non c’è dubbio
alcuno che negli ospedali psichiatrici ci siano persone (ancora) viventi la cui morte rappresenta, per loro, la redenzione e, per la società e lo stato, una liberazione”; e quelle, ancora più terrificanti e spaventose, di Hoche definivano queste persone “gusci umani totalmente vuoti”: fino all’affermazione che la loro eliminazione (la loro uccisione) non costituiva “alcun crimine ma, anzi, un atto medico consentito e lecito”. Certo: Hoche considerava i pazienti psicotici con una lunga storia di malattia come persone perdute: non solo in-guaribili ma indegne di vivere.
La contrapposizione, scientificamente insostenibile, fra pazienti curabili (quelli acuti) e pazienti in-curabili (quelli cronici: assistiti, in Germania, negli ospedali psichiatrici a differenza dei primi, curati nelle cliniche psichiatriche universitarie) ha trascinato la psichiatria, come dice Hildburg Kindt, ad allearsi con il potere politico nazionalsocialista: che ha trasformato la ideologia psichiatrica (l’espressione distorta e crudele di idee) in realtà spietata e annientatrice. Le idee contenute nelle definizioni di “in-guaribilità” e di “in-degnità di vivere” hanno fatto considerare l”utilità”, e non la donazione di senso, come criterio assoluto del valore di una vita; e, così, nella perversione dell’agire medico, trionfalizzata nel libro di Binding e Hoche, ci sono state le radici perché l’uccisione di una vita in-degna di essere vissuta si trasformasse in “redenzione” da una condizione clinica di “inguaribilità” e da una condizione umana di insignificanza. Come dice ancora Hildburg Kindt, alla base di queste tesi e di queste azioni terrificanti non c’è stato se non il riferimento ideologico a ciò che accade nell’organismo naturale: il sacrificio, cioè, delle parti divenute senza valore, o nocive.
(Certo, sono lontani i tempi nei quali queste cose sono state espresse e sono avvenute; ma la riflessione su di esse non è estranea ai fini di un discorso sulle diserzioni ideologiche, sempre in agguato, della psichiatria.)
Il senso della vita
L’utilità (la “produttività”) come criterio di discriminazione assoluta fra una vita degna di essere vissuta e una vita non degna di essere vissuta, e la negazione di ogni vita spirituale in un’esistenza schizofrenica che si estenda nel tempo, si sono configurate come i paradigmi che hanno consentito alla psichiatria (a una certa psichiatria) e al potere politico tedesco (nazionalsocialista) di considerare lecita, e poi di realizzare, la dimissione forzata dei pazienti con diagnosi di schizofrenia (cronica) dagli ospedali psichiatrici e la loro uccisione.
Da un libro bellissimo e inquietantedi Bernhard Pauleikhoff mi è possibile stralciare alcuni brani dello straordinario discorso che, su questi eventi terribili, ha tenuto il 3 agosto 1941 il vescovo di Mùnster, Clemens August von Galen, in una chiesa della città. (Come conseguenza di questo discorso sarebbe stata interrotta, almeno nei suoi aspetti più evidenti, la deportazione e l’uccisione dei pazienti.) Sono parole che non hanno perduto nulla della loro attualità e della loro alta (sfolgorante) significazione umana ed etica.
“Allora noi dobbiamo pensare che i malati, poveri e indifesi, siano a breve o a lungo termine, uccisi. Perché? Non perché abbiano commesso un delitto degno della morte, non perché abbiano aggredito i loro infermieri così che non si poteva fare altro, per mantenere questi in vita, se non contrapporre (in stato di necessità) violenza a violenza”; e, cogliendo il senso lacerante della cosa, ancora: “No, non per queste ragioni questi infelici malati devono morire ma perché, a giudizio di qualche ufficio o stando alla perizia di una qualche commissione, sono divenuti ‘indegni di vivere’: appartengono al ‘popolo improduttivo’. Si faccia attenzione: essi non possono più produrre beni, sono come una vecchia macchina che non corre più, sono come un vecchio cavallo che è divenuto inguaribilmente zoppo, sono come una mucca che non dà più latte”.
Le parole del vescovo di Mùnster continuano, poi, implacabili e temerarie: “No, qui si ha a che fare con uomini, con nostri simili, con nostre sorelle e nostri fratelli. Uomini indifesi, uomini malati, uomini improduttivi a giudizio di qualcuno. Ma, con questo, hanno perduto il diritto alla vita? Hai tu, ho io, il diritto di vivere solo fino a quando siamo produttivi, solo fino a quando veniamo riconosciuti dagli altri come produttivi? — Se si giustifica, e si applica, l’assioma che si possano uccidere gli uomini ‘improduttivi’, allora, guai a tutti noi quando diveniamo vecchi e deboli per l’età”.
Il senso radicale del discorso: “Se si ammette che degli uomini abbiano il diritto di uccidere essere umani ‘improduttivi’ (anche se questo riguarda, ora, malati psichici poveri e indifesi), allora è consentito uccidere (assassinare) tutti gli uomini improduttivi: i malati inguaribili, gli invalidi del lavoro e della guerra; ed è consentito uccidere tutti noi quando diveniamo vecchi e deboli per l’età, e, per questo, improduttivi”.
L’incandescente attualità delle cose, che sono state testimoniate dal vescovo di Mùnster, mi sembra scaturire da un altro brano del suo discorso. (Aleggiano, talora, idee nascoste e intenzionalmente nebulose che rimandano al problema (a questo problema lancinante) del senso della vita e del senso della morte: della trionfalizzazione dell”efficienza” (della “produttività”) e della banalizzazione della morte (della strumentalizzazione della morte). Non sono temi estranei, questi, né alla medicina né, in particolare, alla psichiatria: a questa scienza di confine che continua a confrontarsi con la violenza e con la sopraffazione.)
“Allora nessuno di noi è più sicuro della sua vita: qualche commissione può mettere ciascuno di noi nella lista delle ‘persone improduttive’ che, a suo giudizio, sono divenute ‘indegne di vivere’. E nessuna polizia ci proteggerà, e nessuna legge punirà chi ci uccide e nessuna legge consegnerà l’assassino alla giusta punizione. Chi può avere ancora fiducia in un medico? Questi, magari, definisce come improduttivo il malato, e fa suo (così) l’invito a ucciderlo. Non è possibile immaginare quale imbarbarimento dei costumi, e quale generale diffidenza, si abbiano a delineare nel cuore stesso delle famiglie: se questa spaventosa dottrina viene tollerata, ammessa e seguita.”
Cose, queste, che toccano il nucleo bruciante del problema: quello della violenza ideologica che intende fissare i suoi criteri di separazione fra una vita degna di essere vissuta e una vita non più degna di esserlo.