Continua la rubrica “Le parole per dirlo”, di Veronica Rossi. Chiarimenti, puntualizzazioni, ma soprattutto una riflessione sull’uso purtroppo spesso comune di parole che, a proposito di salute mentale, allontanano, distorcono, alimentano lo stigma. Naturalmente accogliamo volentieri i suggerimenti, le indicazioni e le riflessioni che ci vorrete mandare.
La Redazione
«Ha ammazzato la moglie in preda a un raptus». Quante volte abbiamo letto queste parole sui giornali? Si tratta di un modo talmente frequente di definire i femminicidi che ormai l’associazione, nelle nostre menti, è immediata. Eppure, la parola “raptus” ha un campo di utilizzo ben specifico nell’ambito della psichiatria – la Treccani lo definisce come un «impulso improvviso e incontrollato che, in conseguenza di un grave stato di tensione, spinge a comportamenti parossistici, per lo più violenti» –, che quasi mai si potrebbe applicare ai casi di violenza contro le donne. Ne abbiamo parlato con la linguista, saggista e attivista Vera Gheno, autrice, tra gli altri libri, di “Femminili singolari. Il femminismo è nelle parole”.
Gheno, perché non si dovrebbe utilizzare il termine “raptus”?
Perché “raptus” indica l’annebbiamento della coscienza e presuppone che quello che succede mentre una persona è colpita da esso non sia ascrivibile alla sua volontà. È come se fosse posseduta in quel momento da un demone e non fosse, quindi, in grado di controllare le proprie emozioni. L’utilizzo di questo termine quando si parla di femminicidi ha lo scopo di creare una lontananza tra il sé percepito come una parte della società civile che certe cose non le fa e la persona che commette il crimine, che è fuori dalla normalità. Significa, quindi, non riconoscere che il problema della violenza di genere, che a volte sfocia nel femminicidio, è un problema sistemico, che quindi riguarda in maniera trasversale le relazioni tra generi. Poi, per fortuna, nella maggior parte dei casi non si arriva a uccidere la donna, ma l’hummus culturale è lo stesso.
Quindi il termine “raptus” serve per mettersi in qualche modo la “coscienza in pace”. Esattamente, per relegare il problema a quella persona particolare in quel momento particolare e non ammettere che stia nella società e nei rapporti di forza tra i generi. In questo modo si deresponsabilizza anche chi commette l’atto, perché, come dicevo, se sei preda di un raptus non sei totalmente padrone delle tue azioni. Invece, spesso, leggendo la cronaca si hanno le prove che i cosiddetti “raptus” non lo sono affatto, ma sono gesti ampiamente premeditati. Mi viene in mente quanto è successo a Giulia Cecchettin o a Giulia Tramontano, il cui fidanzato l’avvelenava da mesi. Moltissime volte c’è un’intenzione di commettere l’omicidio, mentre spesso i femminicidi vengono presentati come gesti folli di un ragazzo per bene.
Perché c’è, anche sui giornali, questa errata comunicazione? Si tratta di ignoranza, leggerezza o dolo?
Credo che nella maggior parte dei casi ci sia un’ignoranza di fondo, anche se i giornalisti hanno il “Manifesto di Venezia” che tratta esplicitamente questi temi. Quindi penso ci sia anche una certa noncuranza, ma anche un desiderio di giustificare il proprio genere, come a dire «Noi non siamo come quello lì». Su questo punto io e Lorenzo Gasparini, filosofo femminista, la pensiamo allo stesso modo. Mentre le donne hanno dovuto fare i conti con il loro essere donne, non solo come soggetti singoli all’interno della società, ma anche come soggetti che appartengono a un genere, quindi hanno dovuto riconoscere che ci sono delle questioni sociali che le toccano in quanto donne, gli uomini spesso non hanno dovuto farlo, perché il genere maschile è percepito come il “genere base”. E quando tu percepisci qualcosa come la normalità, non ti interroghi molto su cosa comporti far parte di quella normalità. Iniziare a pensare al sé maschile come a un soggetto che appartiene a un genere che ha delle specificità, però, è quello che servirebbe per capire che quando si parla di violenza sistemica non si sta condannando tutti gli uomini, quindi non c’è bisogno di dissociarsi. Ma bisogna riconoscere che si vive e si agisce all’interno di un contesto che favorisce alcuni casi estremi, che possono arrivare addirittura all’eliminazione fisica della donna e che tante altre volte riguardano un’oggettivazione che non si spinge fino al femminicidio.
Quella di usare un termine deresponsabilizzante per parlare di femminicidi è quindi una tendenza principalmente dei giornalisti maschi?
Non per forza, perché la visione patriarcale della società è abbracciata anche da molte donne. Le rivendicazioni femministe non sono una lotta tra generi: non basta essere donne per essere femministe. Ma allo stesso tempo questo vuol dire che anche gli uomini possono essere femministi. Forse l’utilizzo di termini deresponsabilizzanti è più comune tra i maschi perché ci pensano meno, ma in realtà il percorso di decostruzione del genere manca anche a tante donne, che magari per abitudine o per formazione decidono di abbracciare una visione “maschiocentrica” o “androcentrica” della società.
Che parole dovremmo utilizzare, quindi?
Sono elencate nel “Manifesto di Venezia”, di cui parlavo prima. Uno dei punti centrali, comunque, è evitare qualsiasi possibile giustificazione dell’atto commesso dall’uomo, con frasi come «Lei lo voleva lasciare» o «Stava pensando al divorzio». Sono tutte espressioni che sottintendono che, in fondo, un motivo c’era, mentre in realtà nessuna di queste cose può diventare la ragione per cui si uccide una donna.