Diamo il via con questo intervento alla rubrica “Le parole per dirlo”, di Veronica Rossi. Chiarimenti, puntualizzazioni, ma soprattutto una riflessione sull’uso purtroppo spesso comune di parole che, a proposito di salute mentale, allontanano, distorcono, alimentano lo stigma. Naturalmente accogliamo volentieri i suggerimenti, le indicazioni e le riflessioni che ci vorrete mandare.
La Redazione
Neurodiversità: chi è questa sconosciuta?
In moltissimi articoli – a volte scritti da esperti del settore – si leggono le parole “neurodivergente” e “neurodiverso” utilizzate come sinonimi. Ma siamo davvero sicuri che sia questo il loro significato corretto? In realtà neurodivergente è colui o colei che ha un funzionamento cognitivo che diverge dalla norma (e quindi chi non è neurotipico); in questa categoria rientrano le persone all’interno dello spettro autistico, tourettiche, Adhd e dislessiche o discalculiche. Divergere dalla norma non significa avere meno valore. Essere normali non è un complimento: la normalità è semplicemente un concetto che si rifà alla teoria di Gauss del 1809 sulla “distribuzione normale”, creata per descrivere la probabilità con cui la misura di più grandezze si distribuisce attorno a un valore medio. Si tratta, quindi, di una parola afferente all’ambito della statistica, non del valore. Neurodiverso, invece, è ciascuno di noi. In che senso? Il paradigma della neurodiversità si costituisce come un’alternativa al modello medico ed è una visione bio-politica il cui fine ultimo è il contrasto alla discriminazione rispetto a qualunque tipo di funzionamento. Si tratta di una sorta di biodiversità neurologica: in natura, tra gli esseri umani, esistono diversi tipi di funzionamento, come esistono diverse specie viventi, ognuna importante per il mantenimento dell’ecosistema.
Il termine è stato coniato nel 1998 dalla sociologa Judy Singer, per riferirsi all’infinita variabilità della cognizione umana e all’unicità di ogni mente; si tratta di un’idea rivoluzionaria, che ci permette di guardare alle varie caratteristiche neurologiche, sensoriali, comunicative e sociali come differenze naturali dello sviluppo umano e non come dei deficit da colmare. Perché, dunque, è importante? Perché ci permette di osservare e descrivere le caratteristiche delle altre persone, anche differenti rispetto a noi,
senza necessariamente guardarle nell’ottica di giusto o sbagliato. Ci permette, inoltre, di allontanarci da un ambito prettamente clinico, per abbracciare la possibilità che ciascuno abbia la propria visione del mondo e la propria modalità di interagire con l’altro e col mondo. Ci dà la possibilità, insomma, di realizzare quella che lo scrittore, accademico e attivista autistico Fabrizio Acanfora definisce “Convivenza delle differenze”, diversa dalla semplice inclusione, che rischia di sottintendere sempre un’azione verticale di un gruppo dominante rispetto a una minoranza.
Arriviamo, in questo modo, a un assunto fondamentale, che ancora non è stato recepito appieno, soprattutto nel dibattito sull’autismo: rientrare nello spettro non significa avere una malattia da curare, ma rappresentare una delle possibilità – anche se minoritaria – dell’essere umano. Uno sguardo completamente diverso, quindi, che consente un rovesciamento: secondo alcuni studiosi è proprio la presenza della variabilità neurologica ad aver permesso e favorito l’evoluzione della cultura e della civiltà umana. Pensiamo per esempio a Temple Grandin, etologa e attivista autistica, che ha scritto “Se per qualche tipo di magia l’autismo fosse estirpato dalla faccia della Terra, gli uomini starebbero ancora a socializzare davanti a un falò, all’entrata di una caverna”. Non bisogna, quindi, cercare di rendere “normali” le persone neurodivergenti, come se il modo d’essere della maggioranza fosse quello da ritenersi corretto, ma rendersi conto che ognuno ha le sue specificità e le sue caratteristiche. Questo non vuol dire, tuttavia, non aiutare chi si trova in difficoltà, significa semplicemente non cercare di cambiare la sua natura, come se fosse sbagliata.