di Gloria Gaetano
La ricerca psichiatrica (e anche quella psicoanalitica) tende a incentrarsi sul racconto autobiografico, sull’ascolto del delirio, che ancora non si struttura in parola, ma tende una mano verso l’altro per tentare una forma di comunicazione.
Il racconto, la storia, come emerge a tratti nella farneticazione, è importante per la comprensione dell’individuo, nell’intersezione dei piani di realtà, nel collegamento con altri momenti del sé, e infine, nei casi più facili, aiuta nella comunicazione con l’altro, in modo che il soggetto possa ricostruire il percorso della propria storia e la connessione col con il proprio vissuto.
Cercavo delle parole per iniziare questo viaggio-excursus attraverso le tante storie che ci hanno affidato.
Cercavo tali parole anche in me, che vivo un’esperienza simile, e si vede dal mio volto che ne porta le tracce, quella cicatrice di dolore, che si riconosce, come un tatuaggio, sul volto di tutti coloro che vivono queste storie e che hanno dentro il dolore di aver visto una persona bella, allegra, vivace, socievole, trasformarsi in un individuo fragile, pieno di angoscia, con il pianto chiuso dentro di sé.
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Mi vengono allora in mente le parole di Eugenio Borgna: «La parola può salvare una persona oppure perderla. Al di là dei contenuti, sono i modi con cui la parola è pronunciata (i gesti e il silenzio, lo sguardo e le espressioni del volto), a indicarne la connotazione ostile, amica, affettuosa, aggressiva, ansiosa. La parola è sempre fragile o arrischiata, è accattivante e seducente, è nemica o solidali. Ma l’altro potrebbe avere le antenne sensibilissime nel cogliere il senso nascosto, fluttuante e impalpabile, delle parole. E ogni parola può essere quella decisiva: la parola che crea fiducia o fa nascere un contatto emozionale, cioè quella che incrina la solitudine e libera gli aquiloni nel vento, ma la parola anche che accresce, con le sue risonanze, la solitudine e l’ansia, le inquietudini del cuore. La parola è dialogo, ma anche silenzio: nasce dal silenzio e finisce nel silenzio in una reciprocità incalcolabile e friabile. Le parole,
labili tracce dell’inconoscibile ed effimere immagini del reale, metafore di un mondo possibile, si moltiplicano alla ricerca di definizioni probabili del dialogo e del silenzio, dell’apertura agli altri e della solitudine, della contemplazione e dell’azione; e non sempre riescono in questo intento».
La centralità della persona
Se la persona che sta male, è, come dice Basaglia, al centro dell’attenzione dello psichiatra. Allora il racconto, l’ascolto è la via principale per avviare la comprensione e il percorso di guarigione di inserimento nel sociale .
Sono essenziali per capire e aiutare.
Le storie stanno anche ad indicare che una via è stata aperta per seguire un sano progetto di cura e inserimento, sono storie aperte, ma già delineate, tendenti alla costruzione del sé.
Stare meglio si può.
Comunicare, narrare, ascoltare, frequentare terreni di confine per sentire intrusioni, interruzioni, per sentirsi ogni volta vivi e diversi. È ciò che fanno i veri psichiatri nei Dsm e nei Csm, coloro che sanno cogliere i disorientamenti, i dolori non ben espressi, le ombre vanamente sfuggite al mondo, accostandosi per sentire il mormorio dell’angoscia che crea la barriera apparentemente insormontabile, per conoscere l’identità di chi narra, con il tono sommesso per quell’angoscia, che poi – è il caso di dirlo – è la stessa angoscia che dorme in noi e che riconosciamo nell’umanità dell’altro.
Rendere libere persone come noi, restituire la possibilità di vivere, questo è il compito di chi cura, di chi convive con persone che soffrono, dopo che si sono aperti i cancelli, abbattuti i muri con la legge 180. Questa è la seconda libertà che bisogna ridare. La possibilità di vivere degnamente. E di soffrire solo quel tanto che è dato a tutti. Questo già accade, ma nel silenzio e nel mare dell’indifferenza.
Narrare tutte queste storie è sempre un modo per esplorare dei mondi attraverso l’altro da sé, cioè un modo per raccontare il mondo.
Certo molto ci dicono della sofferenza, della depressione, dell’angoscia anche i libri di Virginia Woolf, i dipinti di Van Gogh, i concerti di Schubert, le poesie di Cristina Campo, di Sylvia Plath, le opere del Caravaggio. Ma qui mi fermo perché l’elenco sarebbe troppo lungo.
Sono opere belle, articolate, espressioni vere d’arte. Eppure erano persone sofferenti.
La centralità delle storie
OggiAggiungi un appuntamento per oggi la psichiatria fenomenologica, e anche la psicoanalisi, sia essa adleriana, lacaniana, junghiana, freudiana, mette al centro dell’indagine terapeutica il racconto autobiografico, per costruire un percorso terapeutico e per stabilire un rapporto di fiducia col paziente.
Anche la persona che è nello stadio più deragliato della comunicazione verbale, cerca di comunicare qualcosa e man mano di delineare un io narrante che dia un nome, un senso alla sua sofferenza, cerca quindi di aprirsi un varco attraverso gesti, mimiche, borbottii, silenzi verso il mondo da cui si sente escluso e abbandonato. Cerca aiuto, cerca l’altro.
Si può porre la persona di fronte alla propria storia, ripetendo il linguaggio della sua percezione del mondo, surreale, a volte enigmatica, a volte pulsionale e primordiale, corporea, che usi i suoi stessi stilemi, i simboli della sua psiche, cercando di fargli dire in qualche modo quello che ha dentro, nell’oscurità del mare profondo, di dentro.
E chi, tra di loro, ha volontà di fuggire avverte che c’è una realtà parallela in cui evadere, quella che noi non sappiamo, che i poeti chiamano altrove, ma che è una dimensione diversa che pure essi sentono come reale, in cui però non saranno più sotto accusa, processati, catalogati, ingabbiati in definizioni, dove entreranno a far parte dello stessa galassia, insieme a tutti gli altri, magari silenziosamente, con tanti diritti e senza dover chiedere quello che non sanno dire. E che gli altri non potranno soddisfare.
Allora a noi tocca capire quella storia con tutto il suo senso d’impresentabile necessità.
È per questo che abbiamo tentato di ripristinare un ponte di tante storie ascoltate, consegnate a noi con molta stima e fiducia, pezzi di vita, nuove possibilità per percorsi, progetti e cure. Che ci sono, e che vanno sempre resi realizzabili.
Perché non si dica mai che qualcuno rimanga indietro. E questo vale ancora di più se siamo convinti di quell’utopia che guarda ad ogni persona che non riesce a competere, che resta indietro, e ancor più gli emarginati, gli “sfortunati”, i dimenticati, coloro che vivono nei ghetti sociali e culturali, va garantito un “progetto di vita” di inclusione e di libera manifestazione della propria personalità e individualità.
La narrazione di sé
Narrare storie è una forma universale di comunicazione. Riuscire a farsele narrare è già una via verso la guarigione, verso il ricompattamento e l’accettazione del proprio vissuto.
Il Narrare è l’attività più comunicativa, chiarificatrice dell’ordine simbolico di una individualità e di un gruppo, anche superando i paletti del racconto orale, della grafica, del mito-fiaba-leggenda, divenendo narrazioni transculturali, pertanto mediatrici della presentazione del proprio vissuto, che può avvenire attraverso vari canali.
Raccontarsi significa farsi conoscere agli altri, o far conoscere esperienze collettive, anche di altri. Attraverso l’uso della scrittura si cerca di dare una forma, una rappresentazione al proprio vissuto, che tende ad attirare chi ascolta o legge. E quindi ha un alto potere comunicativo, anche se rielaborato, di conoscenza, di esperienza dell’altro che ci è di fronte, di tutto il mondo che lo circonda, della sua vita emotiva, detta e non detta. Strumento di conoscenza quindi, e, forse, nei modi della vera partecipazione (en-patia e ascolto), un metodo vero e proprio di aiuto per chi esprime, anche con gesti e in forma delirante, la propria storia, la propria emotività.
Le nostre vite sono legate a quelle di familiari, amici, persone, gruppi di lavoro e di prossimità abitativa, di luoghi di intrattenimento, scuole, università, ambiti di lavoro. E anche si intrecciano alla vita di coloro che sono ormai scomparsi, ma le cui storie si raccolgono nella sabbia dei ricordi, costituendo il canovaccio di una più grande storia, che si allarga a macchia d’olio.
La narrazione è liberatoria, per alcuni tipi di disturbi, dalla fatica di vivere nel buio da cui si vorrebbe uscire, ed è anche, a livello, più letterario, fonte di conoscenza di tipi, caratteri, panoramiche storiche, luoghi, viaggi, culture e abitudini che si vanno disvelando.
Ritrovare le storie e disporsi a un ascolto partecipe, è ritrovare anche il senso delle nostre vite, individuali e di tutti. Il lungo monologo della nostra storia che intessiamo e re-intessiamo ogni giorno è il modo per ritrovare noi stessi, aspetti non sempre chiari dell’esistere, e di far ritrovare ad altri identità disperse, frantumate, riuscendo spesso ad essere anche veicolo di cambiamento, di restituzione alla propria identità che sembrerebbe indicibile.
C’è un archivio nella nostra mente che serve, proprio, non tanto a raccontare la realtà, ma a documentare infinite varianti, che se noi raccordiamo, sono pur sempre simili, al di là dello specifico individuale, e riescono a fare un ritratto psichico della persona, anche cambiando i termini della storia. È in questo processo di relazione tra il narratore-comunicatore, anche se restio, e l’ascoltatore attento, disponibile, en-patico, che cominciano ad emergere anche nuove aperture, nuove possibilità di vita. Magari una sola… ma è quanto basta per uscire dallo specchio oscuro che rifletteva sempre immagini indefinite.
È l’inizio
La centralità dell’ascolto
Il vero ascolto presuppone un rapporto, un contatto profondo.
Significa entrare nei panni dell’altro, osservare temporaneamente la realtà con i suoi occhi.
Il vero ascolto produce naturalmente empatia, perché nasce dalla con-vibrazione e dalla risonanza.
Ascoltare in modo profondo e totale significa dare senso alle parole dell’altro, impegnarsi a sentire il suo fantasticare, immaginare o narrare la sua vita. Significa accogliere ciò che dice, dando valore alle sue parole: non indulgere nel dubbio, nella valutazione, nel giudizio. Ascoltare significa fare silenzio interiore, mettere a tacere il giudizio, la critica, la competizione. Significa entrare in uno spazio dove il torto e la ragione non esistono più. È la premessa indispensabile per la soluzione creativa dei conflitti.
Saper ascoltare non significa stare in silenzio ed annuire semplicemente, ma mostrare con tutti noi stessi, ovvero con il nostro atteggiamento, di aver capito ciò che l’altro cerca di dirci: con gli occhi, con il nostro interessamento, con il corpo. O anche utilizzare messaggi di apertura, i cosiddetti “apri-porta”, brevi messaggi verbali che esortano l’altro all’esposizione del problema, mostrano la nostra volontà di partecipazione al suo problema facendolo sentire accettato e compreso.
L’ascolto attivo è “il modo più sicuro per essere certi che impressione = espressione”, e comporta principalmente la capacità di riassumere e riformulare ciò che l’interlocutore ha appena detto (tecnica della riformulazione), attraverso domande chiarificatorie, e di dimostrare accettazione, comprensione, ed empatia verso l’altro.
Con il termine accettazione si intende la “capacità di accettare i sentimenti dell’altro, espressi dalle sue dichiarazioni, senza sentire il bisogno di valutarli né di agire su di essi con modalità investigative”. L’accettazione incondizionata comporta calore umano, accoglienza, senza incorrere nell’errore di interpretare, valutare o giudicare il pensiero dell’altro e tutto questo possiamo trasmetterlo attraverso un attento ascolto attivo, quindi, come precedentemente detto, con la nostra postura, il nostro tono di voce, e con la riformulazione della problematica esposta.
Con l’accettazione, quindi, offriamo all’altro la possibilità di esprimersi; in un secondo momento subentra la comprensione empatica.
Il termine empatia deriva dalla parola greca empateia che significa “sperimentare attivamente il modo in cui un’altra persona vive un’esperienza”, ovvero il sentirsi dentro l’altro, e diviene un’esperienza profonda quando viene ad annullarsi la “distinzione tra la persona stessa e l’altro da sé.
L’ascolto ha qualcosa di particolare e di nascosto, un’esperienza da vivere in quel momento irripetibile di vita: «Per un tempo. Attraverso una scansione singolare. In virtù della vibrazione di un accento. La segretezza sta forse piuttosto,nell’arte difficile e personale con cui riusciamo a maneggiare questo battito effimero, questa oscillazione precaria del presente, che non è ripetibile,di cui non si dà serie. E che non si può insegnare, se insegnamento è solo trasmissione del sapere. Perciò il sapere dell’ascolto è un non-sapere,come forse direbbe Bataille, eppure resta un sapere in tutta la sua paradossalità. Cerchiamo tutti un occhio che ascolti».
Rovatti ha una profonda attenzione, verso le marginalità dell’esistenza, le metafore oscure,attraverso le quali si adombrano zone non ancora incontaminate dell’inautenticità,sempre al fine di combattere l’alienazione, non in senso marxiano, ma foucaultiano.
Anche da questo deriva la sua attenzione anche alla follia e alla possibilità di curare attraverso la filosofia,passando attraverso le metafore scure del delirio, della parola non raziocinante, non strutturata, attraverso l’attenzione, appunto, e l’ascolto.
In una storia di vita vengono narrate anche le particolarità del protagonista.
In tal senso il racconto fa a volte del narratore anche un “tipo” della frammentazione esistenziale. Attraverso la narrazione il soggetto tende a evidenziare le varie identità attraverso cui è passato, cioè la soggettività frammentata post-moderna.
Ognuno vuole essere ascoltato, narrato, guardato mentre vive o perché vive. È come alla fine, scoprire come si è, guardare negli occhi dell’altro come si è diventati nel percorso di vita, attraverso la sofferenza, attraverso, le infinite incertezze di identità.
Perciò è così importante nella cura essere ascoltati e sentire sé stesso che racconta la propria storia, che sente scorrere la propria vita.
17 Comments
Io ho già prposto narrazioni come tema,o uno dei temi del congrezzo. Adesso voi potete raccontare qui le vostre storie di disagio, o storie più divertenti…Raccontate. Troverete il mio ascolto e la mia parola a incoraggiarvi. Scrivete anche poesie. Storie che vi sono piaciute. Sono sempre il segno di quello che intuite nel vostro sè.
carissima gloria. bello il tuo intervento. sono d’accordo con te: narrare è in qualche modo disegnarsi un’identità; affermarsi in relazione o in contrasto (perchè no?) agli altri. Io ho un’idea diversa della poesia, invece. credo che Poesia sia dolore attraversato, che avvicina i “momenti emozionali delle persone”: è dolore, rabbia, amore, gelosia, ma che importa il motivo? Poesia accomuna le emozioni e per questo avvicina. Serve a raccontare sentendosi al pari nella relazione ed ecco il grande fascino dei versi: non ti racconto la mia storia, ma quel sussulto che ho avuto dentro che Mi ha fatto sentire vivo, che ha costretto Te a pensare, che ha svincolato Loro dal giudizio, dalla critica, dallo stigma. Scrivere poesia, dice Pietro Ingrao nel libretto appena uscito INDIGNARSI NON BASTA è ” una lettura del mondo, che non si dà nel clamore, quasi sempre manifestazione di passività, segno di inerzie e di ripetizioni. Carenza di pensiero. al contrario, SILENZIO NON è UN NULLA, UN’ASSENZA. è un pensare interiormente. Silenzio è interiorità. E un fermarsi nell’ascolto (….)il silenzio è sempre più avanti. Taci, ma compi l’atto del tacere. Essere silenzioso è un agire.” Il bello della poesia è dunque che non è “parola”, ma sussurro oppure “urlo”, che spicca e ha forte eco. Aggiungerei al tuo “scrivete poesie”: scrivete poesie perchè poesia è il proprio protagonismo unito al rispetto del protagonismo dell’altro. grazie gloria
barbara grubissa
Sì, certo Barbara, la poesia serve, libera , a volte crea solo linguaggio interno, nel silenzio, ma poi cerca di emergere, di creare parole, di stabilire quella comunicazione che si è interrotta, per dirla con Ingrao. E’ quella mano che si tende verso l’altro. E ,proprio Ingrao, dice che a noi l’essere umano interessa, non per misurarlo, per caèirne i meriti, per agevolare la produzione, ma proprio perchè abbiamo bisogno di lui, in una sociatà che non ha progresso reale. che non permette di dare valore a ciò che non si misura, ma che ci pone il problema del rapporto e della comunicazione.
Sì La poesia per raccontare il sussulto, l’urto, per tendersi verso gli altri, e la narrazione per ricostruire ,attraverso un processo faticoso, la propria identità, accettare il proprio vissuto, mettere insieme i mosaici del puzzle. Come affrontare quindi i temi della cura, della riproduzione della vita,della tutela del corpo e della pische , se non passiamo attraverso gli sspezzoni di una vita. non è facile, ma vale la pena ascoltare , aiutare , ten
dere quella mano, che l’altro si aspetta da noi.
Capisco ,Barbara, che tu penso che la poaesia possa passare in secondo piano, ma non è così. Come dici tu la poesia dà voce al mare di dentro, all’urlo che sembra non suscire, fa parte dell’intuizione, della fase prelogica e immaginaticva, senza la quale non si dà nenache evoluzione scientifica.
Ma, poi nella fase di ricerca del sè e dellindividuazione, il racconto può già cominciare a far accettare la propria storia ,che è stata traumatica, chiarire a se stesso ilpercorso che è stato fatto. Ambedue le fasi letterarie sono le fasi di un nuovo percorso ‘umanistico’, neoumanistico, che si interessa all’uomo all’individuo e cerca di comprendere i bisogni profondi, che non sono certao la produttività, il mercato…
“tutto ciò che succede ci giunge sotto forma di racconto” dice Alain Finkielkraut in UN CUORE INTELLIGENTE testo appena edito in Italia, ma uscito nel 2009 in Francia. L’opera d’arte sembrerebbe non appartenere alla “categoria dell’utile”, ma solo in questo senso: non dobbiamo chiederci a che cosa possa servirci, ma da quale automatismo di pensiero possa liberarci. Cosa non da poco, non credi? se parliamo della ricerca di sè. Io credo che si possa scrivere in diverse fasi della propria esistenza: nel mezzo del dolore come sfogo oppure una volta preso uno stacco. Mariangela Gualtieri parla della poesia come di dolore attraversato, già individuato. Questo perchè accade? Lorenzo Renzi in COME LEGGERE POESIA dice “ogni uomo è inerentemente poeta, come è matematico. Non è la scuola che lo fa poeta, nè che lo fa matematico”. Poesia è semplicemente una presa di coscienza del sè che non implica contesto. Il racconto,invece, è determinante per contestualizzare, per creare storia, per chiedere ragioni, per creare nessi logici. Il racconto è apertura verso l’altro anche più profonda: la poesia non racconta, svela. credo che siano due generi complementari. Praticare la letteratura come raccolta di testimonianza, come atto di protagonismo di chi non ha in genere voce è essenziale non solo per chiarirsi, ma per conquistare la possibilità di dire, di chiarire, di collocarsi anche “spazialmente” e temporalmente nei confronti degli eventi. Quando racconto sono protagonista. Quando scrivo poesia, protagonista assoluto è l’emozione. Raccogliere testimonianze è bello perchè si fuoriesce dagli schemi, ci si allontana dai pensieri stereotipati, ogni storia è diversa dall’altra. La poesia, invece, assomiglia al rito. accomuna nel sentire.
Se vuoi, Barbara, continuiamo…e vorrei che qualcuno d coloro che leggono il Forum ci dicessero la loro opinione rispetto alla poesia. Mi ricordo che una mia amica che faceva psicoterapia, doveva portare un poesia ogni mese al teraputa. Era un cura,mentre lui ne comprendeva il livello di coscienza cui era arrivaa etc. Sarebbe interessante se qualcuno si inserisse….
poesia e racconto…
solo qualche riflessione sulla diversità dei due, senza pretese…
racconto, la narrazione, il raccontare di se,razionalmente, quantomeno provando a dare una sequenza…io protagonista…
poesia…
molt* scrivono diari personali andando a caporiga spesso, io io io io etc etc…è questo poesia ? per me no, se altro di valido non c’è..
poesia è scrivere del mondo, della vita, passando attraverso il proprio irrazionale…l’io, anche dove c’è, scompare nella poesia e lascia progressivamente spazio a chi la legge, che diviene il protagonista, sentendola sulla sua pelle per empatia, esperienza personale non richiamata dal poeta ( non conosce il lettore ) ma evocata dalla poesia, il gancio gentile anche quando doloroso…
puoi decidere di scrivere un racconto, lo costruisci, anche in corso d’opera, e poi ci lavori sulla forma.
la poesia non puoi decidere di scriverla…arriva quando arriva, poi lavori sulla forma.
differenti, non necessariamente complementari
scritto di getto
toni piccini
Mi sembra che proprio l’articolo non parli di lavorio di forma, ma di racconto, dapprima quasi silenzioso, che avvene anche attraverso il corpo, poi che si la lentamente costruendo, a mano a mano che la persona spfferente ricostruisce e accetta una parte della propria vita, il passato, prima con erroori e sviste, poi in maniera sempre più chiara. E’ allora che si è riconciliato con qella parte del sè che avevo rifiutato. E’ l’inizio del riconoscimento d’identità.
qualche volta il racconto prende forma. Quale attestazione migliore di un’identità?
Mi spiego meglio… si inizia dal silenzio per poi dar voce e, di conseguenza, accettare una parte della propria esistenza. verissimo gloria. La letteratura ha una funzione importantissima: la cura della parola. L’importanza non è data solo dalla forma in sè, ma dall’importanza di SCEGLIERE LE PAROLE. Ti faccio un’esempio….il primo che mi viene in mente: MARIA ZAMBRANO. Il suo stile (possiamo chiamarla forma?) corrisponde all’unità tra vita e pensiero: la sua poesia è il racconto della sua vita. A che cosa serve la forma secondo zambrano: a poter render conto dell’integralità della vita che è “UNICA, OSCURA, IRRAZIONALE NELLE SUE RADICI”. quando si racconta la storia della propria vita è essenziale scegliere le parole. il lavorio di forma è una sorta di scatto successivo: dico e racconto non solo l’evidenza, ma anche il mio singolare punto di vista, il mio irrazionale. la letteratura ha un grosso potere: quello dell’astrazione, quello di portare lontano da sè la propria identità e guardala dalla prospettiva esterna. Ti è mai capitato nel raccogliere storie di chiederti da che punto ha iniziato la persona a raccontare? perchè la memoria ha scelto proprio quelll’evento per partire nella ricostruzione della propria storia? l’esercizio letterario ha un senso proprio per perfezionare la comunicazione, almeno io ho sempre creduto questo. Qualche volta ci sono, per l’appunto, racconti che riguardano il corpo, il linguaggio corporeo che nasce nel silenzio. la forma è una sorta di corpo della letteratura, la struttura, la selezione delle parole.
Questo significa che nel raccontare ci si chiarisce spesso nel togliere le troppe parole nel dirsi: non è questo che volevo dire. è anche un esercizio personale molo utile. Testimonianza (personale/concreta) e in seguito riflessione su quello che abbiamo raccontato(astrazione/letteratura/forma). un bel riconoscimento di identità quello di pensare a COME si vuol raccontare. Magari qualcuno vorrebbe CANTARE la propria storia, chi lo sa?
è molto bello quello che dici, Grubissa, testimonianza-racconto-riflessione, un percorso difficile, cercando di sottrarci, nel racconto, alle nostre intime censure.
Ma è bello anche quello che dici a proposito della poesia: “Poesia è semplicemente una presa di coscienza del sè che non implica contesto. Il racconto,invece, è determinante per contestualizzare, per creare storia, per chiedere ragioni, per creare nessi logici.”
L’ho collegato queste parole di Paul Celan, che ho trovato nella bacheca di gloria:
“Ho tentato di scrivere poesie: per parlare, per orientarmi, per accettare dove mi trovavo e dove stavo andando, per darmi una prospettiva di realtà. E fu, chiaramente, vicissitudine, movimento, un porsi in cammino; fu il tentativo di trovare una direzione.”
Poesia e racconto appaiono così le due percorribili strade della verità.
Questa è la poesia di un amico, che soffre di disagio psichico. Uno dei miei poeti preferiti:
Ti prego non smarrirti
non smarrirti ora
non smarrirti ancora
fragile e arrogante germoglio
ultimo nome scolpito.
Abbandona quel cremisi
che ti illude e pugnala alla schiena
argina quell’osmosi
che vorresti tiranneggiasse tutto
smetti di sfidar gli dei alla guerra
impara come una vela,a giocar col vento
chè quel gioco che giochiamo è la vita
e il dolore è nozione necessaria.
Tommaso Putignano
Credo che la poesia di Tommaso dica molto, e abbia un alto livello di consapevolezza della vita e del dolore.
la vita cammina con il dolore chissa’ chi corre più velocee comunque sono certa che se sappiamo aspettare la vita risolve per noi alcune avversità e poi il tempo fa la sua parte e noi ammantate di fiducia che facciamo???????????????????? ciao a tutti a presto
Stefaniasilvia,”noi ammantate di fiducia” riconosciamo subito la gioia quando arriva e sappiamo distinguerla bene. Senti che bei versi della WISLAWA SZYMBORSKA: “l’anima la si ha ogni tanto/Nessuno la ha di continuo/e per sempre./Di rado ci dà una mano/in occupazioni faticose,/come spostare mobili/portare valigie/o percorrere le strade con scarpe strette./Su mille nostre conversazioni/partecipa a una,/e anche questo non necessariamente,/perchè preferisce il silenzio./(…) Gioia e tristezza/non sono per lei due sentimenti diversi./ e’ presente accanto a noi/solo quando essi sono uniti.”
Gloriapoetry, bella la poesia di Tommaso….”argina quell’osmosi che vorresti tiranneggiasse tutto” è verso molto potente, che fa sì che il dolore sia “nozione necessaria” per vivere e non presenza totalizzante, molto significativo, concordo.
Grazie Talamo….già… tentativo di trovare una direzione, di mettere a fuoco la “verità”, che qualche volta va ben al di là dell’analisi della semplice “realtà”.
Sono completamente d’accordo su quanto scritto, in comunità dove lavoro sono responsabile del giornalino scritto dai ragazzi, e credo sia uno strumento che permetta a noi di esplorare cosa e quanto vogliono svelare dell’anima loro, e a loro di poter far scivolare con l’inchiostro le corde delle lore sinfonie.
infatti il giornalino, come il diario, l’agenda e anche il colloquio orale sono utilissimi per impostare, ricostruire la propria storia
Raccontiamo ancora, per la collana:
Immaginate il diluvio universale, l’apocalisse.
Tutto e tutti vengono spazzati via. Dopo 40 dì e 40 lune finisce il casino. Rimane un territorio vastissimo e anche un uomo. E’ solo nel mondo e comincia a lavorare il terreno a lui rimasto. Dopo un giorno, il territorio coltivato e curato, rifiorisce. Il secondo giorno ci sono alberi maestosi, pieni di frutti, che governano il territorio, e l’uomo, dopo due giorni di digiuno, finalmente può cibarsi. Comincia così a scavare una parete rocciosa per potersi riparare dal freddo e dalla pioggia. Scavando, trova una grotta dove all’interno scorre una piccola sorgente di acqua limpida. L’uomo, dopo tre giorni finalmente beve dell’acqua pulita.
Il quarto giorno, dopo un lungo sonno, si trova accanto una donna. Avendo sentito parlare di Adamo ed Eva, avendo visto tanti film e letto diversi libri, non si stupisce – non trovandosi neppure in una situazione tale da poterselo permette. E’ felice; è sufficiente. Finalmente può dialogare e accoppiarsi.
La mattina dopo, la donna, da vita a due gemelli, maschio e femmina.
Intanto l’eden cresce ogni minuto di più. I maestosi alberi, con i suoi grandi frutti, portano all’avvicinamento di uccelli e vari mammiferi.
Il quinto giorno l’uomo e la sua donna mangiano carne. Lo stesso giorno lui costruisce una casa in pietra per dare più spazio e agio alla nuova famiglia e per ripararla meglio dal freddo e dalle bestie che dominano questo mondo.
Ho dimenticato di dirvelo. Nel centro dell’eden si è aperto un buco, una voragine tonda, la cui profondità, a occhio umano, pare infinita.
Da lì arrivano voci e grida orribili. E di notte escono dal buco esseri enormi, da forme mostruose, che si cibano del paradiso che l’uomo ha creato.
L’uomo non prova a difendersi né a ragionare né a trovare una soluzione per questa brutta storia. Ha appreso che ogni domani è un giorno nuovo: lascia che la notte passi e con essa le bestie e il suo lavoro.
Comunque, il sesto giorno nasce un villaggio. Perché, cresciuti, i figli, dell’uomo e della donna, si accoppiarono dando vita ad altri due gemelli – sempre maschio e femmina. Intanto, cresciuti pure loro, ne diedero in vita altri due, e così via. Ora sono in 12. Anzi 11. Quel giorno la prima donna cade nel grande buco.
L’uomo prende a cercarla, senza trovarla in nessun luogo. Allora, capendo dov’è finita, si mette a gridare il suo nome, ma senza ricevere risposta.
Arriva la notte e le bestie, quando salgono dall’abisso, sono molto più numerose e ancora più affamate di prima.
Questa notte è fatale per gli abitanti del piccolo villaggio.
I mostri hanno assaporato la carne umana e ora ne chiedono altra. Distruggono e divorano tutto.
Il settimo giorno l’eden scompare e con esso gli uomini fondatori. Rimane un territorio vastissimo e anche un bambino. L’abisso non c’è più, e con lui le sue bestie.
Ricomincia a lavorare il terreno nudo. E il terzo giorno è rigoglioso come un tempo.
Il bambino cresciuto ha dimenticato e il quarto giorno trovandosi accanto una donna, rimane stupito di tale evento.
Non conosce né storie, né film, né leggende. Ora possono entrare in gioco Dio e il serpente.
Ma anche Dio ha dimenticato, e il quinto giorno il serpente adempie il suo compito e il tradimento da parte dell’uomo e della donna è compiuto di nuovo.
Il quinto giorno Dio distrugge l’eden e la donna, lasciando l’uomo solo come in principio è stato. Allora ricomincia a lavorare il terreno nudo.
Dopo un giorno, il territorio coltivato e curato, rifiorisce.
Il secondo giorno ci sono alberi maestosi, pieni di frutti, che governano il territorio e l’uomo, dopo due giorni di digiuno, finalmente può cibarsi.
Comincia così a scavare una parete rocciosa per potersi riparare dal freddo e dalla pioggia. Scavando, trova una grotta dove all’interno scorre una piccola sorgente di acqua limpida. L’uomo, dopo tre giorni finalmente beve dell’acqua pulita.
Il quarto giorno, dopo un lungo sonno, si trova accanto una donna.
Avendolo vissuto in precedenza, non si stupisce e pensa solo a dialogare e ad accoppiarsi.
E come un tempo nascono due gemelli, maschio e femmina.
E come un tempo nel centro dell’eden si è aperto un buco, una voragine tonda, la cui profondità, a occhio umano, pare infinita.
L’uomo non conosce la storia perché cresciuto dopo la fine che in principio avvenne per quel buco.
Così procede per il quarto giorno, i figli, la donna che finisce nel buco e via con l’altra storia e poi ancora questa e poi quella e così eternamente ed eternamente sarà.
Questa è la favola dell’uomo.