di Luigi Benevelli
La Proposta di accordo Stato-Regioni sulla Definizione dei percorsi di cura da attivare nei Dipartimenti di salute mentale per i disturbi schizofrenici, i disturbi dell’umore e i disturbi gravi di personalità (16 ottobre 2014)
di Luigi Benevelli
Premessa
A partire dal febbraio 2010, su mandato del Ministero della salute, il Gruppo tecnico interregionale salute mentale (GISM) aveva iniziato a lavorare intorno a un Piano di azione nazionale per la salute mentale, poi licenziato in prima stesura nel 2013. Vi si identificavano le “aree di bisogno prioritarie”, i punti di criticità degli attuali servizi; si proponeva la diffusione su tutto il territorio nazionale delle “esperienze virtuose” per la salute mentale in età adulta e in quelle dell’infanzia e dell’adolescenza.
Per ciascuna area erano elaborati e proposti LEA ( intesi come “percorsi di presa in carico e di cura esigibili”) e percorsi di cura differenziati (area esordi, disturbi comuni, disturbi gravi, disturbi dell’infanzia e dell’adolescenza) strumenti, metodologie. Il tutto entro la cornice della “psichiatria di comunità”, quindi con un raccordo stretto e intenso fra Dsm, medici di medicina generale, servizi per le dipendenze, Npia ecc.; il soggetto adulto con disturbo mentale era inteso come “parte attiva di una relazione di cura”, in un “rapporto di alleanza e fiducia” con i famigliari e le persone “del suo ambiente di vita”.
Per la presa in carico delle situazioni più complesse e gravi si prevedeva l’adozione di un Piano Terapeutico Individuale (Pti), la nomina di un case manager, la sottoscrizione di un “accordo/impegno di cura” da parte di Dsm, utente, famiglia e rete sociale.
Il modello organizzativo era quello del Dipartimento; si proponeva la formalizzazione di “percorsi clinici territoriali differenziati” rispetto ai bisogni dell’utente a partire dall’accoglienza; si discutevano i trattamenti in regime ospedaliero con particolare attenzione ai T.S.O, alle contenzioni e alla prevenzione del suicidio; si illustravano l’integrazione e il coordinamento con le attività per il trattamento dei disturbi psico-organici, delle dipendenze patologiche, dell’assistenza penitenziaria, nonché per la presa in carico dei pazienti opg.
Il 16 ottobre 2014 la Conferenza delle Regioni e delle Province autonome ha licenziato;
- 1. La proposta di accordo Stato Regioni sul documento recante Gli interventi residenziali e semiresidenziali terapeutico riabilitativi per i disturbi neuropsichici dell’infanzia e dell’adolescenza
- 2. La proposta di accordo Stato-Regioni sulla Definizione dei percorsi di cura da attivare nei Dipartimenti di salute mentale per i disturbi schizofrenici, i disturbi dell’umore e i disturbi gravi di personalità
La Proposta di accordo Stato-Regioni sulla Definizione dei percorsi di cura da attivare nei dipartimenti di salute mentale per i disturbi schizofrenici, i disturbi dell’umore e i disturbi gravi di personalità (16 ottobre 2014)
Il documento è corredato da 137 schede relative agli indicatori clinici (principali e accessori) per il monitoraggio dei percorsi di cura nei disturbi mentali gravi (secondo ICD IX e ICD X) relativi:
× al disturbo schizofrenico nelle fasi della presa in carico precoce (in numero di 12), della gestione della fase acuta (in numero di 11), dei trattamenti continuativi e a lungo termine (mantenimento e promozione del recupero psicosociale- in numero di 21; interventi specifici sulle compromissioni del funzionamento personale e sociale- in numero di 4; per un complesso di 48 item- 13 principali e 35 accessori;
× al disturbo bipolare in numero di 38, 12 principali e 26 accessori
× al disturbo depressivo in numero di 23, 10 principali e 13 accessori
× al disturbo grave di personalità, in numero di 28, 10 principali e 18 accessori
Non sono state elaborate e proposte schede relative ai disturbi del comportamento alimentare, alle dipendenze patologiche, ai disturbi psicorganici e di competenza della psicogeriatria.
Di ciascun indicatore è data la definizione e sono declarate le relative raccomandazioni, la attribuzione di fase (presa in carico precoce, fase acuta, trattamenti continuativi e a lungo termine, interventi specifici sulle compromissioni del funzionamento personale e sociale), la misura, le fonti informative, con l’aggiunta di note di chiarimento. Tutto questo, parrebbe di capire- ma sono ipotesi- in funzione o della proposizione di un’organizzazione dei Dsm per patologie (psichiatria “specialistica” vs. psichiatria “generica) o dell’ adozione di criteri di remunerazione del lavoro dei servizi non più per singole prestazioni, ma per cicli di trattamenti (v. budget di salute).
Questioni di potere
Come sappiamo, nella sua breve storia, l’assistenza psichiatrica pubblica, unica fra le attività di competenza medica, ha dovuto ricercare e trovare la legittimazione delle sue finalità e dei suoi assetti in legislazioni “speciali” (definizione del folle come “incapace di intendere e volere” e “pericoloso socialmente”) che autorizzassero la cura e la custodia di persone private dei diritti di cittadinanza in quanto diagnosticate “malate di mente”. Prima la legge 431/1968 introducendo la possibilità del ricovero volontario in manicomio, poi la 180/1978 hanno portato al riconoscimento della parità, almeno formale, dei diritti dei cittadini con disturbo mentale: di qui il passaggio dall’assistenza psichiatrica (manicomiale) ai servizi territoriali di “salute mentale” integrati nell’insieme del Servizio sanitario nazionale, che ha prospettato una radicale innovazione nei rapporti di potere e nelle relazioni di cura fra medico psichiatra e paziente/utente. In realtà, quanto è avvenuto e continua ad accadere in Italia, anche a manicomi pubblici chiusi, negli snodi più aspri e difficili di tali relazioni – T.S.O. e A.S.O.- contenzioni meccaniche e chimiche, trattamento dei pazienti autori di reato-, ci dice che non sempre la persona con disturbo mentale ha la possibilità di discutere, contrattare modi, trattamenti, luoghi, scelte. Ce lo dicono le percentuali di T.S.O. e A.S.O., di quelle delle contenzioni registrate che vanno da zero a numeri a due cifre a seconda delle Regioni, dei singoli Dsm e anche da Spdc a Spdc, dentro lo stesso Dsm. Evidentemente tali differenze non sono imputabili a diverse distribuzioni territoriali delle diagnosi o della gravità delle patologie, ma dipendono dalle culture professionali, dagli stili di lavoro, dai gradi di “paternalismo” degli operatori sanitari, i medici psichiatri in particolare, che possono imporre la loro valutazione e decidere dei modi, dei luoghi, e qualche volta dei destini dei pazienti loro affidati, “per il loro bene”, anche contro la volontà degli stessi. In tale regime di rapporti senza reciprocità fra le persone, la “posizione di garanzia”, cioè la responsabilità dei comportamenti del paziente attribuita al medico che lo ha in cura, di cui tanto si lamentano molti psichiatri italiani oggi, non è altro che la naturale conseguenza dell’esercizio non etico del “potere” da parte del medico.
Questo ci fa dire quindi che, di per sé, nemmeno le pratiche che dicono di ispirarsi alla “psichiatria di comunità”, che pure hanno rovesciato molti assunti della psichiatria manicomiale, sanno riconoscere ruolo e valore al dissenso del cittadino in trattamento. La 180/1978 ha comunque indebolito il potere del medico, come hanno dimostrato le molte proposte di modifica della 180 che puntano a rilegittimare il potere medico sui destini delle persone sulla base di una diagnosi psichiatrica o di “percorsi di cura”: l’esempio più esplicito è stato costituito dalla proposta Ciccioli (2009) che prevedeva l’introduzione di un T.S.O.P. (prolungato), della durata di 6 mesi prorogabili, senza il consenso del paziente, in strutture di lungodegenza. La proposta di T.S.O.P. era redatta dallo psichiatra del Dsm; il ricovero in regime di T.S.O.P. era disposto dal Sindaco dopo approvazione da parte del Giudice tutelare. Il T.S.O.P. poteva essere sostituito dal contratto terapeutico vincolante o «contratto di Ulisse», sottoscritto a suo tempo dal paziente[1]. Il Dsm avrebbe dovuto essere responsabile del contratto terapeutico, del suo rispetto, nonché dell’adesione da parte dei curanti e del paziente. Anche il Piano di azione nazionale per la salute mentale (2013) si era molto soffermato su un “accordo/impegno di cura” che può avere una lunga durata, presentato come un punto di qualità, in quanto testimonianza del consenso delle parti, ma di cui si tacciono le conseguenze in caso di violazioni da parte degli operatori dei servizi. Il fatto che la proposta di accordo dell’ottobre 2014 non ne faccia cenno, non rassicura circa la pretesa che l’utente/paziente debba adeguarsi a quanto sottoscritto magari in una condizione di scarso potere contrattuale: la riedizione di una sorta di “terapia morale” di antica memoria nella psichiatria asilare europea.
A riprendere centralità dovrebbero essere quindi la questione della tutela dei diritti dei pazienti/utenti e del se e del come operano le autorità di garanzia, Uffici di Pubblica Tutela e quant’altro. Sarebbe utile avere informazioni su quante sono le autorità di garanzia in funzione, Azienda sanitaria per azienda, Regione per Regione, su come funzionano, sulla dimensione e i contenuti delle segnalazioni provenienti dai servizi di salute mentale e sulle iniziative adottate. La conoscenza di questi dati consentirebbe di fare luce su questo “lato oscuro” dell’assistenza psichiatrica, cosa invece che è impedita dall’adozione di un approccio pressoché esclusivamente clinico, come quello usato dagli estensori del documento in esame. Ma vi sono ancora altre criticità e incongruenze.
Questioni aziendali
Si afferma, giustamente, che la costruzione dei progetti individuali di salute richiede, valorizza il protagonismo di operatori dei servizi di salute mentale, pazienti, famiglie, reti sociali, comunità locali, la collaborazione con medici di medicina generale, Sert, servizi di neuropsichiatria infantile e quant’altro. Ma accade, ad esempio in Lombardia, dove la sanità regionale è stata costruita come una potente macchina di potere iperaziendalizzata, ospedalizzata, centralizzata, gestita con enorme discrezionalità, senza tenere conto delle volontà dei Comuni, che servizi di sanità pubblica operanti sullo stesso territorio possano afferire o alle Asl o ad Aziende ospedaliere, cioè ad aziende diverse, che la sanità sia separata dall’assistenza, che i Comuni siano ridotti a ratificare una volta l’anno decisioni confezionate altrove. Bisogna quindi preliminarmente raccomandare alle Regioni di aggredire la condizione di separatezza e auto-referenzialità dell’aziendalismo sanitario, restituire poteri di programmazione e controllo agli Enti Locali, ritornare alla legge istitutiva del Servizio sanitario nazionale, la 833/78. E dire no a proposte di aggregazione- ridefinizione degli ambiti, di dimensioni che non consentono il controllo democratico e partecipato sulle Aziende sanitarie.
I fattori extra clinici (recovery)- per una medicina psichiatrica narrativa
Negli anni più recenti, anche in Italia, l’esperienza di servizi che fanno “salute mentale”, il nascente protagonismo dell’associazionismo degli utenti e l’azione decennale dell’associazionismo dei famigliari, hanno messo in luce l’importanza dei fattori extra-clinici, in specie le vicende della vita, nel favorire percorsi di miglioramento e guarigione. Ed è ovvio che servizi di salute mentale davvero “di comunità” siano nelle condizioni ottimali per costruire e intercettare opportunità. A differenza della cultura psichiatrica che ispira la proposta in esame, è la dimensione narrativa della psichiatria quella che, come scrive Bruno Callieri[2], sa valorizzare le varie dimensioni della struttura e del significato degli eventi creati dalla malattia perché
chi incontra l’altro [deve] assumersi dei compiti non solo conoscitivi ma anche etici e de-trarsi dal rendere l’altro oggetto, dall’oggettivare l’altro. L’oggettivazione dell’altro è stato forse il nostro più grande peccato all’accesso all’alterità e soprattutto all’alterità “malata”.
Come ci insegnano le esperienze di incontro dei servizi con i migranti, esperienze che dovrebbero aiutarci a riflettere anche sui problemi delle relazioni dei servizi di salute mentale con i nostri “nativi”.
In conclusione, la proposta di accordo Stato-Regioni sulla Definizione dei percorsi di cura (16 ottobre 2014) pare costituirsi in buona sostanza come un contributo alla costruzione di una più articolata raccolta dati relativi al lavoro dei Dsm, di un nuovo Sistema Informativo nazionale Salute Mentale (SISM); non cita nemmeno più e non riprende la discussione intorno ai significati e ai modi della “psichiatria di comunità”, alla “presa in carico”, in particolare al “contratto di cura”, alla personalizzazione dei trattamenti, (dando tutto quanto contenuto al riguardo nell’elaborazione del 2013 per acquisiti?). Ma privilegia un approccio “clinico”, attento alla diagnosi, al sintomo, alla prognosi e al decorso della malattia, ponendo al centro lo psichiatra, protagonista delle scelte, dei modi, dei luoghi della cura e mette ai margini utenti, famiglie, reti di relazioni, istituzioni democratiche locali. Il documento non pare in grado di apportare più qualità nelle relazioni di cura – qualità di cui tanto si avverte l’urgenza- perché fondato su culture scientifiche e professionali arroccate a difesa del “potere medico”, disattente ai diritti dei cittadini. A questo punto parrebbe di grande utilità e urgenza l’impegno del Governo nazionale e delle Regioni a convocare una seconda Conferenza nazionale sulla salute mentale, in preparazione, dopo 15 anni, di un nuovo progetto obiettivo nazionale.
Mantova, 16 novembre 2014
[1] È interessante notare che, in Italia, lo stesso requisito non è stato riconosciuto per le dichiarazioni di volontà di “fine vita”.
[2] B. Callieri, Per un recupero della dimensione narrativa in psichiatria, prefazione al Trattato italiano di psichiatria culturale e delle migrazioni di P. Bria, E. Caroppo, P. Brogna, M. Colimberti, SEU, Roma, prima edizione 2010, p. XIX.
1 Comment
Il documento del PANSM (Piano nazionale di azioni per la salute mentale) è un prodotto del GISM (Gruppo Interregionale salute mentale), di ispirazione molto clinica, iniziato nel 2011 dalle Regioni e poi congegnato dal Ministero. Alcuni di noi vi sono inciampati quasi per caso dato che il gruppo GISM aveva un carattere molto autoreferenziale. Il FVG, per esempio, per quanto ne sappiamo, non vi ha mai aderito formalmente. A parte lo stravolgimento di una buona idea relativa ai vari livelli dei percorsi di cura, esigibili in termini di diritto, c’è poco da salvare. Manca ogni riferimento all’integrazione sociosanitaria, ai distretti, alla fisionomia e organizzazione dei servizi. Tutto è virato in senso lividamente clinico, e per di più in modo raffazzonato. Non è mai stato nominato un board di esperti ma si è proceduto per autodesignazione e autopromozione di alcune regioni “traino”. Sempre Lombardia, Piemonte, Liguria, a volte Veneto che non si può dire siano il migliore esempio di politiche di salute mentale comunitaria. Il nostro paese, nonostante la 180, balza all’avanguardia essendo il primo paese al mondo a valutare i servizi di salute mentale per risposte a diagnosi psichiatriche, come per le cardiopatie o il diabete (PDTA, percorso diagnostico terapeutico assistenziale), e non per target di complessità assistenziale che è un approccio basato sulla rilevazione dei bisogni.