di Fabio Dito (*)
“ fare in modo che la verità corrisponda alla realtà, che gli uomini siano tutti uguali, fratelli ”
Althusser “Per Marx”
Allo stato la questione OPG assomiglia ad una aporia.
Primo problema, quello generale. Nel dibattito attuale, le puntualizzazione tra internati “dimissibili” e non “dimissibili” spostano l’attenzione dell’eventuale pubblico politicamente appassionato allo scandalo degli OPG italiani dal confronto su presupposti considerati come scontati e che non sembrano più tali. In più lo sovraccaricano solo di dettagli. Le conseguenze, allora, potrebbero essere o un effetto straniamento dalla discussione-che stenta comunque a decollare- o, nelle risultanze, un’ulteriore ibridazione del concetto di pericolosità sociale con il sempre insidioso giudizio morale. L’assenza di pericolosità sociale in senso psichiatrico, perno della dimissibilità, è un valore assoluto ma non esclusivo per il pubblico dibattito. Per converso, lo “scontato” genererebbe un ampio confronto tra cittadini sull’esigibile: le risposte pratiche, le soluzioni operative dei Servizi di Salute Mentale, gli strumenti terapeutici che escludono il discorso di “cura e di assistenza” attraverso lo strumento dell’internamento negli OPG. Genererebbe un qualcosa che interessa la traiettoria biografica dell’utente ponendo a distanza l’immediatezza del bisogno, quello psichiatrico, ed indirizzando gli sguardi verso modalità di esistenza possibili per il cittadino ora internato. Restituirebbe al pubblico autorità e padronanza nell’ occuparsi degli OPG perché la discussione avverrebbe all’interno di una più generale, quella sulla tendenza etica verso il bene ed il meglio di una società moderna, civile e democratica.
Secondo problema, la composizione della questione. A questo punto il discorso si complica. Perché, nel tentativo di essere qui propositivo e forse divulgativo, si costata che il ragionamento che si vuole fare si caratterizza per la sottrazione piuttosto che per l’aggiunta di elementi definitori.
Primo elemento di sottrazione, apparentemente molto distante, è il rapporto Lalonde, oramai datato 1974. In esso si sanciva la differenza tra ambito della salute e sistema sanitario ed il primato del primo sul secondo. Smentendo ogni ragionevole aspettativa la vicenda OPG è estranea alle conclusioni di detto rapporto.
Secondo elemento di sottrazione. Oggi assistiamo all’avvilente riaffacciarsi del progetto di revisione in termini peggiorativi della legge 180/78. Proviamo a leggerla come conseguenza del progressivo aumento della distanza di prossimità tra gli individui che compongono una determinata comunità. A questo “abbandono” si è storicamente risposto con elaborazione teoriche di un’azioni che chiameremo cronico soccorso, per non offendere nessuna burocrazia professionale, nelle modalità di un intervento tecnico. Essa però cortocircuita con le attuali politiche del disimpegno in termini di sostegno economico del welfare: la formulazione dei L.E.A. sono l’esempio lampante di questo progressivo ritiro. E così, nel caso degli O.P.G., la conclusione diventa lapalissiana e spinge nel rimosso la differente organizzazione ed erogazione di servizi all’utenza su tutto il territorio italiano. C’è però l’elemento storicamente introdotto che ha cambiato lo scenario: l’assimilazione culturale al modello medico porta tutto il pubblico profano a dire come si potrebbe ovviare al tutto, con l’intervento tecnico appunto.
Terzo elemento, di addizione e poi di sottrazione. Il progredire cui si assiste è solo oggettivo e legato al perfezionamento giuridico. Le sentenze 253/2003 e 367/2004 sono l’unico movimento veramente rivoluzionario, anche perché la diacronia delle Misure di Sicurezza è ferma al 1930. Questa nuova fase definitasi dalle sentenze citate pocanzi e dal D.P.C.M. 01/04/08 attualmente colloca chi – il termine è impersonale- ha determinato il fallimento del precedente processo di cura degli internati a gestirla o almeno ad esserne interprete. Per estensione, la possibilità che possa ripetersi un altro fallimento è forte ed impone qualche cautela. Una per tutte, la sincronia tra dispositivi giuridici e pratiche di salute mentale che escludono il precedente atteggiamento professionale del professionista deputato alla cura. Ma questa cautela, che diventa poi interrogativo, si estende agli attori sociali coinvolti, per esempio a quelli del terzo settore accreditato. Si parla quindi di “vision” a cui tutti questi aderiscono, di gestione dell’educazione alla “sociodiversità” e di temi relativi ai principali settori dell’esistenza sociale quali l’alloggio, l’istruzione, il lavoro, il consumo.
Con questi presupposti è difficile impostare un organico discorso sulla chiusura degli OPG, forse è più conveniente quello del loro superamento. Però superare non significa risolvere. A meno che non si consideri surrettizio quanto precedentemente citato.
Terzo problema, quello particolare. L’attualità di alcuni OPG ci mostra una sorta di “federalismo terapeutico”. Alcune Regioni virtuose hanno finanziato percorsi riabilitativi per gli internati residenti nel proprio territorio. Altre, meno, si stanno muovendo in tal senso. In concreto si tratta di percorsi terapeutici attuabili secondo criteri il cui carattere restrittivo è su base regionale. Si assiste, quindi, ad interventi intra ed extra murari solo per alcuni internati residenti in alcune Regioni. Gli altri, esclusi, rimangono a guardare dietro le sbarre. Come “interpretare”, a questo punto, gli artt. 3 e 32 della nostra Costituzione? Come mantenere la stessa coerenza interpretativa quando parliamo degli extra comunitari, dei clandestini, dei senza fissa dimora ristretti negli OPG e il più delle volte sconosciuti ai D.S.M. di appartenenza o a quelli dove è avvenuto il loro l’arresto?
Conclusioni sul ragionamento. Riprendiamo quanto sopra richiamato. Le contraddizioni sopra esposte ci forniscono la percezione che occuparsi della chiusura degli OPG assume il significato di difesa della nostra Costituzione e di recupero di spazi democratici funzionali per troppo tempo dimenticati. Considerare invece l’instabilità finanziaria dei Servizi Sanitari Regionali e la disfunzione degli apparati burocratico-amministrativi come i soli elementi che frenano la risoluzione del problema OPG parrebbe autorizzare solo l’ipotesi che in questione sia solo l’indebolimento delle tutele attraverso il Welfare e non un modello medico d’intervento. La realtà non ci racconta questa storia. Molti internati/utenti rimangono intrappolati nell’OPG ed eventualmente nelle LFE perché gli operatori dei Servizi di Salute Mentale al cittadino non sono riusciti ad andare oltre la modellistica medica, perché il percorso terapeutico di uscita da questi stabilimenti è sostenuto e non coadiuvato dalle misure di sicurezza non detentive, perché l’art. 28 della nostra Costituzione non è applicato bensì interpretato, perché si tende a costruire con l’internato/utente un percorso di consenso e non di assenso alle cure. A queste condizioni, insistere oggi unicamente sull’uso del modello medico è molto probabile che assuma il significato di abuso dello stesso. C’è di che riflettere.
Aversa, 13/07/11
(*) operatore psicologo della Salute Mentale.