In una delle ultime puntate de “Le Iene”, hanno fatto un servizio su una ragazza, malata di anoressia, che alla fine non ce l’ha fatta. Parlavano di TSO, di perchè questa ragazza è riuscita a scappare, e la seconda volta si è suicidata. I genitori si sono fatti accompagnare in ospedale a chiedere il perchè abbiano fatto scappare la loro figlia, e io mi son chiesto fino a che punto un SPDC possa contenere una persona e quanto no. Non è una domanda facile, ho cercato su internet e non ho trovato risposta. Ho pensato di scrivere al Forum, sicuro di avere un parere “informato” sulla questione.
Andrea
Risponde Peppe Dell’Acqua:
Intanto bisogna dire che le persone non scappano, rifiutano il trattamento.
È doloroso ma il problema non è e non deve essere mai la contenzione e il sequestro. Bisogna affrontare il rischio della relazione. È questo che ha restituito possibilità (e responsabilità). Sono tantissime le persone che riescono a rimontare, anche con percorsi faticosissimi. E c’è, ed è doloroso ripeto, qualcuno che non ce la fa. Ma sono troppi ancora i servizi che sbarrano le porte, legano per evitare che le persone scappino. Per evitare di correre il rischio dell’incontro, della relazione, della restituzione, quanto mai difficile ma ineludibile, di responsabilità.
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Il rischio della relazione. Il punto centrale di tutto. Per poter essere sostenuto necessita, da parte del curante, di tre condizioni almeno 1)amore (interesse genuino, coscienza professionale o come dir si voglia) terapeutico verso il curato 2)conoscenza profonda delle dinamiche di crisi (la fase dirompente ‘necessaria’ alla riconquista di quella costruente) 3)sicurezza/autorevolezza personali dipendenti, oltre che dal percorso personale, e in virtù di esso, dalla capacità di ponderare il rischio a partire dalla fiducia nella relazione (in sè e nel curato), e di captare al meglio delle proprie possibilità il livello di carico sopportabile da parte di entrambi; per un tempo sufficiente al difficile alternare momenti di assistenza condivisa nella medesima stanza del dolore a momenti di assistenza silente e fiduciosa fuori da essa. Se tutto ciò è già complesso da attuarsi all’interno delle mura familiari, immaginarsi su larga scala in un SPDC, un’aula, una qualsivoglia struttura, essendo i principi sempre quelli, nel piccolo o nel grande. Si capisce dunque bene perchè l’abbandono (porte chiuse, contenzioni scriteriate e infinite etc.) sia spesso la prima scelta; e il riabilitare solo una posticcia progressiva deminutio del curato e del suo potere contrattuale (mi ispiro qui chiaramente alla bellissima definizione letta nell’intervista a Peppe Pillo). Ma laddove si verifichino quelle condizioni dentro l’assunzione del rischio, impazzire e rimontare si può.
Quando si decide di contenenere o costringere tramite il Tso una persona si è fatta una scelta radicale che concerne il concederle credito o ritenerla in debito verso di noi (curanti, famiglia, istituzione, società)
La scelta è quella che non serve più parlare, porsi problemi, trovare soluzioni, dentro o fuori l’ospedale e questa scelta, restringe o annulla lo spazio vitale e di relazione, rendendola totalmente asimmetrica e dipendente dai cosidetti “curanti”.
La quasi totalità dei Tso e contenzioni riconosce queste radici, ragion per cui, la quasi totalità dei pazienti che subisce, non accetta e invariabilmete reagisce a questo tipo di trattamento ( ma non è esattamente quello che farebbe una persona “sana”?) rifiutandolo, protestando e maggiore è la protesta, maggiore è il rischio di ancora più restrizioni.
Dove si collochi la “cura” in questo tipo di rapporto lascio a te immaginarlo ma sicuramente è un evento traumatico e un atto di forza che comporta innumerevoli conseguenze.
Per il paziente ovviamente, ma paradossalmente anche per gli operatori sanitari.
Ad esempio, nel mio caso, in corso di un Tso o una contenzione, girano parole come : gli sta bene, se le voluto, questo fa troppi casini, è violento, è inutile parlare, non capisce un cazzo… quando in realtà quelli che, letteralmente non riescono a capire…. siamo noi.
Conseguentemente, parole e relazioni vengono sostituite dall’ uso massiccio di psicofarmaci in un processo di delega che anulla l’interesse e la responsabilità dell’operatore.
Nell’operatore, si crea, un distacco tale che il campo di azione e comprensione nei confronti di chi ha bisogno, si riduce a una dimostrazione della sua docilità.
La “guarigione” e la dimissione, coincidono molto spesso con la fine del Tso o la contenzione che è una dimostrazione inconcludente di quello che noi stessi, come operatori, abbiamo indotto.
Da una parte vi è un rischio da assumere con organizazzione dei servizi, responsabilità, umanità, rispetto la libertà della persona, dall’altra legando e costringendo, si pretende di anullare il rischio rendendo antiterapeutica e disumana la “cura”.