Le cose vanno così
La risposta di Franco Rotelli alla lettera di un lettore del Foglio del 10 ottobre 2022
Abbiamo letto il testo di Michele Cerquetti, pubblicato sul Il Foglio in occasione della Giornata mondiale della Salute mentale. Non possiamo che associarci a quella narrazione: le cose vanno così. La lettera da un lato fotografa e denuncia l’inadeguatezza delle risposte istituzionali, culturali e sociali al sempre più vasto e grave malstare – di tante persone, soprattutto le più giovani, dall’altro richiede si apra una discussione molto più vasta e profonda su un tema di drammatica complessità.
A quelle questioni molto spesso si offrono risposte occasionali, estemporanee e riduzioniste che quasi sempre invocano il ritorno a una qualche forma custodialistica. Alla fine poi troppo spesso il tema riferito a queste realtà è il “dove lo metto, la metto” piuttosto del “che cosa faccio con lei/lui”.
Ma esistono luoghi in Italia in cui i servizi pubblici si sono organizzati per offrire una risposta: una presa in carico continuativa “non residenziale” delle persone e la messa in rete di risorse positive importanti. Queste realtà sono ancora troppo poche e invece di essere potenziate e sostenute vengono depotenziate e accerchiate da visioni squisitamente medicali e/o penali. Esistono in Italia servizi territoriali aperti 24 ore su 24, ogni giorno. Si tratta di servizi a bassa soglia che accolgono le persone che hanno bisogno di un aiuto, di cure. Chiudendo il manicomio a Trieste, abbiamo aperto contestualmente Centri di Salute mentale, il più possibile simili a luoghi normali di vita, per prenderci cura delle persone, e non per metterle da qualche parte: presidi non ambulatoriali sul territorio, aperti 24 ore su 24, tutti i giorni dell’anno. Degli spazi in cui accogliere chi sta male, anche alla domenica e in tutte le feste comandate. Spazi ben diversi dal Pronto Soccorso e del Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura (Spdc) di cui si parla nella lettera che spesso è l’unica (e quindi miserabile) risposta a chi sta male. Ma esistono in giro per l’Italia altri buoni servizi, ma anche forme associative coraggiosamente costruite dai soggetti interessati, da chi ha l’esperienza del grave malstare e/o dei loro famigliari, o da gruppi solidali.
Le carenze della politica potevano già essere immaginate quando la Legge 180 venne inopinatamente subito chiamata Legge Basaglia. Era firmata da Giulio Andreotti e da Tina Anselmi e proposta dall’Onorevole Bruno Orsini. Nessun politico mise il nome su quella Legge. Né allora né poi.
Giacciono inutilmente in Parlamento proposte di applicazione dellaLegge 180 che disegnano un’ingegneria dei servizi che potrebbe offrire le basi per una risposta civile a questioni così drammatiche – ben lontana dall’inerzia dell’esistente o dal ritorno al manicomio.
Questa famosa “agenda sociale” di cui molti parlano in cosa consiste? Solo una rivisitazione profonda dei sistemi di welfare locale può configurare risposte adeguate. Non è mai una risposta adeguata quella riduttiva medicale, né lo è quella sanzionatoria e la gabbia delle
diagnosi è attrezzo consunto. Per quel che le riguarda le carenze delle psichiatrie e delle
psicologie, prese a sé stanti, risultano dimostrate dai loro stessi risultati.
Quella che noi invochiamo come “impresa sociale” coincide invece con una presenza rilevante di servizi territoriali, interdisciplinari, a forte integrazione sociosanitaria, lo sviluppo di forme importanti di cooperazione sociale, il sostegno di strumenti associativi tra i soggetti coinvolti, i familiari e i cittadini attenti alla dimensione sociale della questione, le risorse informali di quell’enorme giacimento minerario non utilizzato che è la comunità. Certamente senza queste alleanze, le risposte non possono essere che miserabili e a loro volta produttrici di culture regressive che aggiungono danno al danno.
La continuità delle cure che può essere offerta da questa alleanza tra servizi istituzionali e risorse sociali attivate e sostenute non realizza forse miracolose guarigioni ma certamente pone le basi per un ben diverso destino.
Ripetiamo da decenni che la risposta dei servizi pubblici deve essere una risposta territoriale, deve essere presenza di servizi continuativa e capillare sul territorio. I servizi che funzionano sono servizi vicini alle persone, sono servizi accessibili e soprattutto
sono servizi aperti. Non è ben chiaro se le risorse messe a disposizione dal pubblico siano relativamente sufficienti o meno: perché quello che è chiaro è che comunque sono assolutamente mal collocate, tra cliniche private, posti letto ospedalieri, convenzioni
con situazioni residenziali neo-manicomiali, lasciando intatti i problemi che la lettera del Signor Cerquetti denuncia.
Se ci abituiamo a considerare utopica l’azione degli Enti locali per intervenire utilmente sulle condizioni sociali e di vita, in particolare nei quartieri più complicati ma più in generale ovunque nelle nostre città, se consideriamo utopistico immaginare un uso delle
scuole con iniziative capaci di coinvolgere al di là delle ore di lezione e se consideriamo utopistici servizi sanitari capaci di sviluppare buone pratiche (di cui si sa tutto) dovremo certamente continuare a ricorrere a interventi sanzionatori, a chiamare impropriamente in causa la magistratura, parlare di contenzioni e mai di sicurezza sociale.
Quante risorse esistono nel territorio che non vengono utilizzate (società sportive, culturali, associative, religiose ecc). Una comunità sbriciolata in cui ognuno si chiude nella propria isola e gli specialisti nelle proprie competenze non potrà mai dare le risposte che la lettera invoca. È davvero utopistico sostenere che bisogna mettere insieme le risorse istituzionali e quelle informali di ogni comunità per poterne affrontare i problemi? E non dovrebbe essere questo il compito della politica?
La pericolosità è sempre frutto dell’abbandono ed è la conseguenza di una catena di abbandoni. Il ricorso al Tso come obbligo della cura, comunque possibile, e a volte dolorosamente necessario, diventa molto più frequentemente non necessario quando le persone vengono davvero aiutate nel tempo. È altrettanto dolorosamente vero il fatto che professionisti (psichiatri, psicologi, eccetera), messi spesso in condizioni del tutto inadeguate, non si ribellino e non denuncino sistematicamente le carenze dei servizi nei quali sono incardinati.
Siamo capaci di uscire da quegli specialismi, dalla separazione delle competenze e tra regole e bisogni riuscire a scegliere la risposta ai secondi?
Ma poi: questi giovani perché stanno male o perché fanno abuso, e non solo uso, di sostanze? Quanti spazi sociali per i giovani e dei giovani sono stati chiusi in questi anni? Spazi di aggregazione, immaginazione e felicità. Spazi di socialità, spazi in cui incontrarsi, conoscersi e creare laboratori, giochi, incontri, concerti e amori. Spazi che si ribellino alla noia, al nulla che avanza, al deserto culturale di certe città. Spazi che generino un’alternativa all’unica via di sfogo lasciata: ai locali dove consumare, a pagamento.
Tutto quello che assomiglia a un sostegno pubblico a un’aggregazione giovanile viene visto con sospetto e scoraggiato. Il mondo giovanile viene sommerso di regole insensate e quasi mai incoraggiato a esprimere una propria specificità, e le proprie, giuste, anomalie. Ci sono delle paure collettive, che investono soprattutto i più giovani, che dovrebbero essere affrontate dal mondo della politica: Gli diamo invece una guerra alle porte, una minaccia nucleare, un pianeta sempre più distrutto, una precarietà sempre più diffusa, una difficoltà a costruirsi una propria autonomia, poca speranza verso la conquista di nuovi diritti civili. E il bonus psicologi.