di Michele Fumagallo
Francesco Mastrogiovanni 30 anni fa era stato accoltellato a una gamba da fascisti a Salerno. Per difenderlo l’anarchico Marini colpì a morte Carlo Falvella. È morto dopo essere stato fermato e sottoposto a Tso a Vallo della Lucania
Ci sono vite che sembrano destinate a portare sulle spalle il dolore del mondo e altre che sembrano destinate a procurare un dolore indicibile. Dentro questa forbice si è svolta l’avventura umana di Francesco Mastrogiovanni, maestro elementare, morto in circostanze assurde (nel senso di assurdamente brutali, come documentiamo con le foto a lato) l’anno scorso nel padiglione adibito alle cure psichiatriche dell’ospedale di Vallo della Lucania, cittadina del Cilento. Una morte decisa nello spazio di 4 lunghissimi giorni di agonia e vera e propria tortura, per cui adesso dovranno comparire nel tribunale di Vallo della Lucania (la prima udienza del processo è fissata per il 28 giugno prossimo) 18 imputati, 7 medici e 11 infermieri, accusati tutti di sequestro di persona e morte derivata da altri delitti (la contenzione forzata), mentre per i medici vi è anche l’accusa di falso ideologico nell’alterazione della cartella clinica. E davvero la storia di Francesco, a partire dalle foto che lo vedono sul letto di contenzione prima di morire, è uno di quei racconti che si farebbe bene a narrare sempre ai bambini con cui lui aveva vissuto.
Sempre, a ricordo di quanto può essere triste la vita degli uomini quando si distaccano dagli altri uomini e rendono emarginata la vita di chi non si adagia all’egoismo dominante. Una vita “normale” che Francesco non poteva vivere, perché altra era la sua natura e la sua storia. Una scelta a favore degli ultimi, che gli aveva fatto abbracciare in gioventù (ma come è curioso parlare di gioventù per una persona che è morta, anzi uccisa, quando era ancora nel pieno della maturità, a soli 58 anni) l’idea anarchica, che per lui era più un modo di vivere che un’ideologia, per cui aveva anche pagato dei prezzi molto salati e sofferto ingiustizie e umiliazioni che non lo avrebbero più abbandonato. Una sofferenza accresciuta, tra l’altro, dal fatto che Francesco non era un militante classico, impegnato in riunioni e quant’altro, ma più un sognatore che la sua scelta preferiva viverla nel suo modo di condurre l’esistenza.
Il fantasma del caso Falvella
Dunque Francesco viene prelevato dai carabinieri il 31 luglio del 2009 sulla spiaggia di San Mauro Cilento dove trascorreva qualche giorno di vacanza. Il prelievo forzato non era il primo. Era già stato sottoposto a Tso (Trattamento sanitario obbligatorio) altre due volte, e sempre la cosa aveva destato stupore nei suoi amici, conoscenti e parenti. Francesco infatti non era mai stato violento, né tossicodipendente se si esclude qualche spinello (tutto convalidato dalle analisi post decesso). Andava sì, a volte, in escandescenze ma senza mai degenerare in atteggiamenti violenti. Erano piuttosto i fantasmi di una gioventù scossa a presentarsi sempre davanti ai suoi occhi. Quei fantasmi che si incarnavano nelle forze dell’ordine che gli procuravano sempre incubi e paure. Che lo facevano tornare indietro nella memoria, agli anni in cui era appena un ventenne. Alla Salerno dei primi Anni Settanta quando, nella sera del lontano 7 luglio del 1972, in una strada buia della città, lui ed altri compagni furono aggrediti da alcuni fascisti. Allora Salerno era infestata da bande di fascisti che tentavano di “prendersi la città” (il Movimento sociale italiano era il secondo partito), dopo lo smacco e la sconfitta subita nella rivolta di Reggio Calabria. Le aggressioni fasciste erano all’ordine del giorno, documentate scrupolosamente da questo giornale che aveva allora in città un nucleo forte del manifesto. Francesco fu accoltellato a una gamba, il suo amico Giovanni Marini intervenne per aiutarlo e nella colluttazione cadde colpito a morte il fascista Carlo Falvella. Anche lì il ruolo di Francesco era anomalo: si trovava infatti per caso a Salerno per andare a teatro e si era aggregato con gli amici incontrati durante il tragitto. Mastrogiovanni fu assolto al processo dopo un anno di galera mentre Marini fu condannato a nove anni (nel collegio di difesa, tra gli altri, vi era Umberto Terracini, già membro della Costituente e dirigente del Pci). Quello stigma giovanile Francesco non riuscirà più a toglierselo di dosso nonostante il tentativo di riprendersi col lavoro (era stato per anni in quel di Bergamo a insegnare) e con la dimenticanza che sempre lenisce le ferite col passare del tempo. Una cosa, però, Francesco non riuscirà mai a cancellare dalla sua mente, ed è la preoccupazione alla vista delle forze dell’ordine. Emblematico di questa “fobia” è l’episodio accaduto nel 1999 a Salerno. E’ da poco rientrato dal Nord perché è riuscito a trovare un posto nella scuola elementare di Castelnuovo Cilento, il paese dov’è nato. Pare che, fermato dai carabinieri nel capoluogo, abbia reagito in modo inconsulto a un controllo. Viene portato in caserma, processato per resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale, condannato in primo grado a tre anni. Riemerge il passato nella requisitoria dove il pubblico ministero lo definisce «noto anarchico», come se l’idea anarchica fosse di per sé un delitto oltre ad ignorare, il giudice, il modo del tutto particolare in cui viveva Francesco la sua “anarchia”.
Sconta un mese di carcere e cinque di arresti domiciliari, ma intanto si aspetta il ricorso in Appello che gli dà ragione: viene pienamente assolto per non aver commesso il fatto e riceve persino un risarcimento per l’ingiusta detenzione. Mastrogiovanni però acutizza, con questo episodio, la fobia profonda verso le forze dell’ordine. Capitano occasioni in cui scappa alla semplice vista di un poliziotto o carabiniere. E, come accade in genere in questi casi, la ribellione si esprime anche nelle cose minute della vita, quasi a rimarcare il diritto di vivere come vuole. Per questo, superficialmente, viene considerato un soggetto patologico, quando invece il suo rifiuto, ad esempio, di assumere i farmaci che gli vengono prescritti, è solo una risposta alla paura e un desiderio di essere rispettato. Magari curato ed aiutato, ma in modo del tutto diverso.
La costruzione del pericolo pubblico
E così cresce la sua “fama” di insofferente alle regole, di “anarchico”. Alimentata, per la verità, da atteggiamenti borbonici (vale ancora in Italia la vecchia concezione della “macchia indelebile”) delle forze dell’ordine. Racconta Vincenzo Serra, suo cognato: «Attorno alla sua figura si è costruita falsamente un’immagine di persona violenta, ma non era assolutamente pericoloso per la società. Persino nella cartella clinica c’è scritto che era soltanto ‘aggressivo verbalmente’. Spesso si arrabbiava, soprattutto quando parlava di politica, ma non passava mai alle vie di fatto. E’ stato trattato come un ‘appestato’ senza esserlo. Era sempre dedito alla lettura, collezionava libri, altro che violento. Diceva semplicemente che non si fidava di nessuno, soltanto di se stesso. Pensa che una maestra ha raccontato che Francesco in fondo era buono come i bambini, per questo era ben visto da loro».
Peppino Galzerano, amico e conoscente da tanti anni di Francesco, aggiunge, irato e incredulo: «È incredibile quanto avviene nel nostro paese. Non è che si può tacere di fronte a tanta offesa per la dignità umana. Non è possibile che un uomo entri in un ospedale, cioè il luogo adibito alle sue cure, e ne esca cadavere in un modo così atroce. Un epilogo della storia che nessuno di noi, amici e parenti, poteva immaginare».
I conti che non tornano
Ma cos’è veramente avvenuto in quei quattro giorni maledetti in cui si è decisa la vita di un uomo in un posto che dovrebbe essere adibito piuttosto alla sua salute? Intanto già dalla mattina di quel 31 luglio 2009 le cose hanno lasciato più di un sospetto in tanti. Il suo internamento coatto era stato ordinato dal sindaco di Pollica senza che mai si sarebbe capito il perché. Il fermo è poi avvenuto in un altro paese senza che il sindaco di San Mauro fosse avvertito e investito del caso. Altra curiosa cosa quella mattina, se si pensa che parliamo di un fermato per malattia del tutto pacifico, è lo straordinario spiegamento di forze: carabinieri in terra ferma e guardia costiera in mare. “Catturato”, questo è il termine più giusto da usare, viene portato nel reparto Tso (trattamento sanitario obbligatorio) dell’ospedale di Vallo della Lucania e lì tenuto per quattro giorni legato a un letto di contenzione, come si usava nei vecchi manicomi. È terribile ciò che tutti hanno potuto vedere grazie al video della telecamera a circuito chiuso dell’ospedale, prova schiacciante contro i medici e gli infermieri. Un video trasmesso su RaiTre e che circola su YouTube: un uomo che viene brutalmente legato a un letto che neanche lo contiene (Francesco è alto quasi due metri e per questo soprannominato affettuosamente “il maestro più alto del mondo”), che cerca di divincolarsi e chiedere aiuto per ben quattro giorni, che viene lasciato solo, e che mano a mano si divincola sempre di meno in preda agli effetti dei sedativi e alla rassegnazione che prende il sopravvento fino alla morte. Un video choc, non c’è alcun dubbio. Una visione davvero insopportabile che griderebbe vendetta in qualsiasi paese civile. Che inchioda tutte le persone democratiche e sensibili a domande decisive sul nostro paese, sulla sua civiltà in declino, sull’afasia della nostra democrazia. La società politica e quella civile ha altro a cui pensare? È sembrato di sì, in quei giorni. Ma, grazie a dio, la storia terribile di Francesco è diventata ormai caso nazionale e internazionale. Si sta coagulando attorno alla sua figura un movimento che sta già facendo sentire la sua voce nelle sedi istituzionali e che conta di portare a una prima sintesi il suo impegno in occasione del processo di Vallo della Lucania.
Il “Comitato verità e giustizia per Francesco Mastrogiovanni” ha approntato un sito (www.giustiziaperfranco.it), dove si leggono anche denunce dettagliate di medici. In un’appassionata difesa della vita e della dignità di Francesco, con argomenti di tecnica medica del corretto intervento in casi analoghi, scrive la dottoressa Agnese Pozzi: «Troppo facile legare un paziente in agitazione psicomotoria al letto, eventualmente sedarlo e lasciarlo a morire! Perché se non si tratta di pure cause psichiatriche ma organiche, e queste non vengono trattate, è sicuro che il paziente muore. È altrettanto sicuro che muore quando viene lasciato per giorni interi in una posizione forzata non agevole all’ossigenazione e al ritorno del sangue al cuore, com’è accaduto per il povero Francesco Mastrogiovanni». Il Tso era stato stabilito per 7 giorni a partire dalla data del ricovero e contempla controlli accurati del paziente. Ma per ben 80 ore Francesco è stato lasciato del tutto solo, sedato e legato mani e piedi al letto. E’ atroce immaginare che le telecamere a circuito chiuso trasmettevano ai medici e agli infermieri il suo stato di agitazione e nessuno ha visto (o voluto vedere), nessuno ha sentito un minimo di pietà. Tranne, si vede nel video, una inserviente che passa ad asciugare una piccola pozza di sangue che si è formata a terra vicino al letto, causata dai movimenti forsennati e dallo sfregamento sulla pelle del braccialetto che Francesco portava al polso. Nella notte fra il 3 e il 4 agosto, la sofferenza di Francesco, come appare nitidamente dal video, è davvero disumana. La mattina del 4 si vede un Francesco immobile, con la bocca semiaperta e ormai senza vita. Nel referto medico, dopo l’autopsia, la causa della morte è imputabile a edema polmonare, causato dal condizionamento a cui era stato sottoposto
IL PROCESSO – 18 imputati tra cui 7 medici Il 28 giugno la prima udienza
«Nel caso di Francesco Mastrogiovanni – denuncia la dottoressa Agnese Pozzi – è oltremodo assurdo che ai parenti sia stato impedito non solo di vedere il loro congiunto, contro ogni Carta dei Diritti del Malato, ma anche e soprattutto impedendo loro di essere consultati in merito alle condizioni precedenti di salute del loro caro. Fuori da ogni norma di buon senso è un simile comportamento che non esito a definire criminale specialmente se perpetrato in un ambiente medico che dovrebbe tutelare e curare il paziente». Sia gli organismi comunitari di Bruxelles che quelli italiani sono stati investiti del caso di Francesco Mastrogiovanni. Ignazio Marino, senatore e presidente della commissione permanente sui casi di malasanità, ha assicurato al comitato di lotta l’interessamento del caso. Intanto il sito del comitato viene visitato da ogni paese del mondo.
In alcune città italiane sono previste già riunioni e discussioni mentre la mobilitazione più forte si sta concentrando in vista del processo che inizia il prossimo 28 giugno a Vallo della Lucania (Salerno) e che vede imputati 18 membri dell’ospedale tra cui 7 medici con l’accusa di sequestro di persona, morte derivata da contenzione forzata, alterazione della cartella clinica. Il processo sarà l’occasione per affrontare i casi di malasanità, davvero tanti nel nostro paese. Una mobilitazione civile e popolare che, nel nome di Giovanni, vuole chiudere con una fase davvero assurda e insopportabilmente incivile nel nostro paese. Basti pensare che, se Giovanni fosse uscito vivo da quell’esperienza, sarebbe stato menomato per sempre, e non solo psicologicamente. Il 28 giugno, accanto al procedimento Mastrogiovanni, si terrà anche il processo per sequestro di persona del compagno di stanza di Giovanni, G. M., sottoposto a Trattamento sanitario volontario ma col sopruso della contenzione forzata totalmente inutile.
(da Il Manifesto del 5 giugno 2010)