[immagini di Marcello Scopelliti]
Di Carlo Miccio
[articolo uscito su Primo Contatto]
Con una certa diffidenza, ma anche l’ostinato desiderio di farmi un’opinione tutta mia, ho deciso di leggermi L’arte di legare le persone, pubblicato da Einaudi e scritto da Paolo Milone, che di mestiere fa lo psichiatra. Un libro che sin dal titolo mira a nobilitare la pratica della contenzione psichiatrica, cioè l’abitudine di legare al letto i pazienti più agitati. Pratica difesa dall’autore come strumento per evitare danni peggiori, che però si fa una certa fatica a immaginare (peggiori di cosa?) alla luce di episodi come quello di Giuseppe Casu – morto nell’ospedale psichiatrico di Cagliari dopo nove giorni di contenzione – ed Elena Casetto, una ragazza di nemmeno 20 anni, morta in un incendio che ha coinvolto il reparto di psichiatria dell’ospedale bergamasco Papa Giovanni XXIII mentre era legata anche essa.
Il libro si presenta subito con la forza di una scrittura di grande impatto e altamente seduttiva: una prosa poetica che gli permette di affrontare ogni scena con quel senso di distacco zen in cui chi racconta si ritaglia il ruolo di grande saggio.
In realtà, è risaputo che la seduzione è il contrario dell’onestà: una verità a cui i lettori forti sono abituati ma che io – che pure lettore lo sono stato fin dall’infanzia – sono arrivato a comprendere nel suo aspetto più concreto soltanto praticando la psicoanalisi. È lì che mi sono reso conto quanto inutile sia perdere tempo a conquistarsi la benevolenza dello sguardo altrui se l’obbiettivo della tua ricerca è la soluzione di un problema vero, concreto e reale come solo una malattia può essere.
L’autore del libro però afferma di non credere nella psicoanalisi. La ritiene un qualcosa che che pertiene al regno delle chiacchiere e non dei fatti. E lui, di sé stesso, è interessato a sostenere l’immagine di chi lavora sui fatti e le chiacchiere le lascia a chi non ha di meglio da fare. Ricordate Berlusconi quando diceva di non aver tempo per leggere libri perché troppo impegnato a lavorare? Ecco, l’atteggiamento con cui Milone si approccia al regno dell’Inconscio non è dissimile a quello con cui l’ex premier trattava la Cultura: un qualcosa con cui non si mangia.
Milone sembra piuttosto tutto teso a rivendicare per sé il ruolo di operatore sulle emergenze: una concezione fordista della salute mentale, che non implica una visione sociale del proprio lavoro, ma solo la capacità tecnica di stringere corde e bulloni del Tso.
Così facendo, l’autore accantona quella visione strutturalista del mondo che è stata una delle eredità più forti del Novecento a favore di una pratica più parcellizzata, sicuramente più attenta a un criterio di “funzionalità” che sembra contraddistinguere le esigenze produttive di questo secolo: si rimette il paziente in condizione di funzionare/lavorare, i familiari in condizione di respirare, il reparto in condizione di fornire dati e statistiche in grado di giustificare spese e bilanci aziendali.
In quest’ottica, la grande rivoluzione basagliana, che mette la persona e non la malattia al centro del processo di cura, viene di nuovo capovolta. Per Milone contano le malattie, non le persone: il libro intero è popolato di liste in cui l’autore afferma che – in date situazioni – gli schizofrenici si comportano in un modo, i bipolari in un altro e i depressi in un altro ancora. È la diagnosi, e solo quella, a definire l’individuo nella Genova di Milone.
Il medico prefigurato dal narratore funziona come un bot, uno di quei robot informatici che ci spammano le e-mail con rimedi per ogni problema. Un medico che funziona in modalità algoritmo – ad ogni malessere corrisponde una medicina – e che sembra esattamente la celebrazione di quella società algoritmica che secondo il filosofo Byung-chul Han non è più capace di confrontarsi con il dolore.
D’altronde, le classificazioni sono un’abitudine a cui neanche pazienti e familiari riescono a sottrarsi.
Io personalmente, ad esempio, che per motivi familiari quel genere di reparti in cui lavora Milone li ho iniziati a visitare prima del raggiungimento della maggiore età, ho imparato in fretta che, per quanto possibile, bisogna evitare medici come lui, che non credono alla guarigione. Quello che emerge dalle pagine del libro è la figura di un medico in burnout: qualcuno che non ce la fa proprio più a fare il suo lavoro, perché non riesce più a crederci interiormente. Nella mia esperienza, medici che avvertono il dolore degli altri ma non riescono a fornire alcun approccio creativo – limitandosi ad applicare procedure e protocolli all’infinito – condannano a quell’ineluttabilità della malattia che i pazienti temono più di ogni altra cosa al mondo.
Eppure nel libro è proprio quello il momento più alto: secondo le regole della migliore letteratura il protagonista in crisi ci dimostra che proprio attraverso la sofferenza si hanno intuizioni reali e si sviluppano le narrazioni migliori. In questo senso, esemplare è il capitolo sui suicidi, in cui il medico si confronta con i propri insuccessi e non più – soltanto – con i malfunzionamenti degli altri.
E non è certo un caso se questo miracolo narrativo avviene durante l’attraversamento in bicicletta di una città ricca di ponti da cui si è lanciato, nel tempo, un esercito di suicidi: è attraverso questa rivelazione – che avviene fuori e non dentro il reparto psichiatrico – che il medico Milone sembra raggiungere il momento di maggior comprensione per i suoi pazienti. Un capitolo che si apre con la descrizione di un suicidio avvenuto proprio all’interno di quel reparto psichiatrico, con un salto dalla finestra: una scena di grande impatto emotivo per il lettore, che però ha spinto alcuni colleghi di Milone a domandarsi perché quel reparto non fosse a piano terra, come da procedura.
Non so se questo squarciamento del velo di Maya davanti al grandioso Mistero del Suicidio avvenga quindi solo grazie alla scrittura: immagino che quel capitolo sia stato pensato per la sua funzione narrativa – che appunto costringe a trascinare l’azione fuori dalle pareti dell’ospedale – ed è forse un risultato del lavoro di scrittura prima ancora che dell’osservazione medica accumulata nel suo percorso professionale.
Peccato che quella prosa così efficace a confrontarsi con il dolore si nutra di vistoso autocompiacimento in altri momenti, come quando l’autore ci descrive infastidito la sua popolarità tra i suoi pazienti transgender che battono nei vicoli di Genova e che lo salutano rumorosamente al suo passaggio. D’altronde, come può riuscire una psichiatria nemica della complessità a raccontare le valenze multiple di identità in trasformazione come quelle transessuali senza ricorrere a diagnosi? Molto più comodo affidarsi a una scrittura divertita e divertente, dove il trans – al di fuori di quel limbo che è l’ambulatorio psichiatrico – viene restituito al suo ruolo di macchietta capace solo di causare imbarazzo nel mondo dei sani.
Ed è qui, forse, che il discorso di Milone rivela i suoi limiti più grandi: in quella assoluta incapacità di far collimare prospettive comuni tra la vita fuori e dentro il reparto. L’ospedale è uno spazio di sospensione della socialità, all’interno del quale si possono applicare leggi speciali, come la contenzione: questa è la sua idea. Che però rimane un’idea inutile davanti all’esistenza di un mondo molto più complesso della logica binaria che anima le logiche del reparto. Il limite più grosso di quell’intervento – limite la cui visibilità aumenta pagina dopo pagina – sembra essere quello di non porsi mai in una posizione di ponte tra ospedale e società reale. La logica ospedaliera sembra accompagnare lo sguardo sulla malattia in ogni sua manifestazione: non c’è una funzione sociale della comunità, nessuno è chiamato a farsi carico del suo pezzetto per rendere più gestibile il dolore degli altri. La società non ha nessuna responsabilità verso il disagio sofferto dalle persone che la compongono, sembra dirci Milone: i matti stanno dentro e i sani fuori.
In realtà, Milone sa benissimo che non è vero, tanto da aprire il suo racconto descrivendo una cena tra amici dove gli viene chiesto se davvero in città ci siano tutti questi matti da giustificare la sua mole di lavoro. Lì, con la sua navigata eloquenza, l’autore svela ai suoi amici quanta sofferenza ci sia in quello stesso palazzo dove sono a cena, elencando sintomi che svelano condizioni che affliggono diversi residenti dell’edificio (la signora all’attico è depressa, la ragazza al primo piano anoressica, il vecchio al quinto alcolista e via dicendo, in una dimostrazione di quanto sia possibile per alcuni professionisti emettere diagnosi di terza mano e per interposta persona).
Ma è proprio quella scena, posta in apertura del libro, che rende incomprensibile la polemica finale contro chi porta la discussione sulla questione psichiatrica nei teatri. Se il disagio psichiatrico si nutre proprio di quell’invisibilità sociale – nata dallo stigma in primo luogo – allora è proprio in un discorso allargato, che coinvolga tutti come individui membri di una polis e non soltanto come medici e pazienti, che la questione psichiatrica va affrontata. Parlare di follia ai sani, svelarne i meccanismi e anche le reazioni che essa innesca in tutte le parti coinvolte, non è un astratto esercizio da intellettuali, come il dottor Milone sembra suggerire, ma la base stessa su cui si è sviluppata quello che Norberto Bobbio ha definito la più grande rivoluzione italiana del ‘900, cioè la riforma Basaglia.
Anche se immagino che nella logica binaria di Milone perfino un pensatore come Bobbio possa essere ridotto alla categoria di politico, permettendogli di alimentare ascessi di lirismo antibasagliano con il gusto ipermoderno per lo slogan da social: Politici, volete abolire i manicomi? Eliminate le finestre!.
E di nuovo si ritorna all’astratta divisione tra politici e gente che lavora, senza nessuno spazio per la progettualità sociale: una visione ipersemplificata della politica di cui ci hanno nutrito in tanti negli ultimi trenta anni – dal primo Berlusconi a Beppe Grillo.
Trovo quindi singolare che proprio lo sdoganatore ufficiale di quel messaggio sia oggi l’editore di questo libro: se per berlusconismo è lecito intendere (anche) un preciso modello di svalutazione della complessità, allora quello spirito si adatta alla perfezione alla psichiatria del bullone decantata in queste pagine. E di tutta l’operazione, a mio avviso, quello che appare più sorprendente è proprio la scelta dell’editore, che con maliziosa leggerezza ha cancellato in un solo gesto il valore di un intero catalogo dedicato a Franco Basaglia, a cominciare da quella copia de L’Istituzione Negata che da anni conservo gelosamente nella mia libreria personale.
Per il resto, e per quanto mi riguarda, felice di non vivere a Genova.