Gli utenti del Dipartimento di salute mentale della Asl aquilana, dopo aver passato 5 mesi in tenda, sono ora ospiti in casette sistemate nel parcheggio dell’area di Collemaggio. Nei loro racconti, la vita nei prefabbricati. Daniela: “Nella tendopoli stavo bene, c’era un sacco di gente”. Fernando: “Pure se la tenda era brutta io mi ero fatto tanti amici”. La preoccupazione delle infermiere: “Non è una situazione adatta a queste persone. Speriamo arrivi presto il momento di andarsene”
L’AQUILA – Camminano lenti, fumano una sigaretta, arrivano fino alla Villa Comunale con il loro passo irregolare, lì si siedono sulle panchine o ai tavolini dello chalet e si guardano intorno curiosi. Il terremoto che non ti aspetti è anche quello di queste persone: gli utenti del Dipartimento di salute mentale della Asl aquilana che dopo aver passato 5 mesi in tenda sono ora ospiti in casette sistemate nel parcheggio dell’area di Collemaggio, di fronte alle strutture che prima ospitavano il manicomio e ora uffici e studi della Asl, a pochi metri dalla basilica di Celestino V.
Alcuni di loro hanno pianto quando hanno lasciato il campo del Globo di cui erano comunque diventati una parte importante. Altri sono stati contenti perché capivano che andar via avrebbe significato non fare file per la doccia e per il cibo e non morire più di caldo sotto le “case di tela”. “Io – racconta Daniela, una trentenne romana con disagio psichico che da molti anni ormai vive all’Aquila, in una della case famiglia distrutte – nella tendopoli stavo bene, c’era un sacco di gente, la sera c’erano i volontari e i ragazzi che suonavano o guardavamo un film tutti insieme. Adesso qui siamo soli e la notte ho un po’ paura. Veramente – ammette – ce l’avevo anche prima quando qui nei palazzi di Collemaggio facevo le pulizie con la cooperativa per cui lavoravo: temevo di restare sola nel palazzo e di non riuscire a uscire, se c’erano le mie colleghe però stavo tranquilla”.
Da fine agosto Daniela divide una casetta con un’altra signora affetta da disturbi mentali, con loro c’è una badante. “Questo posto mi ricorda una sera, una settimana prima del terremoto che ha distrutto tutto, in cui è arrivata una scossa forte: l’ho sentita mentre svuotavo i cestini, allora la mia collega mi ha accompagnato qui sul piazzale e mi ha detto di aspettarla. Avevo paura ma lei doveva lavorare. In tenda stavo male perché era scomodo, però non avevo paura, qui invece siamo soli” conclude Daniela. In effetti le 4 casette che ospitano queste persone sono davvero in una zona isolata del complesso di Collemaggio, piuttosto lontana dalla strada, dietro un cancello che anche se perennemente aperto incute disagio e dietro un muro di cinta che per metà è franato verso l’esterno; lo spettacolo di notte è inquietante, nonostante il potenziamento dell’illuminazione.
Gli infermieri del turno notturno non riposano mai e si fanno sulla porta appena sentono che una macchina si sta avvicinando. “Io la porta la chiudo sempre, qui se viene uno può prendere quello che vuole perché non è proprio come una casa, la porta è leggera e non voglio che qualcuno rubi le cose che ho. Così una volta ho chiuso tutto lasciando fuori la mia compagna di casa che ha dormito sul divano fino a quando non sono tornata” racconta ancora Daniela che fa lunghe passeggiate con Fernando, 50 anni, originario di un paesino a mezz’ora dall’Aquila, ospite del Centro di riabilitazione psichiatrica, 10 fratelli: “Non parlavo con uno dei miei fratelli da 30 anni, dopo il terremoto c’ho parlato… il terremoto certe volte fa pure bene”. Fuma molto Fernando: “Lo so che fa male, ma adesso che non abbiamo più le nostre cose come prima, mi annoio… esco, faccio le passeggiate, ma poi devo rientrare perché qui intorno a queste casette ci sono i cani e io ho paura. Allora torno a casa, parlo con gli altri che abitano con me e fumo un po’… Nella tendopoli era duro per la fila per lavarsi e per mangiare, e faceva caldo… ma poi uno ci fa l’abitudine e pure se la tenda era brutta io mi ero fatto tanti amici. Qua invece siamo sempre soli”.
Non si lamentano, ma i loro occhi confermano quanto dicono Daniela e Fernando le infermiere e le assistenti che trascorrono le loro giornate e che non nascondono un po’ di preoccupazione e apprensione per i turni notturni in cui si trovano da sole con gli utenti. “Di giorno di qui passano molte persone per via degli uffici che hanno aperto nei container vicini, ma dalle 16 in poi è terribile. Non è una situazione adatta a queste persone che hanno sempre vissuto fra la gente, tenerle qui recluse non ha senso, ma per il momento, con mezza città distrutta, non si poteva fare altrimenti. Speriamo solo arrivi presto il momento di andarsene”. (Elisa Cerasoli)
(3 novembre 2008)