Abbiamo ricevuto questa lettera con emozione. Che ci sia in questa piazza sempre più numerosa la presenza dei cittadini coinvolti, come delle persone che vivono l’esperienza del disturbo mentale così come dei tanti familiari, arricchisce il nostro lavoro e chiama tutti a un impegno sempre più attento e consapevole.
Il disegno di legge presentato alla Camera e al Senato è sostenuto dalla piazza del Forum. E’ un tema sul quale far convergere tutto il nostro impegno.
Vorremmo che a prendere insieme il caffè ci fossero sempre più i protagonisti.
La Redazione
“Quando il corso normale della vita quotidiana viene spezzato,
ci rendiamo conto che siamo come dei naufraghi che cercano di tenersi in equilibrio
su un pezzo di legno in mare aperto,
dimentichi di dove sono venuti e senza sapere dove vanno.”
(Albert Einstein)
“Càpita di veder rovesciata l’esistenza in un attimo
e càpita che per essere prima ancora un po’ simile a quel che eri prima,
ci vogliano mesi e mesi di pazienza e di attesa”
(Gina Lagorio, Càpita)
Quando la famiglia fa la sua prima conoscenza con il disagio mentale, sofferto da uno dei suoi membri, è come fosse travolta da una valanga. O meglio, forse, da una slavina. Perché nella slavina la neve è spesso polverosa e non permette di vedere nulla.
La famiglia viene “risucchiata” e come dice Alice Banfi “il dolore tiene in ostaggio tutte le famiglie, che per paura della morte e della distruzione ma anche per il timore di quello che sarebbe potuto succedere a casa, si fidano dei medici”.
Solo che di Alice Banfi, dell’Aresam, dell’Associazione “Il Chiaro del Bosco”, del CoLab e del gruppo Familiarmente, del Forum Salute Mentale, dell’Associazione Marco Cavallo, della dottoressa Carla Ferrari Aggradi, della dottoressa Loredana Di Adamo, delle buone pratiche che ancora da qualche parte esistono … abbiamo appreso, da soli, solo dopo che il viaggio nel mondo della salute mentale era iniziato da mesi … per buona parte, appunto, senza nessun aiuto professionale a far da guida.
La famiglia si trova ad affrontare, repentinamente e contemporaneamente, tutta una serie di “criticità” finora inesplorate: un vero e proprio crash della propria routine, della quotidianità; un investimento ingente di tempo e di energie nella negoziazione con i sistemi della salute mentale, dai quali la famiglia si sente accolta “solo per l’indispensabile”; la privazione quasi assoluta dei bisogni degli altri membri che la compongono e l’incapacità totale a portare avanti progetti personali, anche i più insignificanti; la difficoltà nella relazioni compromesse con il mondo esterno, spesso anche con la famiglia “più allargata”; il sentire lo stigma su di sé oltre che sulla persona <“malata”>; una sorta di “lutto” per come era questa persona “prima” che scivolasse nel disagio mentale, la preoccupazione per il futuro e il rimpianto per come ella avrebbe potuto essere.
“I membri della famiglia devono imparare come porre dei limiti, come avere aspettative adeguate, e soprattutto, come rispettare il proprio diritto ad una vita decente” (Gunderson, o forse Hoffman, la famiglia prende talvolta ‘appunti disordinati’): non è facile, i limiti sono spesso travolti da un’onda che penetra e permea ogni piega dell’esistenza.
Ma in questo tsunami, la famiglia cerca di arrabattarsi, scopre ancora una volta che il web, se usato bene, costituisce una risorsa preziosa, sfrutta su più fronti il prestito interbibliotecario, inizia a leggere, a “studiare”; si affida alle parole di Edith Eva Eger, la “ballerina di Auschwitz” e comprende che “non ci è concesso scegliere quello che ci capita ma possiamo decidere in che modo reagire a una data esperienza” e che se smette di concentrarsi sul motivo per cui tutto questo è accaduto e inizia a prestare attenzione a quello che si può fare adesso, ci saranno più “energia ed immaginazione a disposizione per andare avanti invece che da nessuna parte”.
La famiglia piange, piange lacrime amare, dense di incredulità, di impotenza, di rabbia, quando nelle sue letture, scopre che nel 2019, non molto distante da qui, si può morire a diciannove anni legati nel letto di un Spdc , in un rogo, in una stanza chiusa a chiave e pensa:
“E cosa gli ‘raccontiamo’ a quella madre ?”
E rabbrividisce : “poteva anche essere nostra figlia”…
La famiglia inizia ad accettare la propria impotenza a “salvare” da sola la persona che ama ma inizia anche a comprendere che la logica dell’istituzionalizzazione può privare le persone della propria identità ed arrivare a riprodurre comunque in parte le dinamiche di segregazione ed emarginazione tipiche degli OP prima della loro chiusura. E che l’alleanza terapeutica troverebbe invece piena attuazione con un attivo coinvolgimento della famiglia nel processo di recovery.
I giorni scorrono via, “estranei che non hanno motivo di fare una visita” (J. O’Donohue) per la persona sofferente, silenziosi e inconcludenti per il versante familiare, tenuto completamente all’oscuro sui percorsi di cura, sui progetti riabilitativi e sulla loro effettiva corrispondenza alle legittime e personalissime esigenze del loro caro.
La famiglia intuisce che ha bisogno di luoghi di solidarietà, di confronto, di elaborazione: in una parola, di associazionismo.
E li trova. “Piccoli miracoli quotidiani, illuminazioni, fiammiferi accesi inaspettatamente nel buio”. (Virginia Woolf). E dei quali è riconoscente.
(testo firmato)