…e se Marco Cavallo entrasse in tutte le case di riposo?
Di Peppe Dell’Acqua
Non riesco più a contenere il dolore e la paura. Notizie di morte entrano in casa da mattina a sera. Come da tempo mi capita in circostanze singolari come questa sono andato a parlarne da Marco Cavallo.
“Beh, di queste storie, come sai, ne ho viste. Ma così mai, e non riesco a trattenere un nitrito di rabbia quando sento delle tante morti. I vecchi, più di tutti, sono morti e muoiono a migliaia negli istituti, nelle case di riposo nella nostra regione, in tutto il paese, in Europa. E tanto drammaticamente in Lombardia.
Pensa che, quando io muovevo i primi passi nel manicomio di San Giovanni, nei reparti di accettazione, in quello delle donne, l’ambulanza scaricava di notte le vecchie signore, tante volte legate mani e piedi alla barella. Venivano dall’ospedale generale perché disturbavano, perché rifiutavano le medicine, perché non trovavano la porta del bagno, perché chiedevano con insistenza di tornare a casa per dare il latte al bambino. Le spedivano in manicomio. I posti letto presto si esaurivano.
Una giovane infermiera, un giorno, è venuta a trovarmi e con le lacrime agli occhi mi ha detto: «Ma ti sembra giusto, Marco Cavallo, che la caposala, come una vecchia strega, ci dice di lasciare aperte le finestre di notte proprio negli stanzoni dove ci sono le signore più vecchie? Tu capisci perché, vero?». Questo succedeva.
Intanto era arrivato il nuovo direttore e di lui si diceva che era un po’ strambo, che andava a spasso con i malati del manicomio nella città di Gorizia. I più pettegoli dicevano che lo mandavano via perché perdeva tempo con i malati a fare assemblee e a pitturare pareti e non si occupava delle malattie. È più interessato al malato che alla malattia, dicevano. Capivo poco. Mi chiedevo che viene a fare in un ospedale dove ci sono le malattie del cervello, la schizofrenia, le paranoie, le demenze, le manie, i deliri, le voci, le allucinazioni, i farmaci…e le camice di forza, le gabbie, i camerini di isolamento proprio per curare le malattie più pericolose? Ho capito tutto dopo ed è cominciata tutta un’altra storia.
Cominciammo a chiamarci tutti per nome…”
“Ma tu lo sai bene Marco Cavallo che anche le persone quando invecchiano e si ritrovano in un istituto rischiano di perdere il loro nome. Li chiamano tutti Alzheimer, ormai!
Scompaiono le donne e gli uomini e compare la malattia, un cervello a colori con grandi buchi! In questi ultimi decenni, i neuroscienziati hanno fotografato, colorato, studiato parti piccolissime delle cellule che nessuno di noi riesce nemmeno a pensare, hanno scoperto meraviglie. I risultati sono impressionanti e sono di aiuto per tante persone che soffrono di malattie fino a oggi misteriose e inguaribili. Eppure i farmaci per la cura della vecchiaia che ti annebbia la testa, ti confonde e ti cancella la memoria, per quella moltitudine di donne e di uomini che tali sono prima di essere ridotti alla sola dimensione di una malattia, non sono stati trovati. Per chi invecchia male e rischia di perdersi non ci sono farmaci! Restano solo gli istituti.
E invece no! Là dove i soldi si spendono non solo per i farmaci, gli istituti e gli ospedali, le cure sono state profondamente trasformate e la vita delle persone è migliorata alla grande!”
“Lo so bene, dottore Peppe. Sei venuto anche tu in giro per i distretti, per i rioni di Trieste, nei cortili delle case popolari a fare festa quando sono nate le microaree. Sono andato in corteo con le belle bandiere, i ragazzi dei ricreatori, i canti, i girotondi e le torte delle vecchie e simpatiche signore di Ponziana che hanno messo su una scuola di ballo nella sede della microarea e si sono esibite in piazza.
Dopo San Giovanni il sogno più bello si stava realizzando.
Microaree, mi dicevano i giovani operatori, è un progetto appassionante per fare comunità, per fare salute, per affrontare le diseguaglianze, per rendere a tutti il diritto alle cure e per sentirci noi in un bel sogno di futuro. Ma che fatica Marco Cavallo, mi dicevano chiamandomi in disparte, i nemici sono sempre tanti e di questi tempi ancora di più!
Mi hanno voluto dire della medicina di territorio e raccontato del loro andare a casa delle persone, di tanti vecchi soli, magari al quinto piano senza ascensore, a sentire il loro male, la nostalgia, la tristezza o la gioia per una piccola festa da condividere, e inventare sempre qualcosa pur di restare a casa, nel rione, con la vicina che ora partecipa alle riunioni e va ad aiutare, e con i giovani del portierato sociale che ogni giorno chiedono come va, e con l’infermiera di comunità che aiuta a prendere le medicine senza sbagliare, che viene a misurare la pressione, a fare il prelievo per la glicemia; e il medico di famiglia, il medico del distretto e gli specialisti che quando serve vanno a casa. Facciamo di tutto, mi hanno detto, perché specie i più vecchi e le vecchie signore, i più malandati, i più scontrosi possano restare a casa magari con la badante della cooperativa, con l’aiuto dell’assistente sociale del comune, magari col pranzo quotidiano a domicilio, con la compagnia di un ragazzo o una ragazza del servizio civile, con le signore della parrocchia…
I vecchi… non bisogna lasciarli in pace, mi hanno detto in coro ridendo mentre andavo via.
“Mi sembrava di tornare a quella domenica di febbraio di mezzo secolo fa, quando siamo usciti tutti festanti, orgogliosi e impauriti da San Giovanni. Anche noi cavalli sappiamo bene che le persone e i cavalli stanno meglio se possono restare a casa propria e se il fieno è buono, se la stalla è proprio la tua e magari ci sono stallieri, cavalline e puledri che conosci e ti girano intorno e che, quando non ce la fai più a tirare il carro, ti aiutano a restare sempre insieme agli altri. Ma non succede mai. Sempre lo stesso finale: mattatoio…ospedali, case di riposo, istituti…e navi in mezzo al mare!
Quando, dopo vent’anni di onorato lavoro, mi hanno mandato in pensione, portavo su e giù il carro per i viali di San Giovanni, per non farmi mandare al macello, i matti si sono mobilitati, ti ricordi, e sono stati capaci di accompagnarmi in Friuli in una bella stalla, una bella campagna con tanto buon fieno, stallieri e cavallini che ancora stanno con me e hanno piacere di ascoltare i miei racconti…che temo, sono sempre gli stessi. Io sono felice anche se capisco che spesso fanno solo finta!
“Tu, dottore Peppe, ci sei entrato in qualche istituto, in una casa di riposo, in una geriatria? Non sono affatto come la stalla dove io sto vivendo la mia vecchiaia. Arrivi e qualcuno ti dice «sì sì, qua abbiamo dieci Alzheimer», e tutto finisce lì: il catetere, la pressione, gli esami del sangue, la padella, le bandine perché la signora Alzheimer può anche cadere dal letto e le fasce, mani e piedi legati, perché il signor Alzheimer può diventare perfino violento.
“Con il mio amico ippogrifo, che ha la fortuna di avere le ali, sarei voluto andare sulla Luna per riportare un po’ di saggezza e un po’ di memoria nella testa degli uomini e delle donne, e tra noi un po’ di parole che si vanno perdendo…”
“Non posso non ricordare le parole umanissime della legge di riforma sanitaria del 1978: vicinanza, equità, libertà, dignità. Parole che sono state tradite nel corso di 40 anni, un pezzo alla volta, senza che ce ne accorgessimo. Quella volta era ministra della salute Tina Anselmi, la giovane partigiana Gabriella. E invece il fallimento del sistema sanitario, ospedale al centro e privato, in alcune regioni più che in altre, è ormai indiscutibile e si capisce che l’orrore della strage dei vecchi viene da lontano. Vecchi che hanno avuto la ventura di ritrovarsi di questi tempi nelle nuove istituzioni totali che politiche scellerate hanno fatto nascere sotto i nostri occhi indifferenti. Tra istituti e case di riposo sono 7000 e contengono più di 300.000 persone.
Quella volta noi giovani scoprivamo che la persona è sempre la sua storia, che non si può vivere gli uni senza gli altri e che ognuno di noi, anche quando scambia un orologio per una macchinetta del caffè, una penna per una forchetta, una saponetta per un bignè, ha sempre il desiderio di continuare a vivere. Insomma, di esserci. Esserci significa noi che stiamo insieme, tutti, nessuno escluso…
La vecchiaia in tutte le sue forme chiede sempre di essere ascoltata: quando racconto sempre la stessa storia, quando per mezza giornata cerco gli occhiali e non li trovo perché li avevo sul naso, quando in tanti momenti penso che di lì a poco dovrò andare a trovare mia madre che mi sta aspettando, quando non sono più capace di farmi nemmeno un caffè, o quando non trovo la strada per tornare a casa o per uscire e mi perdo e ho paura. Tanta paura che scappo via senza una meta…e quando, oh mio Dio, mi è scappata…
Per fortuna, le donne e gli uomini che invecchiano, un numero che non so dire tanto è grande, e tutte le persone che vivono la loro faticosa diversità chiedono di restare nelle relazioni, di non essere catalogati “non autosufficienti” e archiviati, di non diventare invisibili, di essere sorretti per resistere fin tanto che è possibile. Di non essere aiutati, riluttanti e straziati, a salire le scale dell’istituto.”
“Invece, dottore Peppe sempre più, essere vecchi, specie quando la vecchiaia è più dolorosa, piena di acciacchi, di solitudine, di miseria finisce per essere una condizione che non prevede più che ci sia vita nella tua vita ma che tragicamente la tua vita è finita, scomparsa dentro una parola.
Ma io saprei bene cosa fare. Una cura da cavallo ci vorrebbe!
Mi piacerebbe diventare ministro della Salute. Un cavallo azzurro ministro della Salute! Un cavallo che ha fatto saltare i muri dei manicomi, ha aperto le porte delle carceri, che dice in ogni luogo i desideri, le passioni, gli amori, delle persone che fanno fatica a vivere e a stare con gli altri.
Da ministro della Salute chiederei al mio collega, Frisone, cavallo guerriero e naturale ministro della guerra, di prestarmi per qualche giorno i droni più moderni muniti delle bombe più intelligenti, almeno 7000. Farei evacuare tutti gli istituti e le case di riposo e con intelligente precisione guerresca…!”
“…Ma cosa dici, Marco Cavallo, capisco la tua rabbia, ma non dimenticare che pensieri di guerra così tremendi non li hai mai amati: hai sempre con te fiori, canti, operine e danze. Sei inesorabile nel tuo riconoscere il dolore, la separatezza, il non amore, l’abbandono, la solitudine e la disperazione. Un corpo il tuo che col suo potere magico abbatte i muri, scardina le porte, travalica ogni confine, contrasta ogni forma di esclusione…”
Trieste, maggio 2020
Peppe Dell’Acqua
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