“Quando la gente si tiene ai margini tende a interagire negativamente con chi incontra”
Il paradosso è che oggi, malgrado Facebook & C., ci sono meno relazioni sociali
ANGELO AQUARO
NEW YORK
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dal nostro inviato
Chi è solo avvelena anche te: digli di smettere. Ci vorrebbe una pubblicità progresso politicamente scorretta per estirpare l´ultimo frutto del logorio della vita moderna: la solitudine. Almeno questo suggerisce una ricerca che sta spopolando negli Usa. La solitudine è contagiosa, dice lo studio del professor John Cacioppo, celebrato neuroscienziato dell´università di Chicago e già autore con William Patrick di “Solitudine: la natura umana e il bisogno delle relazioni sociali”, un libro che malgrado il titolo campeggia tra gli affollati bestseller americani.
Ma come si fa a stabilire che la solitudine è contagiosa? La preoccupazione di Cacioppo & Co. è innanzitutto quella di non etichettarla come “malattia”: «La solitudine non è neppure una debolezza personale, è soltanto una reazione biologica, come la sete e la fame». Come la fame e la sete ti fanno ammalare, la stessa cosa può dirsi però anche della solitudine: per questo il “contagio” va fermato.
«È un fenomeno che abbiamo osservato fino al terzo grado di separazione”, dice il professore. Il conoscente di una persona sola ha il 52 per cento di possibilità in più di “ammalarsi” di solitudine, il conoscente del conoscente il 25 per cento e il terzo “contagiato” solo il 15. Stop: al quarto grado di separazione siamo tutti salvi.
La solitudine, insomma, che negli Usa affliggerebbe cronicamente il 20 per cento della popolazione, si sviluppa in cerchi concentrici. La persona sola, dice lo studio, tende a isolarsi sempre di più, ma nel cammino verso i confini della socialità “trasmette” il sentimento di solitudine agli altri.
«Quando la gente si isola, tende a interagire negativamente con chi incontra». Così l´evoluzione della solitudine è foriera di due paradossi. Il primo è che si tratta di fenomeno sociale e non individuale. «Si dice: quello è un tizio solitario. Ma questa è la concezione sbagliata. La solitudine è invece una specie di segnale biologico che dovrebbe spingerci a correggere il nostro comportamento. L´uomo ha bisogno delle relazioni sociali: per sopravvivere». Il secondo è che si espande proprio nell´era dei social network. «Nel 1984 alla domanda “quanti amici hai” la risposta media era tre. Oggi è zero», dice Cacioppo al Boston Globe. «Non è che i contatti sociali siano diminuiti – sostiene – è che hanno trovato altri sbocchi. La gente ha centinaia di amici su Facebook. Ma questo è sbagliato. Noi ci portiamo dietro 60mila anni di vita sociale. Rinunciarci apre le porte all´infelicità e ai problemi di salute: depressione, mancanza di sonno, malessere».
Ovviamente la ricerca di Cacioppo non convince tutti gli esperti. «Il modello statistico non è molto chiaro, i numeri possono trarre in inganno», dice al Washington Post Jason M. Fletcher dell´Università di Yale. Il professore ha dimostrato che certi dati – se non analizzati correttamente – potrebbero far pensare che perfino acne e mal di testa vengono trasmessi socialmente. Ma Fletcher, manco a dirlo, per ora è solo: a meno che non contagi qualche altro professore.
“Non è una malattia e in alcuni casi è una scelta di vita”
CATERINA PASOLINI
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«La solitudine una malattia contagiosa? Non sono d´accordo. La solitudine può essere un´occasione, una scelta, una liberazione. Per smettere di ingolfarsi la vita di persone e impegni scelti in realtà solo perché non si è capaci proprio di stare soli». Niente semplificazioni con il professor Antonio Lo Iacono, autore di “Psicologia della solitudine”, Editori Riuniti.
Quante sono le solitudini?
«Tante. C´è quella momentanea e quella ricercata, vissuta come una liberazione ma che non è una fuga dal dolore, da se stessi, o dai problemi. Una solitudine in libera scelta come quella dei navigatori solitari o di chi va a scalare».
Solitudine come occasione?
«Sì, per incontrare se stessi, per conoscersi e accettarsi. Perché la solitudine vissuta come sofferenza e depressione è spesso legata al fatto che uno non si piace».
Mi sento solo perché non mi stimo?
«Anche. Molte persone che dicono di soffrire di solitudine e vivono con tre cellulari, tv accese, sempre con amici e conoscenti o lavorando come matti, fanno tutto questo perché hanno una profonda difficoltà a stare con se stessi».
Dipendenti dal mondo?
«Dai rapporti, dal lavoro, dall´amore o dal bisogno degli altri. Molti tra coloro che soffrono di solitudine sino alla depressione sono tra i più attivi nel volontariato perché hanno bisogno di riempirsi del bisogno che gli altri hanno di loro».
Una solitudine molto rumorosa.
«Usano gli altri per evitare di incontrare se stessi perché non si piacciono. E invece di affrontare la questione rimandano. Sino al giorno in cui arriva la pensione, il tempo vuoto e piomba la depressione».
tratto da: La Repubblica 02/12/2009