Di Maria Grazia Cogliati Dezza, psichiatra, già responsabile del Distretto 2 e coordinatrice socio sanitaria dell’Azienda sanitaria triestina
La medicina si fa realtà
Spesso negli anni, e forse ancora oggi qualcuno lo pensa, l’ospedale ha definito la medicina territoriale come una forma di sotto-medicina e il lavoro del distretto quasi una sorta di assistenza sociale. Noi pensiamo, invece, di fare davvero la medicina di territorio, e intanto cominciamo a pensare alla medicina di comunità.
La cura, medica e assistenziale, indicata da linee guida internazionali, è la stessa in ospedale e nel territorio, per quelle patologie, specie in quelle di lunga durata, che possono essere curate nei due differenti ambienti. Certo dipende dalla gravità della patologia. Ma in ospedale, giustamente, si guarda la malattia; va raggiunto il massimo risultato nel più breve tempo possibile per restituire la persona alla sua vita. Nel territorio, si guarda il malato, e guardare la malattia sarebbe dannoso e poco efficace. Quello che conta a domicilio, calcolando le infinite variabili che circondano e condizionano il decorso della malattia, non è solo la cura, ma è il prendersi cura. Garantire un accompagnamento della malattia che permette al malato di accedere alla cura.
Tra il curante e il curato c’è spesso una distanza abissale, un vuoto inerziale. Nelle case ove entriamo, troviamo spesso pile di farmaci prescritti, acquistati, non consumati; prescrizioni di esami diagnostici mai effettuati; una persona affetta da diabete che assume la terapia prescritta con acqua colma di cucchiai di zucchero; persone con importanti lesioni da decubito che abitano in case dove l’igiene è un lontano ricordo.
E il curante che cura e non si prende cura non sa e non si informa su quanto consegue alle sue indicazioni. Se queste indicazioni discendono dalle linee guida internazionali ha fatto quanto doveva. La responsabilità del rifiuto delle prescrizioni sta nel soggetto che non vuole curarsi. Sappiamo che molto spesso non è cosi. Quando si parla di libertà di scelta ci si deve interrogare su quanto si dedica all’ascolto e alla negoziazione e se questa libertà è suffragata da una sufficiente consapevolezza.
Rendere consapevoli, informare, stimolare stili di vita corretti, negoziare con il soggetto, rispettare le sue modalità, non abbandonare. Prendersi cura, direttamente e indirettamente, del malato, dove necessario, è l’unico modo possibile per fare salute in un territorio. È la medicina che si fa realtà.
Al Distretto 2, per esempio, sono attribuiti 67 Medici di medicina generale (Mmg), i quali però, nel rispetto del principio di garantire il criterio della libera scelta di ogni cittadino, seguono pazienti residenti in tutto il territorio cittadino e di fatto si interfacciano ognuno con i servizi dei 4 distretti. Un’organizzazione questa che definirei superata, non più rispondente allo sviluppo del territorio, alla necessità di collaborazioni continuative e consolidate sempre con gli stessi operatori, di un unico distretto, alla conoscenza approfondita delle particolarità di un microterritorio e dei cittadini che lo abitano. Sarebbe interessante se i Mmg, organizzati in gruppi, adottassero con ogni gruppo un rione o una piccola parte di città. Come il parroco di una parrocchia, dovrebbe esistere il gruppo di medici di medicina generale di quartiere, riferimento per il territorio prescelto. Invece accade che i 400 abitanti della Microarea di Vaticano sono seguiti da 60 Mmg! È difficile, in queste condizioni, per il medico utilizzare a pieno le potenzialità dei servizi distrettuali che potrebbero invece costituire una formidabile cassetta degli attrezzi.
Nel 2005, a partire da questa criticità, e per superare le separatezze presenti tra Mmg, specialisti, medici di distretto, infermieri e servizi distrettuali, abbiamo sperimentato il Gcp, gruppo delle cure primarie. Venti Mmg del Distretto hanno svolto attività ambulatoriale e domiciliare nella sede distrettuale a stretto contatto con infermieri, medici di distretto, specialisti, ecc. Invitati a produrre elenchi di propri pazienti affetti da patologie di lunga durata e distinti per patologia, cosa non troppo facile, si è proceduto ad effettuare valutazioni congiunte coinvolgendo gli operatori di distretto competenti e definendo un programma di azioni di più attori finalizzato a garantire continuità della cura, prevenzione delle criticità, riduzione dei ricoveri impropri, del consumo eccessivo di farmaci. Si è costruito così un micro sistema funzionante, integrato. Si sono consolidati o approfonditi rapporti di collaborazione, si sono scambiate conoscenze e cultura, con guadagno di salute dei cittadini in carico e risultati di efficacia e risparmio per il sistema sanitario. Certo il gruppo era incentivato. Con una spesa maggiore oggi si incentivano programmi meno significativi della medicina generale. La riforma del sistema sanitario, proposta dal ministro Balduzzi (Legge 8 novembre 2012, n. 189), se ha il pregio di aggregare i Mmg, prescinde completamente dall’integrazione di questi con i servizi distrettuali e dal governo distrettuale. Sembra, nella legge, che il Distretto non esista più.
[continua]