940943_693665627440159_5089615557443105803_nBuone pratiche, preoccupazioni  e prospettive dopo otto mesi di lavoro in Emilia Romagna.

Di Pietro  Pellegrini e Giuseppina Paulillo

L’intervento di Piero Pellegrini, del 18 dicembre us, al convegno internazionale triestino “Territori senza segregazione” ha portato un contributo alla riflessione attento, rigoroso capace di aiutarci a guardare in avanti. Molti operatori e amministratori che si trovano a progettare, organizzare e gestire le Rems riconoscono un bisogno di conoscenze, di confronto e di indicazioni che non riescono a trovare negli atti governativi. La legge 9/2012 e la 81/2014, come nell’articolo che pubblichiamo, vanno lette con attenzione, interpretate con quella necessaria capacità critica che può aiutarci a costruire davvero percorsi nuovi e di “liberazione” nel paese della 180. L’assetto e le pratiche che si vanno realizzando nelle Rems non sembrano ancora capaci di operare criticamente, tanto che lo stesso contributo di Pellegrini si trova a stimolare riflessioni e aggiustamenti nella sua stessa Regione.

Nei prossimi giorni pubblicheremo le risoluzioni e le esperienze del FVG e, più avanti, l’orrore esemplare della Rems penitenziaria di Nogara (Verona)

Introduzione

Le leggi n. 9 del 2012 e n. 81 del 2014 hanno sancito la chiusura, al 31 marzo 2015, degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG). Il legislatore non ha rivisto in modo organico gli articoli del Codice Penale (c.p.) su imputabilità, pericolosità sociale e misure di sicurezza e pertanto si è creato un sistema in cui le nuove norme devono confrontarsi con molte altre, si pensi ad esempio al regolamento penitenziario, che risultano del tutto inapplicabili nel nuovo contesto. Ne è derivato un modello  non del tutto definito che va costruito con le pratiche partendo da un’evidenza: i disturbi mentali sono curabili e questo deve avvenire di norma nel territorio di residenza e non in ospedale e in una prospettiva di libertà e responsabilità secondo il modello della recovery.

Cosa prevede la riforma?

La legge 9/12 ha stabilito la regionalizzazione degli OPG, la dimissione dei pazienti non pericolosi e la predisposizione delle Residenze per l’Esecuzione delle misure di sicurezza (REMS) con ambito regionale,  insieme ad un potenziamento dei servizi psichiatrici territoriali.

La legge 81/14 introduce una forte innovazione nel momento in cui dispone che si possa mantenere il ricovero in ospedale giudiziario soltanto quando non sia possibile assicurare altrimenti cure adeguate alla persona internata e contemporaneamente a fare fronte alla sua pericolosità sociale. Viene data la netta priorità alla cura e all’applicazione di misure di sicurezza non detentive (la libertà vigilata)  mediante la collocazione delle persone nei contesti ordinari dei dipartimenti di salute mentale o nel territorio di residenza considerando la misura di sicurezza detentiva e il ricovero in REMS  come scelta del tutto residuale. La legge ha anche previsto la revisione del programma di costruzione delle REMS ridefinendone (al ribasso) il numero e la dotazione complessiva dei posti letto a conferma della scelta che non sono le REMS a sostituire gli OPG ma è l’insieme dei servizi sanitari e sociali di una comunità chiamata a farsi carico della persona cui vengono riconosciuti doveri (aderire a prescrizioni del giudice),  diritti e garanzie. In questo spirito, la legge dispone che la durata della misura di sicurezza non possa essere superiore alla pena massima edittale prevista per il reato commesso e definisce che la mancanza di programmi territoriali non possa essere addotto come motivazione per la permanenza in OPG.

Un cambiamento molto rilevante che richiede un grandissimo impegno da parte di tanti diversi soggetti e configura un lavoro difficile, complesso, carico di contraddizioni e rischi ma anche di potenzialità e aspetti positivi.

Nella Regione Emilia Romagna, un lavoro iniziato già circa 15 anni fa con l’apertura di una Residenza dedicata (Sadurano, Forlì) e continuato, dal 2009  con la gestione da parte dell’Ausl dell’OPG di Reggio Emilia, due importanti precedenti che hanno consentito di maturare esperienze,  procedere a dimissioni, a migliorare cura e per quanto possibile anche alcuni aspetti ambientali dell’OPG, ci si è trovati nella necessità di dovere rispondere in tempi relativamente brevi alle disposizioni della legge 81/2014, essendo evidente che la struttura progettata allo scopo, la REMS di Reggio Emilia non sarebbe stata disponibile prima di 3 anni.

Nell’estate 2014 vi è stata una discussione se adottare il modello “diffuso” consistente in posti REMS nelle ordinarie residenze o se costruire due REMS temporanee e articolate con i territori. Due soluzioni diverse, non alternative ma in larga misura integrabili in quanto senza territori attivi, recettivi e inclusivi, la REMS sono destinate rapidamente a saturarsi. Tuttavia la constatazione che il modello “diffuso” richiede tempo e la necessità di formare un ampio numero di operatori oltre che di affrontare molteplici problemi comprese inerzie e resistenze, per procedere in modo spedito e restare nei tempi si è optato per 2 REMS temporanee di piccole dimensioni, 14 posti a Bologna, 10 a Casale di Mezzani (PR), sia per non avere strutture grandi sia per garantire un elevato rapporto utenti/personale.

Nell’autunno del 2014 sono iniziati i lavori preparatori (amministrativi, edilizi, formativi e sanitari)  per l’attivazione della due REMS temporanee aperte entrambe nell’aprile 2015.

La discontinuità con l’esperienza dell’OPG è stata fondamentale: si trattava infatti di inventare strutture originali,  sia sotto il profilo strutturale che percorsi,  diverse dall’OPG (che come tutte le istituzioni totali tende a mantenersi e riprodursi) , dal carcere (dal modello della sanità penitenziaria) e da una comune Residenza psichiatrica. Come si diceva, pur partendo dalle esperienze sviluppatesi negli ultimi anni con le tante dimissioni dall’OPG, si è dovuti andare molto oltre. Sono stati formulati nuovi protocolli tra soggetti diversi e la capacità di collaborare tra istituzioni diverse è stata fondamentale.

A che punto siamo?

Al 13  novembre 2015 dai dati disponibili a livello nazionale, risultano ancora in OPG 234 pazienti mentre al 15 marzo 2015 erano 689 e nessun OPG risulta effettivamente chiuso (ndr: a fine dicembre 2015 l’Opg di Napoli Secondigliano è stato chiuso); l’OPG di Castiglione, riorganizzato come insieme di REMS, ospita 231 persone mentre nelle Rems di nuova  attivazione  i pazienti  sono 208 (di cui 25 donne).

In Emilia Romagna, con 4,5 milioni di abitanti circa, 24 posti di REMS sembrano sufficienti, specie se come è accaduto in questi primi 7 mesi sono stati dimessi 10 pazienti e al momento ben 5 persone ospiti delle REMS sono residenti in altre regioni. Nessuno cittadino dell’Emilia  Romagna è in OPG.

Dopo circa 8 mesi di esperienza, schematicamente i principali temi sono:

a) Occorre evitare che persista il c.d. “residuo ex OPG” e vanno costruiti percorsi in ogni regione

In questa fase è necessario evitare che si determini un lungo periodo di sopravvivenza degli OPG (come accadde per gli OP che sono rimasti in attività quasi 20 anni dopo la  legge 180 del 1978) anche per non alimentare ripensamenti, processi impropri di riconversione, cambi di denominazione che sotto nuove sigle ripropongano il vecchio modello custodialistico.

Il mancato rispetto della legge prevedeva il commissariamento delle regioni inadempienti e, ad oggi, la situazione è molto variegata: regioni che hanno predisposto percorsi e soluzioni, altre che ancora non hanno realizzato nulla di operativo (Veneto, Piemonte, Toscana, Abruzzo, Lazio, Campania, Calabria, Puglia). L’applicazione della legge a “macchia di leopardo” comporta l’invio di pazienti in regioni diverse, la mancata applicazione di misure detentive, l’assenza di responsabilizzazione dei servizi e dei contesti sociali di riferimento. Questo è antiterapeutico. Inerzie, ritardi e carenze vanno rapidamente colmati per non compromettere lo spirito della legge. L’esperienza dell’Emilia Romagna dimostra che la legge può funzionare:  la maggior parte dei pazienti è stata dimessa in ordinari contesti sociali e sanitari, le REMS sono attive e temporanee (sia per il paziente,  sia come istituzioni).

b) Tutelare e rinforzare il mandato di cura, abilitazione e inclusione sociale

Per questo occorre:

  1. Rivedere le procedure per l’accesso;
  2. Dare respiro ai programmi personalizzati presso la REMS;
  3. Affrontare e risolvere la questione della “posizione di garanzia”.

1) Rivedere le procedure per l’accesso e le prassi operative

In questi mesi si è verificato che le misure di sicurezza provvisorie di tipo detentivo in REMS per soggetti provenienti dalla libertà, siano disposte dalla magistratura di cognizione spesso senza una perizia e un’ adeguata valutazione psichiatrica dando netta priorità alla misura di sicurezza piuttosto che alla cura e abilitazione di un disturbo mentale che in diversi casi non è nemmeno diagnosticato.

In questi casi, se vi sono necessità di tipo giudiziario, credo sia pertinente la misura della custodia cautelare in carcere (art. 275 c.p.p. comma 3) in particolare per i reati gravi (omicidio, tentato omicidio) in quanto le esigenza giudiziarie di sicurezza sono del tutto prevalenti, se non esclusive.

Se il soggetto viene tradotto in carcere,  per quanto attiene alla salute mentale è necessario che vi sia un’approfondita valutazione psicologica e  psichiatrica. Se la persona, per le sue condizioni di salute mentale,  non pare compatibile con la permanenza in carcere può essere collocata (art .286 c.p.p.) presso una struttura sanitaria indicata alla magistratura dal perito o dal direttore del Dip. di salute mentale competente per territorio. Se è da effettuarsi in regime di ricovero è preferibile che questo avvenga presso il Servizio Psichiatrico di diagnosi e Cura (SPDC) o Servizio Psichiatrico Ospedaliero Intensivo (Spoi) o Casa di Cura specialistica.

Solo dopo che vi è stata una valutazione psichiatrica potrà essere data corretta applicazione alla legge 81/2014. Per questo è necessario uno sforzo della magistratura di cognizione affinché l’utilizzo della misura di sicurezza detentiva (e della REMS) rappresenti l’estrema ratio e non sia la prima scelta magari in ragione di prevalenti o esclusive esigenze custodiali il che è del tutto contrario allo spirito della riforma.

Per risolvere questo problema possono essere di grande aiuto la definizione e la condivisione di percorsi proceduralizzati, la reciproca conoscenza e dialogo tra psichiatri e magistrati, l’esplicitazione delle risorse a disposizione. Lo stesso dovrebbe avvenire per le misure di sicurezza definitive che sono competenza della magistratura di sorveglianza, alla quale nello spirito di garanzia previsto dalla legge, spetta la vigilanza sul corretto utilizzo (compreso quello effettuato dalla magistratura di cognizione) e sul funzionamento delle REMS.

Sappiamo bene che la nuova legge si inserisce su normative precedenti che in larga misura non possono essere applicate (si pensi all’ordinamento penitenziario) e richiedono una ridefinizione dei ruoli e dei percorsi: ad esempio del giudice che non può limitarsi ad un giudizio sull’imputabilità delegando poi il resto ad altri ma nel quesito posto al perito dovrà preoccuparsi anche del dopo; o del perito che non può limitarsi ad esprimesi su imputabilità e pericolosità sociale ma dovrà indicare anche la misura ritenuta più idonea, tramite una imprescindibile (e possibilmente) fattiva interlocuzione con il DSM-DP competente per territorio.

Una proposta interessante potrebbe essere quella di regolare l’accesso ed i percorsi  attraverso il Cruscotto Regionale anche per risolvere il problema delle misure di sicurezza detentive non eseguite per mancanza di posti letto. Il Cruscotto regionale dovrebbe essere il riferimento per gli accessi e ad esso dovrebbero rivolgersi oltre ai periti,  il DAP e la magistratura. Il cruscotto dovrebbe provvedere all’attivazione dei DSM-DP competenti per territorio e favorire la valutazione per la corretta applicazione della legge 81/2014 fornendo alla magistratura e al DAP orientamenti e proposte in ambito sanitario che potranno poi essere validate.

In uno spirito realmente nuovo si potrebbe prevedere l’abolizione del procedimento di immatricolazione (qualora non sia è stata effettuata in precedenza mentre e per il nuovo  dovrebbe avvenire solo se il soggetto entra nel circuito penitenziario).

Il cruscotto potrebbe operare anche il monitoraggio dei progetti dei pazienti ospiti delle REMS al fine di facilitare le dimissioni e dei pazienti dimessi dagli OPG e dalle REMS (Programmi di ricerca sugli esiti e di formazione)

2) Dare respiro ai programmi personalizzati presso la REMS

La questione dell’applicazione dell’Ordinamento Penitenziario (OP, legge 354/75) e dei regolamenti delle REMS va risolta. In altri contributi ho evidenziato come larga parte dell’ Ordinamento penitenziario non sia applicabile nelle REMS. Un recente (23 luglio 2015) documento “Misure di sicurezza – Tema per Stati Generali dell’Esecuzione Penale – Tavolo 11” , Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, Ufficio Studi Ricerche Legislazione e Rapporti Internazionali (a firma della Dr.ssa Roberta Palmisano) (vedi il documento) ritiene che l’esclusiva gestione sanitaria all’interno delle REMS ove non vi è presenza di polizia penitenziaria, renda “incompatibili: le norme che limitano la permanenza all’aperto (art. 10 OP); quelle disciplinari (artt. 38-40); le norme che vietano di possedere denaro (art. 77); le modalità e il numero dei colloqui e delle telefonate (art. 18, 37, 39)”. Sono incompatibili altresì le norme che si riferiscono ad esigenze di ordine e sicurezza: quelle relative alle perquisizioni (art. 34); l’impiego della forza fisica (art. 41); il regime di sorveglianza particolare (art 14-bis); il regime del 41-bis; i trasferimenti per motivi di sicurezza (art. 42)”.

Questo significa che la gestione interna alla REMS è competenza sanitaria e  q  uindi va regolata secondo questi principi: quindi colloqui, visite, telefonate, uso del computer,  ingressi di familiari e tutta la normale attività della struttura devono dipendere solo dai sanitari.

La legge n. 9/2012 non ha abolito la misura di sicurezza del ricovero in OPG e “nei confronti degli internati destinatari di questa misura, ricoverati nelle REMS, troveranno senz’altro applicazione tutte le norme del codice penale e del codice di procedura penale riferite agli internati tra cui: l’art. 214 comma 2 c.p. (inosservanza delle misure di sicurezza detentive);l’art. 123 comma 1 c.p.p. (dichiarazioni e richieste di persone detenute e internate);l’art. 174 comma 2 c.p.p. (prolungamento dei termini di comparizione); l’art. 666 comma 4 c.p.p. (audizione da parte del magistrato di sorveglianza del luogo ove si trova l’internato se posto fuori della circoscrizione del giudice).

Permane in capo alla magistratura di sorveglianza il compito di vigilare sulle strutture che ospiteranno gli internati e troveranno applicazione le relative norme:art. 677 comma 2 c.p.p.) (competenza della magistratura di sorveglianza);art. 679 c.p.p. e 69 O.p., che prevedono il controllo della magistratura di sorveglianza sull’esecuzione delle misure di sicurezza personali; art. 5 D.P.R. n. 230/2000 che prevede le visite del magistrato di sorveglianza nei luoghi ove la misura si svolge.

Compete alla Magistratura di sorveglianza, nella sua funzione di garanzia, il compito di vigilare sulle REMS.  Per quanto attiene alla cura mettendo in primo piano la questione dell’identità della persona definita come “internato” questa stessa definizione contrasta con le finalità delle strutture sanitarie ove si parla di “persona affetta da un disturbo mentale” (ad es. affetto da schizofrenia mai “schizofrenico”) e con  una misura di sicurezza. La persona è sempre qualcosa in più e di diverso rispetto alla patologia e ad una eventuale limitazione della libertà. Un cambiamento di terminologia, abbandonando i termini “internato” e “minorato” sarebbe quanto mai utile al fine di segnare anche tramite il linguaggio, una diversa concezione, un cambio di mentalità.

Il citato documento dell’Ufficio Studi Ricerche Legislazione e Rapporti Internazionali del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria  ritiene a ragione che “molte norme della legge 354/75 nell’enunciare i diritti richiamano espressamente gli internati e in primo luogo il diritto alla parità di condizioni (art. 3) e il diritto ad esercitare personalmente i propri diritti (art. 4). Inoltre: il diritto a locali adeguati (art. 6);(..)  il diritto al vestiario (art. 7); il diritto all’igiene personale (art. 8); (..) il diritto a praticare il proprio culto (art. 26); assistenza alle famiglie (art. 45);il diritto ad un’alimentazione adeguata (art. 9); il diritto al trattamento rieducativo individualizzato (artt. 1, 13, 15, 17, 19) e alla conseguente osservazione sulla cui base è redatto il programma personalizzato.(..)

Un piccolo dettaglio: in relazione a igiene e vitto, il citato documento ritiene che” gli Accordi locali dovranno prevedere uno specifico riparto di oneri” tra amministrazione penitenziaria e servizio sanitario regionale. Una lettura burocratica ed economica certamente corretta che non ha per ora trovato applicazione nella Regione Emilia Romagna ma traduce, forse del tutto inconsapevolmente, la possibile persistenza di una cultura penitenziaria, di un legame tra amministrazione penitenziaria, carcere e le nuove strutture, le REMS che invece hanno bisogno di affrancarsi per ogni aspetto dai modelli carcerari ed OPG e per questo utilizzano anche tutte le attività della vita quotidiana (compreso cura di sé, vitto, alloggio ecc.).

Ben più rilevante è il tema del diritto al “trattamento rieducativo individualizzato”. Comprendo molto bene lo spirito positivo che anima tale affermazione ma occorre notare che vi è una notevole differenza tecnica fra un “trattamento rieducativo” e un “progetto terapeutico riabilitativo” per quanto entrambi “individualizzati”. Non mi dilungo sui differenti riferimenti teorici, sulla necessità di valutare e trattare la patologia, la disabilità primaria, secondaria, bisogni, livello di autonomie, il livello di funzionamento psicosociale, livello di adattamento ecc. per i quali rimando a testi specifici.

E’ questa una precisazione essenziale onde evitare che vi sia una lettura impropria e prevenga ogni malpractice  quale sarebbe il tentativo di rieducare e non curare un paziente affetto da un disturbo mentale (grave). L’aspetto educativo e rieducativo è solo una parte da applicarsi, se possibile e al momento opportuno,  nell’ambito di un programma terapeutico riabilitativo che vede la necessità di interventi medici, psichiatrici, psicologici e psicoterapici, individuali e di gruppo, psico-sociali, tecniche riabilitative e abilitative (negli ambiti dell’abitare, formazione lavoro, relazioni). Nonché di un’azione sui contesti familiari e sociali (psicoeducazione, auto mutuo aiuto, sensibilizzazione) nell’ambito di un intervento di tipo “bifocale” (attuato contemporaneamente sulla persona e sul contesto).Tutto questo è ben diverso dall’utilizzare solo strumenti educativi e rieducativi. Questo implica la possibilità di esercitare al meglio il mandato di cura, lasciando agli operatori della salute mentale il necessario spazio operativo, l’opportuna flessibilità da concordare in termini generali per l’intera REMS e specifici sul singolo caso, tra psichiatri e  magistrati.

Nell’ambito di questo impianto certamente sono essenziali una serie di collaborazioni volte ad attivare la comunità di riferimento e a favorire l’inclusione sociale. “Gli Accordi locali dovranno prevedere la presenza di eventuali altre figure professionali (insegnanti, lavorazioni), assicurare che anche la comunità esterna partecipi all’azione rieducativa (volontari) e che siano acquisite, oltre alle informazioni sanitarie, tutte le altre informazioni utili (socio-familiari, lavorative, psicologiche, relative all’istruzione, tossicodipendenza, alle relazioni interpersonali, ad eventuali comportamenti auto lesivi …) a supporto delle decisioni del Magistrato di Sorveglianza e assicurare interventi trattamentali integrati anche nell’ambito del territorio: il ricovero in luogo esterno di cura (art. 11);il lavoro all’esterno (art. 21);l’assistenza all’esterno dei figli (art. 21-bis);le visite al minore infermo (art. 21-ter);i rapporti con la famiglia (art. 28);il permesso di necessità per gravi motivi (art. 30);la semilibertà (art. 48); le licenze (art. 53) (Il documento dell’Ufficio Studi Ricerche Legislazione e Rapporti Internazionali del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) 

Nel condividere l’idea che occorra sostenere i diritti delle persone ritengo che nello specifico di quelle affette da disturbi mentali occorra una maggiore flessibilità in quanto alcune rigidità non hanno alcun senso e possono limitare fino a compromettere le capacità terapeutiche riabilitative e le spinte all’autonomia delle persone in particolare quelle con disturbi mentali che vanno agevolate secondo precise tempi clinci, nel momento in cui sono pronti. Faccio riferimento alla licenze  (Art. 53. Licenze agli internati   Agli  internati  puo’  essere  concessa una licenza di sei mesi nel periodo  immediatamente  precedente  alla  scadenza  fissata  per  il riesame di pericolosita’.   Ai  medesimi  puo’  essere concessa, per gravi esigenze personali o familiari,  una  licenza  di  durata non superiore a giorni quindici; puo’  essere  inoltre  concessa una licenza di durata non superiore a giorni   trenta,   una  volta  all’anno,  al  fine  di  favorirne  il riadattamento sociale.) che debbono essere concesse quando il paziente è in grado e non in base ad un determinato periodo; lo stesso per quanto attiene ai limiti di trenta giorni per favorire il riadattamento sociale  che possono essere del tutto insufficienti in percorsi riabilitativi complessi dove l’inclusione sociale può essere molto complessa e con possibili momenti di difficoltà e regressione.

L’applicazione del regime della semilibertà (art 48 “Il  regime di semiliberta’ consiste nella concessione al condannato e  all’internato  di trascorrere parte del giorno fuori dell’istituto per  partecipare ad attivita’ lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento sociale. “)  è  preferibile della fruizione dei permessi ad horas (concessi “a pacchetto”) che è  attualmente in atto nelle REMS di Casale e Bologna.

Nel complesso serve una maggiore permeabilità e contatto fra interno ed esterno alla REMS come per altro avviene per ogni strutture residenziale e nell’ambito di ogni programma riabilitativo. A questo riguardo si può constatare che le REMS operano in contesti ambientali profondamente diversi (città, campagna, zone ad alta criminalità, spaccio di stupefacenti, zone molto tranquille e presidiate ecc.) ed essendovi la necessità di strutturare forme di flessibilità e percorsi locali, tutto questo rende piuttosto difficile la possibilità di avere un unico regolamento nazionale (per quanto i riferimenti legislativi siano gli stessi) ma potrebbero essere valorizzate tutte le specificità locali in grado di favorire i percorsi di cura. Quindi sarebbe quanto mai importante che la magistratura validasse il progetto terapeutico complessivo della REMS e del singolo utente, nell’ambito della più ampia misura di sicurezza.  Affermare il modello della recovery e vedere i pazienti come risorsa, responsabilizzati, sostenuti nei loro diritti, dando loro speranza e futuro.

I Dipartimenti di salute mentale competenti per territorio devono cercare di migliorare l’efficienza e l’efficacia. La prevenzione è un punto rilevante: circa il 70 % dei pazienti autori di reato è noto ai servizi territoriali. Sviluppare interventi preventivi è essenziale. Una volta entrati nel percorso, spesso l’operatività non è finalizzata in primis a superare la misura di sicurezza e a strutturare un progetto territoriale. Per questo sarebbe necessario che ogni dipartimento declinasse una propria rete di strutture (con personale formato ecc.) atte ad ospitare le persone con misure di sicurezza. L’intervento proposto nelle REMS, di natura “Bifocale” prevede un lavoro con il paziente ed uno con il contesto. Senza quest’ultimo tutta l’attività in REMS potrebbe essere vanificata. Come è noto il percorso in REMS assume significati in relazione al prima e al dopo. Come è noto occorre assicurare i bisogni di base e vedere soluzioni innovative, altamente personalizzate, come è possibile tramite il budget di salute.  E’ molto importante che la rete dei Dipartimenti venga rinforzata con le adeguate risorse di personale e strutture, anche grazie ai fondi destinati dalla legge per il superamento degli OPG.

E’ molto rilevante dare certezze nella Revisione delle misure e certezza nei tempi nelle domande e nelle risposte. In questo ambito possono essere utili accordi  con la magistratura.

Qualità della valutazione (dei periti, dei responsabili delle REMS, dei servizi, importanza delle relazioni) Potrebbe essere utile un gruppo di esperti per la rivalutazione della pericolosità e delle misure che possa affiancare il magistrato nella valutazione.

3) Risolvere la questione della responsabilità dello psichiatra

E’ di questi giorni la notizia dell’accusa di omicidio  colposo mossa allo psichiatra per un delitto commesso da un  paziente in cura ed ospite di una struttura residenziale dove era stato inserito dopo un lungo percorso di cura che aveva visto anche la permanenza in OPG.  Infatti, la procura di Pistoia ha accusato di omicidio colposo lo psichiatra  a seguito dell’assassinio avvenuto il 17 gennaio 2014 in una casa famiglia, dove un paziente uccise il compagno di stanza dopo un lungo percorso di cura che aveva comportato, per un precedente reato, anche il ricovero in OPG e un lungo periodo di osservazione. Un fatto molto grave, che insieme all’umana pietà e ad un pensiero  solidale per la vittima e per tutti coloro che sono coinvolti, richiede alcune riflessioni.  La base giuridica dell’accusa è data dall’art 40 del c.p. 2 comma (“Non prevenire un fatto che si ha l’obbligo giuridico di impedire  equivale a causarlo”) che pone a carico del medico la c.d.  “posizione di garanzia”.  Lo psichiatra non può essere responsabile per le azioni commesse  dai pazienti in cura. Per diversi motivi:

  • giuridici: relativi alla capacità di intendere e volere, nonchè  di agire che la maggior parte dei pazienti possiede ed anche a  fronte  di fatti reato l’incapacità d’intendere e volere deve essere  dimostrata in modo circostanziato non potendosi escludere che il  fatto derivi da una libera scelta consapevole;
  • scientifici: mediante metodi e strumenti scientifici non vi è la possibilità di prevedere  i comportamenti umani, non vi è la capacità di prevenire con certezza i comportamenti aggressivi auto o eterodiretti. Si possono solo  valutare i fattori di rischio, precipitanti e di protezione. Il soggetto può non essere pericoloso ma diventarlo dopo l’assunzione  di sostanze (alcool o cocaina ad esempio). Quindi si tratta di condizioni non inscritte solo nella patologia o negli aspetti biologici ma dipendenti da molteplici fattori  psicologici, relazionali, sociali ed economici (ad esempio un  paziente tossicodipendente in astinenza può commettere un reato per  procurarsi il denaro per la dose mentre non fa assolutamente nulla se ha la dose). Ne consegue che la pericolosità non è una  condizione statica ma dinamica e correlata con una  molteplicità di  fattori, relazioni variabili nel tempo/spazio;
  • la nozione di pericolosità sociale presunta (ex art. 204 del  c.p.) per malattia mentale è stata abolita; la legge 180/78 (poi 833/78) supera la nozione di “pericolosità a sé e agli altri” a  favore  di un modello di cura diverso basato sul consenso, la  responsabilità, la  territorialità e quindi limita il ricorso ai trattamenti sanitari obbligatori ospedalieri alle sole condizioni urgenti, di rifiuto delle cure e nell’impossibilità di attuare adeguati  tempestivi interventi terapeutici nel territorio. Al paziente sono attribuiti diritti e doveri.  I professionisti fanno quanto possibile, sia per curare le persone  sia per sensibilizzare i contesti ed un maggiore impegno della  società potrebbe aiutare a ridurre povertà, stigma, emarginazione e  abbandono. Pur con tutte le cure, nessuno però ha il potere della  veggenza. Non viene chiesto alle forze dell’ordine, ai magistrati  nei confronti del soggetto autore di reato e a rischio di recidiva. La responsabilità è personale, anche per la persona con disturbi  mentali. Questo va detto specie in questa fase di superamento degli  OPG e di creazione della rete delle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS) dove è essenziale un metodo condiviso tra  magistrati, psichiatri, forze dell’ordine e comunità sociale, per prevenire e gestire  gli inevitabili rischi e attuare i programmi terapeutici e riabilitativi formulati secondo criteri tecnici e scientifici. In  questo occorre tenere sempre conto della mancanza di certezze assolute e della  frequente incertezza e del dubbio insito nelle pratiche  psichiatriche e sociali che vanno viste ex ante mentre è troppo facile farlo ex post, magari dopo un grave  incidente.  Quindi il modello di cura adottato in Italia è fondato su precise  leggi, requisiti e strutture e non può assumere caratteristiche custodialistiche. Chiedere questo al singolo medico, cioè di essere  in grado con  strumenti tecnici e scientifici di predire e prevenire i  comportamenti umani significa attribuirgli un compito umanamente impossibile.

Al contempo per cercare di prevenire incidenti occorre molta conoscenza (del paziente, delle strutture, del contesto), fiducia reciproca (lavoro di equipe e di collaborazione interistituzionale), condivisione dei progetti (e dei rischi), capacità di verificarli periodicamente, con molto realismo e umiltà ricordando che non vi è attività umana che non  possa essere migliorata e che sia priva di rischi. Per questo possono essere utili sistemi di valutazione e definizione di tipo gruppale (es. di Esperti) al fine di non lasciare decisioni assai delicate al singolo operatore.

c) Limiti e problemi aperti

Sappiamo di essere in una fase temporanea, transitoria, carica di contraddizioni nella quale la componente psichiatrica in termini culturali, scientifici ed etici deve essere protagonista, esprimere la propria posizione a tutela del mandato di cura.

  1. La fase valutativa della persona non conosciuta e mai diagnosticata da psichiatri non trova nella REMS l’ambito operativo più appropriato. La REMS è una residenza ed ha alcuni limiti evidenti: non è un ospedale, con difficoltà può strutturare percorsi per la diagnosi differenziale. L’impatto del nuovo ingresso su persone che hanno già in atto percorsi abilitativi può compromettere il clima operativo, la qualità degli interventi e della vita della struttura. Non solo ma occorre scongiurare il rischio di un utilizzo improprio delle REMS da parte della criminalità.
  2. La questione delle recidive e reiterazione dei reati apre riflessioni su alcune tipologie di pazienti. Ad es. pazienti resistenti ai trattamenti o fortemente oppositivi agli stessi, pazienti con disturbi gravi della personalità e uso di sostanze; pazienti con ritardo mentale. Il loro numero reale va identificato e va aperta una riflessione come era  avvenuto alla chiusura dell’OP quando diversi pazienti che erano stati contenuti o in isolamento per lungo tempo, una volta collocati in diversi contesti assistenziali sono risultati del tutto gestibili (a dimostrazione dell’effetto disumanizzante delle istituzioni totali). Quindi occorre comprendere quanta parte della ingestibilità sia frutto della esperienza istituzionale e del modello carcerario e quanto sia invece più strettamente connesso al quadro psicopatologico seppure letto e affrontato tenendo conto di tutti gli aspetti biologici, psicologici, sociali e di contesto.  Questa considerazione rende necessario vedere quali strumenti adottare per le diverse tipologie di utenza prima indicate (ritardo mentale, uso sostanze/d. di personalità, psicosi resistenti) strutturando le risposte adeguate. Infatti, in molti casi, questi pazienti “difficili” sono tali per servizi, famiglie e comunità anche in assenza di reati. La via giudiziaria può essere un’occasione per incrociare quella della cura ma talora risulta del tutto inutile se non dannosa (ad es. nel ritardo mentale medio-grave) e quindi deve essere il più possibile prevenuta, specie se i reati commessi sono di piccola entità. Va forse previsto un percorso specifico per i soggetti altamente resistenti ai trattamenti, ad alto rischio o con diverse recidive nelle condotte criminali gravi che pongono elevati problemi di sicurezza (e controllo comportamentale) decisamente prevalenti sui bisogni di cura. Una tipologia di utenti che al momento è difficile quantificare che potrebbe beneficiare di  un trattamento specifico nell’ ambito percorsi specifici organizzati anche con gli istituti penitenziari.
  3. La tipologia delle strutture: l’indagine che sta effettuando StopOpg dimostra che le REMS sono molto diverse fra di loro. L’impressione, almeno vedendo alcune esperienze (Lombardia, Emilia Romagna,  Friuli) sembra che ciascuna regione abbia in un qualche modo seguito alcune linee operative già sperimentate nella prima fase della chiusura dell’Ospedale psichiatrico ovviamente con i dovuti aggiornamenti alla luce del tempo trascorso. Attualmente si va da posti REMS in residenze ordinarie, a strutture REMS “dedicate” fino al complesso di REMS (?) costituito dall’ex OPG di Castiglione. Occorre confrontare i  modelli delle REMS realizzati e verificarne l’adeguatezza, al fine di vedere se servono altre soluzioni, REMS a diverso livello di protezione. Bisogna anche condividere come prevenire, affrontare e gestire rischi quali fughe, atti aggressivi, violazioni. Siamo in un sistema che prevede un “doppio binario” (prosciolti e imputabili) e pertanto viene da chiedersi quale debba essere il rapporto con la sanità penitenziaria, limitatamente a situazioni dove è decisamente prevalente la necessità di sicurezza e controllo. Chiudere gli OPG è possibile, riuscire a farsi carico delle persone con disturbi mentali senza strutture dedicate può essere una linea di tendenza ma realisticamete, seppure in modo residuale almeno in questa fase non pare possibile fare a meno di REMS ben funzionanti e collegate con il territorio.
  4. Il lavoro territoriale: in termini molto pragmatici sembra che il modello adottato, se applicato in modo corretto possa portare a chiudere e superare gli OPG mediante il modello della psichiatria di comunità fondato sul lavoro nel territorio. Per quanto di nostra competenza sembra che la maggior parte dei pazienti ospiti delle REMS abbia caratteristiche simili a quelli degli altri utenti dei Dipartimenti di salute mentale e quindi possono essere assistiti nell’ordinaria rete dei servizi. Resta una quota minoritaria che probabilmente necessita di una soluzione “specialistica”   e residuale quale può essere la REMS. Sul fabbisogno di posti REMS è difficile esprimersi ma sulla base dell’esperienza di questi mesi possiamo dire che in Emilia Romagna (4,5 milioni di abitanti) 24 p.l. sembrano sufficienti a condizione che si attivino dimissioni ecc.  Il buon funzionamento della legge dipende da molti fattori: in particolare l’appropriatezza degli accessi  è legata alla magistratura di cognizione che va aiutata tramite il Cruscotto. La collaborazione con la magistratura di sorveglianza è essenziale per la gestione dei pazienti con misure di sicurezza non detentive (libertà vigilata) con prescrizioni richiede una forte collaborazione sul territorio e sarebbe auspicabile una specifica procedura per definire tempi/modi delle dimissioni (anche tramite un collegio di esperti). Nel complesso vi è l’assoluta necessità di tutelare il mandato di cura a fronte di ogni possibile tentativo consapevole e/o inconsapevole di deformazione che renderebbe del tutto inutile l’investimento trasformando le REMS in inutili, inadatte e pericolose strutture custodialistiche . Su questo punto la vigilanza e il sostegno della società civile è essenziale. Occorre infine essere consapevoli che tutto questo è possibile nell’ambito di un sistema di welfare pubblico e universalistico che va sostenuto complessivamente  con particolare attenzione ai DSM. Nonostante gli impegni i dati nazionali dell’ultimo triennio parlano di riduzione del personale e delle risorse (dal 2011-14, -2,4%)
  5. Avere dati di processo ed esito. Osservatorio nazionale, regionale, sistema informativo.

d) Prospettive

La questione a lungo termine: gran parte dei pazienti (dai pochi dati disponibili circa il 70% dei dimessi da percorsi ex OPG) resta in cura nei dipartimenti spesso ospite delle strutture residenziali socio-sanitarie e questo va tenuto presente nella programmazione. Vedere il sistema complessivo e comprendere come articolare nel tempo le risposte, sapendo che questi percorsi tenderanno ad assorbire quote crescenti di risorse.

Il tema intercetta altre due grandi questioni che mi limito a citare:

1) la salute mentale e l’assistenza psichiatrica negli istituti penitenziari (sia per il dato epidemiologico che per il carico di sofferenza e pertanto vanno definiti e completati i percorsi)

2) La questioni dei minori autori di reato (legge 448/1988).

e) Quali riforme?

E’ essenziale rivedere la normativa sull’uso di sostanze per non carcerare i consumatori di sostanze.

Imputabilità della persona con disturbi mentali? Quale riforma delle misure di sicurezza? (forme di affidamento in prova? Azione penale minima)

Va ricordato che la legge 9 del 2012 non ha abolito la misura di sicurezza del ricovero in OPG. Questa misura resta ma l’OPG è sostituito dall’insieme dei servizi sanitari, sociali e di comunità (e non solo dal DSM).

La misure di sicurezza di tipo detentivo e non detentivo (libertà vigilata) potrebbero essere declinate diversamente ad es. quelle di tipo detentivo dovrebbero prevedere “la detenzione domiciliare” o presso strutture reclusione o arresto presso l’abitazione o altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza o accoglienza (”domicilio’)  e non solo presso le REMS; va ancora ricordato che la legge 67/2014 prevede anche la detenzione oraria  che può avere durata continuativa o per singoli giorni della settimana o fasce orarie. Puo’ essere eventualmente prescritto il braccialetto elettronico;  tra le misure non detentive si dovrebbero potere includere la messa alla prova (legge 67/2014), i lavori socialmente utili.

Per il soggetto con seminfermità mentale non ha senso che la misura di sicurezza detentiva venga effettuata al termine della detenzione in carcere.

f) Attivazione della comunità sociale

E’ indispensabile ricordare che il processo richiede una forte spinta culturale, politica, tecnica e adeguate risorse. Occorre uno nuovo punto di incontro fra psichiatria e magistratura di cognizione e di sorveglianza, affinché venga data sempre appropriata applicazione alla legge 81/2014 e a tal fine sono importanti tavoli di lavoro, protocolli, formazione congiunta. Ma magistrati e psichiatri non vanno lasciati soli.

Infatti è assai rilevante che il processo riformatore sia sostenuto da un nuovo “Patto sociale” e da un forte impegno e coinvolgimento dei diversi attori (giudici, sanitari, prefetti, forze dell’ordine, amministrazione penitenziaria, avvocati, ma anche sindaci, comunità locale, opinione pubblica, mass media. e ovviamente pazienti, famiglie e volontariato) in grado di  dare compimento ad un progetto di accoglienza (con opportunità di casa, formazione, lavoro e relazioni sociali) delle diversità che superi la cultura della separatezza e della segregazione (in  carcere o altri luoghi)  ma sappia recuperare alla comunità, condividendone anche nei rischi, tutte le persone dando così piena applicazione alla nostra Costituzione.

Pietro  Pellegrini*, Giuseppina Paulillo**

*Direttore del Dipartimento Assistenziale Integrato Salute Mentale Dipendenze Patologiche

** Direttore della REMS di Parma e Direttore ff UOC Psichiatria Adulti.

Ausl  di Parma

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